Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tre importanti musicisti europei, che non possono essere collegati all’estetica della scuola di Darmstadt, nascono tra la Transilvania e il Mar Nero. L’opera di Xenakis pone subito una sfida alla tradizione della musica dell’Occidente, l’organizzazione del suo pensiero musicale è inizialmente fondata su un’immagine spaziale, non polifonica, che traduce in suono suggestioni geometriche del movimento. La posizione di Ligeti è invece di critica costruttiva al serialismo strutturante e di rivendicazione al compositore del libero arbitrio nei processi di trasformazione. La figura di Kurtág, più defilata dal dibattito sulla Nuova Musica, almeno fino agli anni Ottanta, è piuttosto quella di un grande maestro che cerca la propria strada senza mai rinunciare al rapporto con la tradizione e senza mai abdicare alla propria originalità.
Xenakis scultore dei movimenti sonori
Può sembrare una fuggevole coincidenza il fatto che alcuni tra i più importanti musicisti europei, che nella seconda metà del Novecento percorrono una strada diversa od opposta a quella tracciata dalla Scuola di Darmstadt, abbiano i loro natali in Romania senza essere romeni. Ma merita considerare, che quel vasto territorio a mezza strada tra cultura latina, slava, tedesca, ungherese, ebraica, turca e mediterranea, affacciato sul Mar Nero e attraversato dal Danubio, è ancora, alle soglie del Novecento, uno straordinario teatro di attriti e di tolleranze, di idiosincrasie e di collaborazioni, in un rapporto con le capitali dell’Europa colorato a un tempo di fascino e disincanto.
I percorsi artistici di Iannis Xenakis (1922-2001)(1922-2001), di origine greca, György Ligeti (1923-2006) (1923-2006) e György Kurtág (1926-) (1926-), ambedue di origine ungherese, offrono tre diverse, autonome alternative all’ufficialità della cultura musicale europea del secondo Novecento, dietro le quali non è possibile non scorgere la forza e la libertà legate all’origine geograficamente eccentrica delle loro biografie.
“Con Xenakis ci si trova al di là della storia della musica; questa storia non sembra più l’unica possibile: è finita e cede il posto. Ci si domanda per la prima volta ciò che essa, nel suo insieme, ha voluto dire e perché scompare. E ci si domanda – anche con una certa angoscia – quale sia la necessità, il senso più profondo di questa necessità, che ha portato Xenakis a prendere radicalmente partito per la sonorità ’oggettiva’ del mondo contro quella di un’anima e della sua soggettività sentimentale” scrive Milan Kundera in Xenakis, “profeta dell’insensibilità” (1988). Ingegnere per necessità, architetto per passione, musicista per irrinunciabile vocazione, Xenakis inietta da subito nella sua opera musicale l’attenzione fisico-matematica per i processi di trasformazione; la prima opera pubblicata, Metastasis, per orchestra, eseguita per la prima volta nel 1955 a Donaueschingen, appare come un vero manifesto della posizione estetica del musicista: gli strumenti dell’orchestra tradizionale vengono impiegati, nella prima e nella terza parte della composizione, per dar vita a masse sonore in un continuo movimento realizzato da glissando omogenei, linee rette che interagiscono, si intersecano, si avvicinano e si divaricano, seguendo un modello precostituito, che molto ha a che fare con un’architettura virtuale. Non a caso un’idea analoga sta alla base della costruzione del padiglione Philips, realizzato dallo stesso Xenakis per l’Esposizione Internazionale di Bruxelles, nel 1958. In Pithoprakta, per orchestra, di due anni successivo, le masse sonore sono ottenute combinando suoni di strumenti diversi, attraverso l’uso del calcolo delle probabilità. In ambedue i casi l’effetto che ne deriva conduce l’ascoltatore attraverso un paesaggio sonoro assolutamente nuovo e sconosciuto, dove i punti di riferimento noti, la polifonia, il contrappunto, l’articolazione tradizionale, sono assenti o compaiono eventualmente come una tra le diverse possibilità di aggregazione sonora.
Nel corso di una carriera cinquantennale, gli strumenti tecnici e concettuali di Xenakis si affinano costantemente; egli parte dall’utilizzazione lineare di masse sonore, secondo un progetto empirico, per passare al calcolo combinatorio e quindi ai procedimenti stocastici, alle catene di Markov, alla logica formale; dall’uso quasi astratto del timbro strumentale, il musicista procede negli anni verso un’attenzione sempre più minuziosa nei confronti delle potenzialità timbriche, fisiche di ciascuno strumento, operando contemporaneamente con il mezzo elettronico e con la musica computazionale. A partire dalla metà degli anni Settanta molti lavori di Xenakis non rimandano più esplicitamente a modelli logico-matematici, compare invece sempre più spesso un’originale volontà di proliferazione sonora, di ramificazione polifonica che il compositore definisce come arborescenze, con un riferimento tanto evidente quanto simbolico alla biologia molecolare. Resta tuttavia immutato, nella musica di Xenakis, il fascino di un organismo sonoro pulsante che agisce nel campo acustico come una scultura in movimento nello spazio fisico.
Ligeti compositore delle metamorfosi
Nel 1958 appare sulla rivista “Die Reihe” un lungo saggio dal titolo Metamorfosi della forma musicale, in cui Ligeti espone la propria critica, appassionata e puntuale, nei confronti del serialismo integrale e della forma aperta, al termine della quale rivendica al compositore tutta la potenza e l’arbitrarietà della decisione compositiva: “Riterrei però più proficuo tentare e sviluppare un disegno compositivo del processo di cambiamento”. Ligeti ha da poco abbandonato l’Ungheria per l’Europa occidentale, entrando così finalmente in contatto con quell’avanguardia musicale, che da oltre cortina appare miticamente fascinosa e lontana. Il primo approdo è Colonia, dove entra in contatto con Eimert e Stockhausen, che lo coinvolgono nell’esperienza della musica elettronica presso lo studio di fonologia del Westdeutsche Rundfunk: in un brevissimo lasso di tempo, tra il 1957 e il 1958, appaiono, originali e stimolanti, i lavori elettroacustici di Ligeti, Glissandi, Pièce électronique n. 3, Artikulation; non sarà tuttavia questa la strada maestra del compositore ungherese, che vorrà ricercare nella più umana voce degli strumenti tradizionali la possibilità di dar vita alla sottilissima filigrana delle metamorfosi incessanti, che già costituiscono la traccia profonda della sua sensibilità espressiva e che il mezzo elettronico ha reso per la prima volta evidenti. Nelle prime composizioni per orchestra, che vedono la luce tra il 1959 e il 1961, Apparitions e Atmosphères e in Volumina, per organo del 1962, è la rivelazione della potenza e dell’autonomia profonda del pensiero musicale di Ligeti; nei risultati e nei mezzi impiegati per raggiungerli, la distanza dall’ufficialità di Darmstadt è siderale, nello stesso tempo le premesse estetiche e il rigore etico del lavoro compositivo sono ferrei e pressoché inattaccabili. Un’altra strada è tracciata, una strada che parte da dentro la storia e che nulla rinnega di essa. La fascinazione quasi ipnotica che queste tre composizioni esercitano sull’ascoltatore valgono al musicista l’attenzione entusiastica di gran parte del pubblico e molte accuse di edonismo e superficialità, accuse che chiederanno molto tempo per sciogliersi in una quasi unanime ammirazione e che relegheranno il compositore in una parziale marginalità per almeno un decennio.
La convinzione che il suono debba manifestarsi nella sua potenza espressiva attraverso la struttura compositiva, e non malgrado essa, è la costante, che potremmo anche definire morale, del pensiero di Ligeti, che lo porta ad attraversare i campi modernissimi e antichi della rarefazione del tempo e della sua irreversibilità, del meccanismo di precisione che si polverizza nell’entropia e del caos che viene ordinandosi in una forma riconoscibile; opere come il Concerto per violoncello (1966), il secondo Quartetto per archi, Continuum per clavicembalo (1968) e Lontano per orchestra (1967) testimoniano di questo assoluto rigore mai dimentico dell’aspetto sensibile del suono.
Composizioni più recenti, come la Passacaglia ungherese per clavicembalo (1978), il Trio per violino, corno e pianoforte (1982) o la Sonata per viola (1991-1994), che appaiono così differenti tra loro e più complesse nel proprio rapporto con la tradizione, mostrano un nuovo aspetto del compositore ungherese, e di una poetica musicale che riesce ogni volta a varcare i confini precedentemente definiti, senza cristallizzarsi mai in uno statico paradigma.
Dramma e ludus in Kurtág
È solo dagli anni Ottanta del secolo scorso, che la musica di György Kurtág comincia a venir conosciuta e apprezzata nel suo grande valore anche nell’Europa occidentale. Musicista di difficile definizione, volendo riferirsi a una qualche scuola del secondo Novecento, Kurtág non è seriale né antiseriale, non minimalista né aleatorio, mai conservatore né ostentatamente rivoluzionario. Il suo linguaggio musicale va lentamente consolidandosi attraverso un costante processo di ricerca e di raffinamento, che non prescinde dall’eredità storica della musica occidentale e ungherese in particolare, ma che mai ne appare in alcun modo succube. In un’opera come Stele per grande orchestra (1994) il particolarissimo rapporto di Kurtág con la tradizione è trasfigurato e reso vitale da un linguaggio che riesce a fondere la più essenziale semplicità con la più straziante drammaticità. Essenzialità e dramma, come nell’aggressività del bambino o come in quello stato particolare in cui, per usare le parole del compositore, “l’aggressione diventa forma musicale”.
Il portato della grande attività didattica del maestro ungherese traspare durante la sua carriera di compositore nell’opera diaristica degli straordinari Giochi (Játékok), per pianoforte, 2 pianoforti e pianoforte a 4 mani. Composti ininterrottamente, in due serie di quattro libri ciascuna, a partire dal 1975, fino a oggi, Játékok, si offrono ugualmente al giovane apprendista e al virtuoso, che sia in grado di riscoprire quello stato del bambino, per cui “suonare è ancora un gioco”.