libroide
s. m. (iron.) Pubblicazione che ha i requisiti esteriori di un libro, ma è pensata con l’unico scopo di soddisfare il mercato editoriale.
• di replicanti, cioè di androidi, neanche l’ombra. In compenso però non scarseggiano i libroidi, quegli oggetti cioè che dei libri hanno tutte le fattezze, sia fisiche, sia commerciali, sia propriamente libriche (dispongono di un autore ‒ anche se a volte solo nominale ‒, di un editore, di un copyright, spesso di un indice), ma dei libri non hanno l’anima. O, più umilmente, non hanno il capo e la coda, l’invenzione di una storia, il bene di un concetto, un autore vero. (Gian Arturo Ferrari, Repubblica, 1° aprile 2012, p. 42, RCult) • Bisognerebbe urlare […] Che non bastano i festival, ma andrebbero riconosciute e identificate, come in Francia, le librerie di qualità, le quali andrebbero favorite invece di essere messe sotto scacco dalle catene che promuovono (quasi solo) libracci o libroidi da classifica con sconti fenomenali, mentre la saggistica che fa riflettere langue e spesso bisogna cercarla col lanternino tra gli scaffali: (Paolo Di Stefano, Corriere della sera, 24 febbraio 2013, p. 42, Idee & opinioni) • La cucina neomediale è così, l’ibridismo trionfa, l’economia della condivisione ha creato un linguaggio che sfugge ai critici dei media, li emargina, li spiazza. [...] Che quello di cui parliamo sia un libro (un libroide forse) tradisce il desiderio dei grandi editori (Penguin!) di agganciarsi al successo dei media coalescenti; ma per chi lo ha pensato non c’è differenza con un video YouTube, un «gif» animato, un disegno taggato. (Michele Smargiassi, Repubblica, 28 febbraio 2016, p. 36, Domenicale).
- Derivato dal s. m. libro con l’aggiunta del suffisso -oide.
- Già attestato nella Repubblica dell’11 dicembre 2010, p. 41, R2 (Stefano Bartezzaghi).