libertà
Il termine ricorre con alta frequenza nell’opera machiavelliana, in tutte le accezioni del latino libertas. Designa anzitutto la non dipendenza di un’entità politica, o nazionale, da altri: «molte città si ricomperorono [‘si riscattarono’ dal dominio dell’impero] e con la libertà mutorono modo di vivere» (Istorie fiorentine I xxv 1); «Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam» (Principe xxvi). Entro uno stesso orizzonte politico, è ‘libera’ una «parte» non oppressa dall’altra: «Carlo, avuta questa autorità, fece armare tutti i suoi amici e partigiani; il che dette tanto sospetto al popolo che non volesse torgli la sua libertà [...]» (Istorie fiorentine II xix 5); o una città che non subisca la prepotenza di un organo costituzionale, monarca compreso («in breve tempo [Tarquinio Superbo] spogliò Roma di tutta quella libertà ch’ella aveva sotto gli altri re mantenuta», Discorsi III v 4), o di colui che facendosene principe la priva della l. («Francesco Sforza [...] non solamente ingannò i Milanesi de’ quali era soldato, ma tolse loro la libertà e divenne loro principe», Arte della guerra I 56). A proposito delle popolazioni elvetiche, libere dal potere centrale dell’impero, come dalla presenza di un ceto nobiliare, M. conia una formula di speciale fascino: «godonsi sanza distinzione alcuna di uomini, fuora di quelli che seggono nelli magistrati, una libera libertà» (Ritratto delle cose della Magna, § 18, in SPM, p. 573).
In senso più stringente, la l., o vivere libero (Discorsi I v 1; ecc.), si identifica con la repubblica (→) in quanto ordinamento alternativo al principato; o si dica, meglio, che della repubblica la l. costituisce il ‘sentimento’, l’ideale che dura nel tempo e nella memoria dei popoli al di là della sua concreta sussistenza: «Voi cercate fare serva una città la quale è sempre vivuta libera [...] Avete voi considerato [...] quanto sia gagliardo il nome della libertà, il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma e merito alcuno non contrappesa?» (i fiorentini al duca d’Atene, in Istorie fiorentine II xxxiv 10-11). Il motivo già risuona nella forma di un’esortazione rivolta ai propri concittadini in uno scritto del 1503:
io vi dico che la fortuna non muta sentenzia dove non si muta ordine; né e’ cieli vogliono o possono sostenere una cosa che voglia ruinare ad ogni modo. Il che io non posso credere che sia, veggendovi Fiorentini liberi, ed essere nelle mani vostre la vostra libertà. Alla quale credo che voi arete quelli respetti che ha auto sempre chi è nato libero e desidera viver libero (Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, §§ 44-45, in SPM, p. 452);
e ha uno svolgimento assai rilevante, e solo apparentemente paradossale, nel cap. v del Principe, dove si impartisce la ‘regola’ che «non ci è modo sicuro» a possedere una città usa a vivere in l. «altro che la ruina» sua (§ 6). Nel cap. ix dell’opuscolo, la l., come sinonimo di repubblica bene ordinata, si presenta quale alternativa sia al principato sia a una situazione di anomia e disordine: «da questi dua appetiti diversi [del popolo e dei grandi] nasce nelle città uno de’ tre effetti: o principato o libertà o licenza» (§ 2).