Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nonostante alcune convergenze sul piano della critica all’autorità della Chiesa e sulla riforma della vita pastorale, il disaccordo sulla nozione di libertà fra Erasmo e Lutero rinvia a due concezioni antropologiche incompatibili. Per Erasmo l’uomo è una realtà sostanziale, composta di anima e corpo, mentre per Lutero si tratta di rivendicare una posizione funzionale d’esistenza, di fronte a Dio e di fronte all’uomo. Se per l’uno l’uomo coopera liberamente all’azione divina della grazia, per il secondo bisogna distinguere l’illusorio libero arbitrio dalla libertà interiore, totalmente dipendente dall’onnipotenza divina.
Immagini rovesciate: “Erasmo luterano”
La cesura dottrinale fu profonda, pragmatiche le convergenze, lungo e tenace il malinteso. A dire il vero, il fraintendimento fu doppio, offrendo uni’mmagine a rovescio. Lutero sperò di poter convincere l’umanista a sostenere la Riforma e si scontrò contro la sua moderata e compromissoria posizione di neutralità, mentre i teologi cattolici coltivarono a lungo l’immagine di un Erasmo “eretico”, impregnato di uno spirito radicale (S. Seidel Menchi, Erasmo eretico. Riforma e inquisizione nell’Italia del XVI secolo, 1987). La formula “Erasmo luterano” si ritrova negli scritti antierasmiani dei primi tempi della Riforma ed è utilizzata tanto in Spagna, dal teologo Diego López de Zúniga, quanto dai teologi di Lovanio e nelle opere redatte dai teologi della Sorbona, i quali condannarono in parte le tesi dell’umanista olandese (James K. Farge, Orthodoxy and Reform, 1985). Se questa formula perse gradualmente e rapidamente la sua efficacia, a mano a mano che le differenze dottrinali fra i due autori divennero manifeste, in particolare sulla nozione di libertà, l’associazione fra Erasmo e Lutero persistette in Italia, grazie all’attività dei teologi gravitando attorno all’Accademia romana, profondamente delusi dall’indulgenza della Santa Sede verso l’umanista olandese. Si deve infatti riscontrare una certa flessibilità dottrinale prima del concilio di Trento: alcuni ecclesiastici cattolici non erano stati affatto ostili, almeno fino al 1559, a una riforma della vita pastorale, e alcuni letterati vedevano di buon occhio le critiche d’Erasmo alla corruzione del clero.
La ricezione contrastata d’Erasmo si spiega, soprattutto in Italia, per la dimensione pragmatica del suo insegnamento, in primo luogo per la difesa della tolleranza religiosa, la quale motiva ampiamente l’interdizione dei suoi libri nell’Index dell’epoca tridentina. L’aspetto comune alle Invectivae in Erasmum e alle Orationes contra Desiderium Erasmum Roterodamum dei teologi italiani è la condanna degli aspetti pratici della vita che gli scritti dell’umanista corromperebbero. In primo luogo, Erasmo rimetterebbe in causa, in modo ben più radicale di Lutero, la confessione, il sistema delle indulgenze, il vincolo sacro del matrimonio, l’autorità del papa. Si tratta anche di condannare gli effetti nefasti dell’educazione umanista, ridotta alla manipolazione retorica degli animi e all’uso sistematico della seduzione.
Un parallelo in parte non ingiustificato
Su alcuni aspetti precisi il parallelismo fra Erasmo e Lutero non era ingiustificato. Tuttavia, si tratta di questioni particolari, principalmente pragmatiche, come il commercio delle indulgenze, la castità monacale, il culto delle immagini, o della critica all’autorità di Roma, la quale ha dimenticato lo spirito del cristianesimo primitivo e sostituito la carità e la fede con le opere e la ricerca del profitto (D. Cantimori, “Atteggiamenti della vita culturale italiana nel secolo sedicesimo di fronte alla Riforma”, Rivista storica italiana 53, 1936, pp. 83-110). Ma queste critiche non sono nuove. Il richiamo al cristianesimo primitivo; la priorità della fede interiore sulle manifestazioni esterne del culto; la polemica contro la ricchezza della Chiesa – sono tutti aspetti che hanno alimentato le polemiche medievali (soprattutto in seno all’ordine francescano) e si sono sviluppate nel Rinascimento sotto l’egida di una “prisca teologia” che sapesse rispondere alle attese soteriologiche del tempo, ritrovando un’antica e rinnovata pietà, mettendo fine alle dotte disquisizioni sulla teologia come scienza.
Insomma, le affinità fra Erasmo e Lutero erano sia pragmatiche, sia molto generali, comuni allo spirito dell’epoca, scaturendo da una tradizione critica ben radicata, ostile all’autorità politica e sacerdotale della Chiesa di Roma. Proprio queste somiglianze non discriminanti contribuirono all’ingannevole immagine di un “Erasmo luterano” portavoce, se non perfino autore della Riforma. Ma Lutero per primo commise un errore di giudizio.
Storia di un malinteso
La cronaca di un incontro (fruttuoso) mancato è lunga e sconfortante. Nel 1516 Lutero scrive a Erasmo attraverso l’umanista Spalatino, segretario di Federico di Sassonia (Dr. Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, Weimar, poi Kölmn-Weimar, Böhlau, 1883-). L’intermediario è necessario, visto che Lutero non è ancora che un monaco agostiniano sconosciuto, mentre Erasmo gode di una grande fama, grazie alla pubblicazione del Nuovo Testamento e delle opere di san Gerolamo. Ciononostante, Lutero rimprovera audacemente al filologo olandese di non aver interpretato correttamente l’Epistola ai Romani, attenendosi troppo alla lettera senza comprenderne lo spirito. I cavilli del grammatico infastidiscono Lutero, che preferisce adottare una prospettiva teologica, come ricorda ancora a Spalatino nel 1518. L’accusa principale è e resterà sempre la stessa: Erasmo non mette sufficientemente al centro delle sue riflessioni Cristo e la grazia divina. È una critica severa, verosimilmente ingiusta, se si tiene presente l’Enchyridion militis cristiani (si veda Opera Omnia Desiderii Erasmi Roterodami, edizione critica di J. H. Waszink et al., Amsterdam-Oxford, 1969-). Qui Erasmo si rivolge al milite cristiano, ricordandogli che la vera teologia consiste nei due capisaldi della parola di Cristo: fede e carità. Tutti gli altri precetti, alimentari, vestiari, così come l’insieme delle consegne cerimoniali non sono che inutili orpelli, capaci soli di suscitare conflitti. Vivere in Cristo e per Cristo è l’unica dottrina per il cristiano sincero, le cui armi sono la lettura e l’interpretazione della Bibbia, che va letta cogliendone lo spirito.
Cionondimeno il richiamo a Cristo e allo spirito della Bibbia è causa più di conflitto che di concordia. Su questo punto Lutero, almeno per un momento, si illude. Si potrebbe dire: c’è lettura e lettura, perché le interpretazioni della parola di Cristo sono molteplici e controverse. Non a caso allora, Erasmo non si degna di rispondere all’impertinente sconosciuto. Ma Lutero, leggendo l’Enchyridion, è colpito dagli aspetti che fanno eco alle proprie preoccupazioni. Decide allora di scrivere ancora una volta e direttamente una lettera all’umanista (il 28 marzo 1519: Ep. 933, III, 516-517), chiedendogli di appoggiare la riforma evangelica. Il sostegno di un umanista così celebre sarebbe un aiuto prezioso per la causa luterana. Calcolo di principio astuto, di fatto erroneo. Erasmo, infatti, risponde (Ep. 980, III, 605-607) negando ogni implicazione nella causa della Riforma. Due argomenti sono qui presentati, ripresi poi costantemente. Da un lato, Erasmo distingue il suo punto di vista, espresso come letterato, dalla prospettiva teologica e riformatrice di Lutero; dall’altro, rivendica una posizione di neutralità, la quale è giustificata dal desiderio di non fomentare i dissidi che martoriano già abbastanza gli spiriti cristiani. Una tale dichiarazione di neutralità si traduce perfino in una forma d’indulgenza e di tolleranza nei rispetti di Lutero, che non è più un monaco sconosciuto, ma il capo della Riforma, che sarà scomunicato da Roma ed ostracizzato dall’impero nel 1521.
La posizione di Erasmo
Eppure, il rifiuto di prendere posizione, sottraendosi alla difesa così come all’accusa, delude profondamente tutti, gli amici e i nemici di Lutero. In particolare, risulta sempre più evidente il dissidio sulla libertà che distingue radicalmente il comune appello a Cristo e il rinnovamento della lettura dei Testi Sacri. Erasmo si sente allora obbligato a redigere allora una lettera apologetica (1° febbraio 1523), in cui egli finge di rispondere alle accuse di un benevolo luterano a proposito del libero arbitrio. Erasmo esprime qui la sua posizione: bisogna riconoscere il concorso della libertà umana nell’azione della grazia, rimettendosi alle Scritture, tralasciando le dispute filosofiche, senza pretendere di svelare i misteri divini. Questo ritegno, intriso di moderazione e d’umiltà, ebbe come effetto di far esplodere la collera dellu’manista Ulrich von Hutten, partigiano di Lutero, ammiratore – un tempo – di Erasmo, il quale replicò violentemente nello scritto Spongia adversus aspergines Hutteni (Spugna contro le inzaccherate di Hutten, 1523: ASD, IX-1, 91-120).
Non c’è più spazio né tempo per i malintesi. Il conflitto acrimonioso è ormai palese, come si evince dallo scambio di lettere della primavera 1524. Lutero mette in dubbio il talento filologico di Erasmo nel leggere la Bibbia, ma spera almeno che l’umanista terrà davvero un atteggiamento neutrale, che non è lungi però dal considerare un segno di vigliaccheria. Erasmo non è altro che uno “spettatore” di tragedie, e non c’è nulla di sublime in questa passività. Ferito da una tale accusa di meschina prudenza, Erasmo rivendica il suo statuto di protagonista, non di mero spettatore, e sembra annunciare il suo scritto sulla libertà, che dovrebbe criticare la concezione della grazia luterana. Infatti, una prima redazione sul libero arbitrio è inviata nel 1524 all’amico Louis Ber, un teologo a cui Erasmo si rivolge per avvalorare le sue riflessioni teologiche. Il testo sarà pubblicato a Basilea, presso Froben, nel settembre 1524. Lutero prende rapidamente conoscenza dello scritto erasmiano, a cui risponde con Servo Arbitro. La critica si è stupita della lentezza inconsueta della risposta da parte di Lutero, ma lo scritto di Erasmo, per la sua natura irenica e accomodante, non richiedeva un repentino e intervento. Lutero stesso fece notare a Erasmo il tono misurato delle sue critiche nel Servo Arbitro. Non a caso, anche i principi della curia romana si mostrarono moderatamente soddisfatti dello scritto erasmiano, che fu giudicato ancora una volta troppo conciliatorio, mentre Lutero e i suoi seguaci furono ulcerati anche dallo scritto posteriore Hyperaspistes diatribae adversus servum arbitrium Martini Lutheri (Superscudo della diatriba contro il servo arbitrio di Martin Lutero, Basilea, Froben 1526, prima parte; 1527 seconda parte). La rottura è consumata; gli insulti piovono. Malgrado le apparenze, il disaccordo sulla natura dell’uomo e sul suo rapporto con Dio è profondo. Su questo punto l’incomprensione è profonda e reciproca.
Un disaccordo profondo
Il conflitto sulla libertà non si riduce affatto allo scontro fra una posizione moderata e una concezione radicale, ma esplode fra due concezioni antropologiche e teologiche incompatibili. Si potrebbe forse anche aggiungere che la contesa fra Erasmo e Lutero segna il confine fra due culture, umanistica e moderna. L’argomentazione di Erasmo è, infatti, intrisa di spirito umanista, ma ne rivela anche i limiti concettuali di fronte all’esigenza di trovare delle risposte convincenti a delle esigenze filosofiche e teologiche inedite. Il dialogo mancato fra Erasmo e Lutero non è dunque tanto l’esito funesto del’lincontro fra uno spirito irenico e un’anima esacerbata, entrambi poco propensi a prendere in considerazione l’opinione dell’altro, quanto la conseguenza logica di due visioni contraddittorie.
Erasmo è spesso accusato di essere uno “scettico”, di professare una fede intrisa di dubbio. Di fatto, l’umanista olandese rivendica i benefici del metodo argomentativo scettico. Non si tratta di aderire allo scetticismo radicale di Pirrone, che conduce alla pura afasia, all’impossibilità di pronunciarsi, poiché tutte le opinioni si equivalgono. Erasmo ritrova invece lo scetticismo dell’Accademia platonica, rinnovato da Cicerone. Questo scetticismo vuole rimanere fedele al dubbio socratico, sospendendo il giudizio su delle questioni controverse che non permettono di trarre delle conclusioni necessarie. Il metodo scettico consiste nel mettere a confronto degli argomenti pro e contro, e nel comparare le conseguenze accettabili o inaccettabili delle formulazioni positiva e negativa della stessa tesi. E proprio quest’approccio che Erasmo adotta nel De libero arbitrio. Da un lato, l’atteggiamento scettico non è contraddittorio con la fede: molti Padri della Chiesa l’hanno provato; anzi, la sospensione del giudizio è una manifestazione della pia curiositas, che non si arroga il diritto d’investigare i misteri divini con questioni astruse, ma si limita a coltivare una sincera e modesta pietas. Di conseguenza, Erasmo presenta gli argomenti pro e contro la tesi della negazione del libero arbitrio e ne valuta la natura accettabile o inaccettabile delle conseguenze. Ma bisogna subito osservare che il piano su cui l’argomentazione è condotta è l’interpretazione delle Scritture, e non la valutazione dialettica delle deduzioni logiche. Inoltre, Erasmo evita di cimentarsi con i problemi teologici fondamentali, affrontati in maniera assai semplificata e sintetica (per esempio le distinzioni fra le diverse modalità della grazia), infatti, le conclusioni sono esaminate soprattutto dal punto di vista antropologico. Erasmo sostiene che le due tesi contraddittorie, l’una affermando, l’altra negando il libero arbitrio, conducono entrambe a delle conseguenze inaccettabili. La concezione “pelagiana” afferma che la volontà peccatrice dell’uomo è stata guarita dalla grazia, per cui non c’è bisogno di formulare l’ipotesi di una nuova grazia. L’uomo può tendere alla salvezza, facendo affidamento sul suo libero arbitrio: tale affermazione è, per Erasmo, un’espressione d’arroganza, che dimentica l’indigenza propria del genere umano. Ma la negazione del libero arbitrio conduce a pensare che tutto ciò che avviene nel mondo è sottomesso a una pura necessità; non avrebbe così più senso imputare agli uomini colpi e meriti. La responsabilità morale sarebbe una vana illusione, sottomessa a un Dio imperscrutabile. Ci sono gradi diversi in questa negazione: Karlstadt stima che la grazia divina interviene all’interno del libero arbitrio, il quale in sé non serve che a peccare. Più radicale è Lutero, per il quale il termine stesso è privo di senso. La strategia di Erasmo è doppia: mostrare che i passaggi delle Scritture che sembrano negare il libero arbitrio possono essere interpretati in suo favore; denunciare le incongruenze antropologiche e morali della negazione del libero arbitrio. In definitiva, il libero arbitrio può concorrere all’azione della grazia. L’uomo sollecita e ha bisogno dell’aiuto divino, ma non per questo rinuncia allo sforzo e al merito. Non si deve dunque confondere la prescienza divina con la predestinazione. È come se un padrone, conoscendo la perversità del suo schiavo, gli affidasse un compito prevedendone la condotta colpevole. Colto sul fatto, lo schiavo sarebbe giustamente punito. Si può certo sostenere che il padrone abbia voluto che lo schiavo si comportasse in modo colpevole, per punirlo, ma questo non toglie che lo schiavo stesso sia colpevole del proprio atto.
Nel De servo arbitrio, Lutero utilizza un’altra immagine: la volontà umana non è altro che un animale da soma. Se Dio sale in sella, la volontà va dove Dio vuole. Se il cavaliere è invece Satana, la volontà va dove vuole Satana. In ogni caso, la scelta del cavaliere non è libera. Dio e Satana si combattono strenuamente per la salvezza o la dannazione dell’anima, che porta o sopporta il peso del cavaliere. Questa metafora era usata dai commentatori medievali per suggerire la natura relativamente autonoma della bestia da soma. Il passo decisivo di Lutero è di trasformarla in una critica radicale del libro arbitrio. Non si tratta di adottare una concezione manichea: Satana esprime qui semplicemente l’assenza di Dio, dovuta all’incomprensione della grazia. Anche sul terreno dell’interpretazione, Lutero critica la lettura filologica di Erasmo, in particolare l’interpretazione moderata del Vangelo di Giovanni, dove è scritto: “Senza di me non potete fare niente”. Per Erasmo “niente” non significa “nulla”, ma niente d’importante. Se s’insistesse troppo su “niente”, bisognerebbe dedurre che non si potrebbe peccare senza Cristo, dunque che il peccato non è nulla. Lutero ironizza su questa arguzia filologica e comprende il “niente” come una chiara negazione del libero arbitrio.
Ma quello che più colpisce di questa disputa è che Erasmo non discute per nulla nel suo De libero arbitrio le tesi fondamentali di Lutero. Non le affronta direttamente, oppure ne esamina gli aspetti secondari, spesso in modo superficiale. Lutero stesso nel suo De servo arbitrio mette l’accento su questo dialogo mancato. La pia curiositas di Erasmo è empia, perché elude il compito principale del vero cristiano, che consiste nel sapere ciò che può fare l’uomo rispetto a Dio e Dio rispetto all’uomo. Senza la precisa conoscenza di ciò che si deve attribuire all’uno o all’altro è impossibile adorare la potenza divina. Erasmo riduce questo fondamento della fede a una disquisizione filologica. Se il giudizio tradizionale, secondo cui la diatriba fra libero arbitrio e servo arbitrio che caratterizza la cesura fra umanesimo e Riforma deve essere sicuramente riformulata (E.W. Kohls, Erasmus oder Luther. Luthers Theologie in der Auseinandersetzung mit Erasmus, 1972-1978), è gioco forza riconoscere che l’incompatibilità fra Erasmo e Lutero è sostanziale perché concettuale. Se Lutero si è illuso credendo strategicamente di trovare in Erasmo un alleato, Erasmo si è sbagliato nel ridurre la lettura delle Scritture di Lutero alla parola di un oracolo arrogante e la negazione del libero arbitrio alla negazione della libertà.
Due diverse filosofie
La lettura del testo luterano del 1520 La libertà del cristiano mostra chiaramente che la libertà e il libero arbitrio sono due concetti diversi. Il libero arbitrio rinvia a un potere della volontà che in senso stretto appartiene solo a Dio, onnipotente, la cui azione è buona in sé e non perché corrisponde a dei criteri estrinseci di bontà. Se nella vita pragmatica l’esperienza della decisione mostra una forma di libera volontà, la libertà è principalmente una determinazione della volontà. Poter decidere non è dunque ancora un’espressione della libertà, ma una forma di non volere. La distinzione essenziale non è fra libertà condizionata ed esitante dell’uomo e libertà assoluta divina, ma rinvia alla coram-struttura (si veda l’interpretazione seminale di G. Ebeling, Luther. Einführung in sein Denken, Tübingen, Mohr, 1964). Quello che Erasmo chiama libero arbitrio non sono che le opere e la condotta dell’uomo di fronte agli uomini, è lo spazio dell’uomo politico. La vera libertà è solamente di fronte a Dio. Solo nell’abbandono all’onnipotenza divina l’uomo è al contempo schiavo e padrone. I comandamenti divini sono allora compiuti liberamente, perché l’uomo in un tale abbandono riceve la forza di seguire la volontà di Dio per amore, senza entrare nella triste contabilità dei benefici, dei crediti e dei debiti. Il conflitto scaturisce allora da due diverse filosofie. Laddove Erasmo pensa l’uomo ancora in termini di sostanza, anima e corpo, Lutero lo desostanzializza in una struttura funzionale (davanti a Dio e davanti all’uomo). Se il primo stima che la ragione è la parte egemonica delle facoltà dell’anima, l’altro trasforma la formula agostiniana dell’uomo interiore nella figura moderna della libertà interiore (si veda P. Büttgen, Luther et la philosophie, Paris, Vrin/EHEES, 2011). Alla volontà dell’uno si contrappone la coscienza dell’altro. Se la polemica sulla libertà deluse tutti, amici e nemici, è forse perché rivela che i due contendenti non parlavano della stessa cosa.