Liberismo
Il termine 'liberismo' ha una pluralità di significati che, ove non segnalata, può essere fonte di equivoci. Con esso ci si può riferire sia a una visione del processo economico secondo la quale le decisioni fondamentali devono essere affidate, prevalentemente o esclusivamente, a operatori privati, con intervento governativo minimo o nullo, sia a una politica commerciale basata sulla libertà degli scambi internazionali. Nel primo caso si vuole sottolineare l'antistatalismo, e liberismo si contrappone a 'interventismo', 'dirigismo', 'collettivismo', o addirittura 'totalitarismo' tout court (da parte di quei liberisti i quali ritengono che qualsiasi intervento dello Stato nell'economia sia necessariamente di tipo autoritario e illiberale). Nel secondo caso liberismo è sinonimo di 'liberoscambismo', termine però ormai poco usato, e in tal caso il suo contrario è 'protezionismo'. È facile notare che i liberisti - se coerenti - sono anche liberoscambisti, mentre non necessariamente i liberoscambisti - anche se coerenti - sono liberisti (per esempio l''Europa del libero scambio' prevede controlli e interventi pubblici in numerosi settori).
Nelle altre lingue, invece, non sorgono equivoci, perché liberismo è reso con laisser faire - in inglese e in tedesco, oltre che in francese -, mentre si ha free trade, libre échange e Freihandel nel caso ci si riferisca al libero scambio in senso stretto. Liberismo e liberoscambismo esprimono entrambi la convinzione che il libero mercato, la libera impresa, la libertà di lavoro consentano di raggiungere una maggiore efficienza al sistema economico e un maggiore benessere alla collettività.
L'espressione laisser faire (lasciar lavorare, lasciar produrre), correlata con laisser passer (lasciar scambiare, lasciar commerciare), si trova forse per la prima volta nella fisiocrazia, la scuola di economisti alla quale si devono sia l'elaborazione del primo schema analitico di funzionamento del sistema economico, sia una vivace battaglia contro i vincoli corporativi e feudali che, ancora alla metà del XVIII secolo, ostacolavano lo sviluppo dell'economia francese. Anne-Robert-Jacques Turgot attribuisce al mercante Thomas Legendre l'espressione laissez nous faire, che questi avrebbe rivolto al ministro di Luigi XIV, Colbert, per protestare contro le eccessive regolamentazioni dell'industria e del commercio allora esistenti. L'uomo d'affari e funzionario statale Vincent de Gournay l'avrebbe poi diffusa nella cerchia fisiocratica. Nello scritto di Turgot Éloge de Gournay, seppure attribuiti a Gournay, sono presentati con esemplare chiarezza i concetti chiave del liberismo: "Allorquando l'interesse dei privati è precisamente il medesimo che l'interesse generale, quello che si può fare di meglio è di lasciare ciascun uomo libero di fare quello che egli voglia. Ora, [Gournay] trovava impossibile che nel commercio abbandonato a se stesso l'interesse particolare non concorresse [...] con l'interesse generale" (v. Turgot, 1759; tr. it., p. 283). L'interesse generale, che il governo ha il compito di proteggere, consiste nell'evitare che i privati si danneggino l'un l'altro, nell'accrescere la ricchezza nazionale e nello scongiurare brusche cadute della produzione, che "immergendo il popolo negli orrori della carestia, turbino la tranquillità pubblica e la sicurezza dei cittadini" (pp. 283-284). Nel medesimo scritto Turgot mostra efficacemente come il funzionamento di un mercato libero permetta di raggiungere tutti e tre questi obiettivi di interesse generale. Anzi, "l'interesse privato abbandonato a se medesimo produrrà sempre più sicuramente il bene generale, che non le operazioni del governo, sempre difettose e necessariamente dirette da una teoria vaga e incerta" (p. 286).
I fisiocratici coniugarono l'efficienza garantita dal mercato concorrenziale con l''ordine naturale della società'. Nell'opuscolo Le droit naturel il maggiore esponente della fisiocrazia, François Quesnay, chiarisce che non esiste un "diritto naturale di tutti a tutto", ma che "il diritto naturale di ciascun uomo si riduce in realtà a quella porzione che egli può procurarsi col proprio lavoro" (v. Quesnay, 1765; tr. it., p. 3). Le ineguaglianze naturali fra gli uomini relativamente al godimento del loro diritto naturale operano a fin di bene, perché spingono l'uomo a un continuo perfezionamento. La spinta della miseria e del bisogno - afferma Quesnay anticipando Malthus - è un potente fattore di progresso. Invece le ineguaglianze artificiali, dovute cioè agli ordinamenti sociali vigenti, debbono essere superate abbattendo tali ordinamenti. Quesnay afferma che la libertà non è mai assoluta, ma relativa: essa consiste nella capacità dell'individuo di esprimere "preferenza, scelta, decisione" (p. 6, nota; corsivo nel testo). Egli ha dunque ben presente il comportamento razionale dell'homo oeconomicus. Le forme di governo costituzionale sono secondarie rispetto all'essenza del diritto naturale, nel senso che diversi regimi politici sono compatibili con esso. Soltanto "dove le leggi [...] non assicurano la proprietà e la libertà, non c'è governo, non società giovevoli" (p. 10). Questa posizione è peraltro dettata da considerazioni di opportunità politica, in quanto i fisiocrati non intendevano ribellarsi all'ancien régime.
Il banco di prova per il nascente liberismo fu costituito dalla questione del commercio dei grani, che si impone negli anni sessanta e settanta del XVIII secolo. Come è stato osservato, il libero mercato dei beni di sussistenza, sottratto alle decisioni politiche, pone le basi per una moderna economia di mercato (v. Hont e Ignatieff, 1985, pp. 13-14). Secondo Antoine de Condorcet, autore fra l'altro delle Réflections sur le commerce des blés (1776), una politica economica sana era quella di lasciare che il grano si vendesse a prezzi di mercato, sussidiando i poveri in modo che potessero comprarne; mentre era una cattiva politica economica quella, allora seguita, di espropriare i produttori e di fissare un prezzo politico non remunerativo (v. Rotschild, 1992, p. 1202).
Si può far risalire a quei decenni l'inizio della polemica fra liberisti puri e interventisti: una polemica destinata a protrarsi in termini pressoché invariati per almeno un secolo. Fin da allora i liberisti sono accusati di astrattismo e antistoricismo, e reagiscono accusando gli avversari di paternalismo e autoritarismo. Se è innegabile che molti avversari dei liberisti presentavano questi connotati, almeno due mostrarono una singolare capacità di cogliere le difficoltà di un'economia basata sul puro laissez faire e la necessità di apprestare correttivi ai suoi effetti indesiderati. Sir James Steuart - uno scozzese che visse a lungo in Germania - nella sua Inquiry into the principles of political oeconomy (1767) assegnò allo statesman il compito di rendere compatibili fra loro gli interessi privati per il raggiungimento del bene generale, predisponendo un plan (v. Steuart, 1966, vol. I, pp. 122-125; v. Mitchell, 1967). Dal canto suo Ferdinando Galiani, che invece soggiornò a Parigi, nei Dialogues sur le commerce des bleds introdusse la fondamentale distinzione fra effetti di breve e di lungo periodo delle misure di politica economica, discutendo i possibili contraccolpi negativi di una liberalizzazione assoluta e indiscriminata (v. Galiani, 1770; tr. it., pp. 202 ss.).
La battaglia liberista non ebbe gli esiti sperati. Turgot, controllore generale delle finanze dal 1774 al 1776, riuscì a liberalizzare il mercato del lavoro e a introdurre il libero commercio del grano, ma la conseguente 'guerra delle farine' scoppiata a causa della susseguente carestia lo obbligò a dimettersi e una parte dei provvedimenti vennero revocati (v. Schelle, 1892; v. Cazes, 1970).
Negli Stati italiani del Settecento non si ebbero vere e proprie correnti di pensiero rigorosamente liberiste. "Gli economisti italiani della metà del XVIII secolo ebbero tutti, dal Genovesi al Beccaria al Verri, l'ossessione della bilancia commerciale passiva" (v. Vianello, 1942, p. XXV). Erano perciò tendenzialmente dei mercantilisti. Soltanto per la Toscana si è parlato di "eclettismo [...] preparato all'instaurazione di un sistema liberistico" (v. Mori, 1951, cap. 4): grazie agli sforzi dei riformatori toscani, la riforma doganale del 1781 sancì la liberalizzazione del commercio dei grani (v. Becagli, 1983).Con Adam Smith il liberismo raggiunse pienezza di rigore concettuale. Contrariamente a quanto spesso sostenuto (v., per tutti, Viner, 1927), non esiste cesura fra lo Smith filosofo e lo Smith economista. La morale smithiana, descritta nella Theory of moral sentiments, è basata sui risultati e non sulle intenzioni: Smith, pur ammirandoli, critica gli stoici in quanto hanno "considerato la vita umana come un gioco di grande abilità a cui si mescola però il caso [...]. La posta è insignificante e tutto il piacere del gioco deriva dal giocare bene. [... Ma] il piano e il sistema delineati dalla Natura sembrano del tutto diversi da quelli della filosofia stoica" (v. Smith, 1759; tr. it., pp. 381-399). Smith invece attribuisce un peso fondamentale all'approvazione data dal prossimo (sia pure come 'spettatore imparziale') alla condotta di ciascun individuo. La sua concezione della morale è dunque, per così dire, già pronta per essere adattata ai comportamenti economici dell'uomo sul mercato.
In Smith l'interesse individuale, anziché dar luogo alla hobbesiana lotta di tutti contro tutti, oppure alla paradossale trasformazione mandevilliana dei "vizi privati" in "pubbliche virtù", costituisce il tessuto connettivo di una società ben ordinata. Il fondamento del liberismo non è più posto, come nei fisiocrati, nel diritto naturale, ma nella stessa natura umana, in cui diverse 'passioni' trovano fra loro un equilibrio intorno al self-love moderato dalla sympathy. In tal modo le passioni stesse si trasformano in 'interessi' (v. Hirschman, 1977). Questi ultimi sono basati sull'interdipendenza, oltre che sulla costanza e la prevedibilità. Il luogo 'naturale' in cui essi trovano reciproca soddisfazione è il mercato. La notissima osservazione smithiana secondo cui non è dalla benevolenza del macellaio che noi ci attendiamo il nostro pranzo, ma dal suo tornaconto, si trova, ripetuta quasi con le medesime parole, sia nelle Glasgow lectures on jurisprudence, sia nel Draft della Wealth of nations, sia infine nell'opera maggiore (v. Smith, 1762-1763, tr. it., p. 443; 1764, tr. it., pp. 41-42; 1776, tr. it., p. 18). Nel libero mercato gli individui, pur proponendosi di perseguire soltanto il proprio tornaconto, collaborano inconsapevolmente all'innalzamento del benessere collettivo. È il principio della "mano invisibile", che nel corso della sua opera Smith precisa collegandolo appunto all'operare del mercato. Nella Theory of moral sentiments egli si limita a osservare che il landlord accresce la produzione delle sue terre per nessun altro scopo se non quello di godersi tutto il prodotto. Si tratta ovviamente di un calcolo sbagliato, in quanto "la capacità del suo stomaco non può essere nemmeno paragonata all'immensità dei suoi desideri [...]. I ricchi [...] consumano poco più dei poveri e malgrado il loro egoismo e la loro ingordigia naturale, malgrado facciano conto solo della propria convenienza, [...] da una mano invisibile sono guidati a fare quasi la stessa distribuzione dei beni necessari alla vita che se la terra fosse stata divisa in parti eguali fra tutti i suoi abitanti [...]; e così, senza volerlo e senza saperlo, promuovono gli interessi della società" (v. Smith, 1759; tr. it., pp. 248-249; corsivo nostro). Nell'opera maggiore, trattando degli impieghi del capitale più vantaggiosi, Smith presenta il capitalista come il soggetto economico per il quale è più appropriato il riferimento alla mano invisibile: "La considerazione del suo proprio vantaggio lo porta naturalmente, o meglio necessariamente, a preferire l'impiego più vantaggioso per la società [...]. In effetti egli non intende, in genere, perseguire l'interesse pubblico, né è consapevole della misura in cui lo sta perseguendo [...]. Egli mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni [...]. Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue l'interesse della società in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo" (v. Smith, 1776; tr. it., pp. 442-444). I liberisti dell'Otto e del Novecento, fino a Hayek, non faranno che qualificare meglio queste affermazioni.
Smith giudica il "governo civile" un'istituzione nata per "la difesa dei ricchi contro i poveri" (p. 707) e denuncia, con accenti molto attuali, le distorsioni prodotte dall'intervento pubblico quando esso in realtà serve solo a favorire gruppi privati (v. Stigler, 1971). D'altra parte l'intervento statale in alcuni settori non soltanto non è dannoso, ma è indispensabile tutte le volte in cui si debba conciliare l'interesse privato con quello pubblico. Per esempio, lo Stato dovrebbe contrastare la tendenza alla separazione fra proprietà e direzione nelle società per azioni (v. Smith, 1776; tr. it., pp. 733-734); valorizzare al massimo la produttività del lavoro come parametro di retribuzione dei pubblici impiegati (p. 711); preferire, con gli opportuni aggiustamenti, il modello dell'esercito permanente e professionale (standing army) rispetto a quello di leva (militia: pp. 692 ss.; v. anche Rosenberg, 1960).
Nonostante la mano invisibile, le frizioni nel mercato non mancano. I capitalisti, che pure del progresso economico sono i demiurghi, tendono a collusioni fra loro per impedire l'ingresso nel mercato di nuovi concorrenti (contrastando in questo modo la tendenza a cadere del saggio di profitto) e per tenere bassi i salari dei lavoratori. Essi sfruttano le loro migliori cognizioni circa l'andamento del mercato per far prevalere il proprio interesse personale su quello collettivo, impedendo così il funzionamento della mano invisibile: "Siccome i loro pensieri sono comunemente rivolti piuttosto all'interesse del loro particolare ramo di affari che all'interesse generale della società, [...] la proposta di una nuova legge o di un regolamento di commercio che provenga da questa classe dovrebbe essere sempre ascoltata con grande precauzione e non dovrebbe mai essere adottata [...]. Tale proposta, infatti, proviene da un ordine di uomini il cui interesse non è mai esattamente uguale a quello del pubblico e che, generalmente, ha interesse a ingannare e anche a opprimere il pubblico, come in effetti ha fatto in numerose occasioni" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 254). Un altro fallimento del mercato riguarda la condizione dei lavoratori salariati, la cui situazione è aggravata, da una parte, dalla difficoltà a coalizzarsi (p. 67), e, dall'altra parte, dall'ignoranza e dall'abbrutimento ai quali la divisione del lavoro li condanna (pp. 769-770). Smith non arriva a proporre i sindacati, ma argomenta a favore dell'istruzione obbligatoria per i lavoratori (pp. 772-773).
Pur attento a rilevare squilibri e contrasti all'interno della società capitalistica, Smith non ha esitazioni a dichiarare la propria preferenza per essa rispetto a tutte le società precedenti (o contemporanee, ma più arretrate). È la società capitalistica, infatti, quella che meglio consente il dispiegarsi delle virtù medie, le virtù borghesi per eccellenza, quali "pazienza, operosità, forza d'animo e assiduità di pensiero. Difficilmente ci si imbatte in tali virtù in uomini nati in ceti superiori" (v. Smith, 1759; tr. it., p. 73). Il nesso fra virtù individuali, libero mercato e buongoverno è esplicito. Regime liberale rappresentativo, e quindi liberalismo politico, ed economia di libero mercato, e quindi liberismo economico, sono, per Smith, il naturale complemento l'uno dell'altro.
L'insegnamento smithiano fu portato avanti da Jeremy Bentham che, con la Defense of usury (1787), va addirittura oltre il maestro affermando - diversamente da Smith - che il saggio d'interesse doveva essere lasciato libero di crescere, in modo da non scoraggiare gli investitori amanti del rischio: quei projectors per i quali Smith non aveva simpatia (v. Pesciarelli, 1989). Un'altra proposta discendente dal suo liberismo è quella dell'emancipazione delle colonie, basata sulla considerazione che il capitale impiegato in esse (e ivi indirizzato grazie alla protezione doganale) può essere investito più proficuamente nella madrepatria. Nel Manual of political economy (1793) - che contiene la famosa esortazione al governo: "Be quiet!" - Bentham distingue fra sponte acta degli individui (la maggior parte dei comportamenti economici), agenda governativi (tendenti a rimuovere gli ostacoli alla libera attività privata, come pure a consentire la soddisfazione dei bisogni più importanti rispetto a quelli meno importanti) e non agenda (in particolare, non intervenire sulle decisioni del pubblico su risparmio e consumo, non creare inflazione, ecc.).
L'idea di Bentham è che la società, seguendo il precetto utilitarista della 'massima felicità per il maggior numero', tenda a una progressiva eguaglianza di fortune, e quindi che fra liberty ed equality non ci sia un reale conflitto. Invece, il trade-off fra efficienza ed eguaglianza è un nodo cruciale del liberalismo/liberismo. Il contrasto fra i due poli affiora fra gli stessi seguaci di Bentham (su tutti questi aspetti v. Stark, 1941): chi accentuò l'elemento dell'eguaglianza approdò al socialismo (Owen) o comunque a una posizione anticapitalistica (Sismondi); chi accentuò l'elemento della libertà rifluì nell'alveo dell'economia classica.
Fra gli economisti classici influenzati da Bentham riveste una posizione preminente James Mill, che scrisse nel 1808 un opuscolo, Commerce defended, per sostenere che "il commercio britannico ha molto più da temere dai regolamenti poco saggi del governo inglese che dai decreti di Napoleone" (cit. in Farolfi, 1976, p. 58). L'Inghilterra doveva aprirsi al commercio internazionale, nonostante il blocco continentale, ma il libero scambio confliggeva con gli interessi dei produttori agricoli inglesi, abituati a godere di alti prezzi interni dei cereali. Dal canto suo David Ricardo, anch'egli vicino a Bentham, affrontò nell'Essay on profits il problema della rendita fondiaria crescente come quota del prodotto netto, per effetto dei rendimenti decrescenti delle terre che venivano progressivamente messe a coltura. La sua proposta era di importare liberamente il grano, facendone cadere il prezzo di mercato e lasciando che i capitali impiegati nelle terre peggiori si indirizzassero verso le manifatture. Anche se lo scritto ha un taglio teorico, l'indicazione di politica economica è evidente. Ricardo rammenta che "fu il tentativo di Buonaparte [attraverso il blocco continentale] di impedire l'esportazione di prodotto grezzo dalla Russia che suscitò gli sforzi stupefacenti del popolo di quel paese contro la forza più potente che mai sia stata raccolta per soggiogare una nazione" (v. Ricardo, 1815; tr. it., pp. 346-347). Dunque il protezionismo napoleonico fu all'origine della caduta dell'imperatore.
Nei successivi Principles of political economy and taxation Ricardo presenta la sua nota teoria del commercio estero basata sui vantaggi comparati. E osserva incidentalmente: "In un sistema di perfetta libertà di commercio ogni paese rivolge naturalmente il capitale e il lavoro agli impieghi che gli sono maggiormente vantaggiosi. Questo perseguimento del vantaggio individuale si accorda mirabilmente con il bene universale della società" (v. Ricardo, 1817; tr. it., p. 92). Tuttavia, seppure liberista, Ricardo non è un armonicista, perché la sua teoria della distribuzione del reddito (secondo cui i salari crescono a spese dei profitti, e la rendita tende anch'essa a comprimere i profitti ove la sua crescita non sia opportunamente contrastata) nasconde un latente conflitto fra le classi sociali. In alcuni settori, inoltre, egli non sostenne un assoluto laissez faire. In materia monetaria, per esempio, invocò la necessità della concentrazione dei poteri di emissione nella Banca d'Inghilterra, ispirando così il Peel's act del 1844 (v. Robbins, 1952; tr. it., p. 29).I maggiori risultati della propaganda liberista/liberoscambista in Inghilterra si ebbero con l'abolizione della cosiddetta Old poor law (1834) e delle Corn laws (1846). La prima - di origine elisabettiana - consisteva in un sussidio, a carico delle 15.000 parrocchie, a favore dei lavoratori poveri ivi residenti (v. Marshall, 1968, p. 12). L'argomento principe contro la Poor law era che essa incoraggiava la pigrizia e la scarsa iniziativa personale dei lavoratori, i quali per di più non potevano emigrare da regione a regione, ma erano fissati per sempre alla propria parrocchia d'origine. Thomas Robert Malthus, sempre preoccupato che la popolazione crescesse più delle sussistenze, accusò la Poor law di spingere i lavoratori a matrimoni prematuri e quindi ad altrettanto premature procreazioni, opinione condivisa anche da Nassau Senior (v. Robbins, 1952; tr. it., pp. 88-90). L'abrogazione della legge portò a un acuirsi della questione sociale e del pauperismo, cui si pose rimedio con la prima legislazione sociale moderna nei decenni seguenti.
Le Corn laws, dal canto loro, rappresentavano un antico espediente per controllare in qualche modo le fluttuazioni del prezzo del grano, mediante un sistema di sovvenzioni (bounties) quando i prezzi interni del grano erano troppo bassi, e con bassi dazi di importazione quando i prezzi interni crescevano per via di cattivi raccolti. Terminate le guerre napoleoniche, le Corn laws funzionarono soprattutto come protezione dei proprietari fondiari. Fin dal 1815 nei distretti industriali si andarono formando associazioni per la loro abrogazione, finché nel 1838 venne costituita la Anti-Corn law League, sotto la guida degli industriali Richard Cobden, George Wilson e John Bright, e con la partecipazione di uomini politici come Henry Brougham e Francis Place, e di pubblicisti come Harriet Martineau e John Bowring (v. McCord, 1968). La pressione della League sul governo conservatore di Robert Peel ebbe successo: nel 1846 la protezione cerealicola venne abolita. Nel 1847 Cavour illustrava minuziosamente il sistema doganale inglese, concludendo che "questo edifizio protettore, da tanti secoli così gelosamente custodito dall'aristocrazia fondiaria, venne in pochi anni interamente distrutto" (v. Cavour, 1962, p. 256), e ne traeva alimento per una previsione di aumento delle esportazioni italiane. Fra il gennaio e il giugno 1847 Cobden visitò diverse città italiane e riscosse grande successo.
La Anti-Corn law League si collegò, ma non si identificò del tutto, con la cosiddetta Manchester school of economics: un gruppo informale ed eterogeneo, per il quale l'appellativo di 'scuola', impressogli da Disraeli con intenti negativi, è improprio. Anche la provenienza geografica dei suoi membri era varia. Manchester fornì al gruppo soltanto alcuni uomini d'affari che ne rappresentavano l'ala conservatrice; altri esponenti erano philosophic radicals londinesi, allievi di Bentham e attivi in Parlamento (v. Grampp, 1960). La propaganda per il libero scambio, per quanto dichiaratamente ispirata agli interessi dei manifatturieri, fu nobilitata da appassionati accenti democratici (suffragio universale maschile), pacifisti e 'internazionalisti'. Il periodico che maggiormente si distinse nel sostenere la causa del movimento fu l' "Economist", fondato nel 1843 da James Wilson. Per almeno quindici anni l' "Economist" - cui collaborava l'ultraindividualista Herbert Spencer - fu un organo di propaganda non solo del (limitato) free trade, ma di un generale laissez faire (v. AA.VV., 1943, pp. 1-17; v. Gordon, 1971, pp. 201-202).
Negli anni cinquanta dell'Ottocento i due maggiori successi del movimento furono la soppressione dei Navigation acts (1854) e della East India Company (1858), entrambi retaggi della vecchia politica mercantilista. L'Inghilterra medio-vittoriana divenne la Mecca del libero scambio, che ebbe il suo coronamento con i governi liberali presieduti da William Gladstone (v. Rees, 1933). Progresso economico e liberismo andarono di conserva, anche se non furono accompagnati dal desiderato pacifismo, almeno rispetto ai paesi extraeuropei. L''imperialismo del libero scambio' praticato dall'Inghilterra consentì infatti l'espansione coloniale in Africa e altrove (v. Semmel, 1970).I principî del laissez faire ritardarono invece l'adozione di misure a tutela dei lavoratori industriali. Prevalse a lungo la tesi dei free agents: poiché i lavoratori maschi adulti erano 'liberi agenti', lo Stato non poteva intervenire nei contratti di lavoro 'liberamente' stipulati fra loro e i padroni. Il laissez faire ammetteva al massimo la tutela del lavoro minorile e femminile, in quanto queste categorie non appartenevano ai free agents. La fissazione per legge del numero delle ore lavorative fu avversata anche perché avrebbe diminuito il saggio di profitto e scoraggiato l'accumulazione. Tuttavia si arrivò a un compromesso e nel 1847 fu approvato il Ten hours bill (v. Blaug, 1971; v. Taylor, 1972).
In Francia e in Italia il liberismo di metà Ottocento assunse forma accentuatamente dottrinaria: segno, probabilmente, di una società civile più arretrata, in cui la battaglia sui principî era sentita più di quella sulle scelte concrete. Nelle sue Harmonies économiques Frédéric Bastiat, andando ben oltre Smith e Bentham, afferma che "tutti gli interessi sono armonici" (v. Bastiat, 1850; tr. it., p. 1; corsivo nel testo). I portatori di interessi illegittimi, e perciò contrari all'armonia, sono per lui da una parte i socialisti (per questo polemizza duramente con Proudhon), e dall'altra i monopolisti e i protezionisti. Nei Sophismes économiques Bastiat finge che sia stata rivolta al Parlamento una Pétition des fabricants de chandelles contro la sleale concorrenza della luce solare (v. Bastiat, 1845-1848). In Baccalauréat et socialisme (1850) se la prende con l'istruzione pubblica di tipo classico, matrice a suo dire del socialismo, per invocare un'assoluta libertà di insegnamento e l'abolizione di qualunque esame di Stato (cfr. il brano riportato in Ferrara, 1956, pp. 432-434).
Dal canto suo Francesco Ferrara, il maggior economista del Risorgimento, sviluppò soprattutto la critica liberal-liberista allo Stato etico. Già Bastiat aveva definito lo Stato come "la gran finzione per mezzo della quale tutti si sforzano a vivere a spese di tutti" (cit. in Ferrara, 1956, p. 429). Nel suo Germanismo economico in Italia (1874) Ferrara approfondisce il punto. Egli rimprovera "i professori tedeschi" (cioè i "socialisti della cattedra", con i loro seguaci in Italia) di "deificare lo Stato [...]. Lo han preso come un ente reale; se lo figurano tal quale lo trovano dipinto in un trattato giuridico, in una qualsiasi filosofia del diritto e della storia, [...] mentreché nel mondo pratico lo Stato fu sempre e sarà il governo, il gruppo degli uomini che comandano [...]. Quindi è che qualunque economia fondata su questo falso concetto sarà falsa di sua natura" (v. Ferrara, 1972, p. 588). Ne consegue che il modello di condotta dello Stato-governo deve essere desunto dall'operare di un mercato di perfetta concorrenza. Scriveva Ferrara nel 1884: "L'ufficio del governare è una fra le migliaia di occupazioni, una delle tante industrie, uno de' tanti mestieri che [...] danno l'idea dell'attività sociale [...]. Da ciò, una classe di produttori, addetti a procurare quella tale utilità che si chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola governo [...]. L'utilità sociale che il governo produca non può, da lui medesimo o da lui solo, estimarsi [...]. Sì, noi, nazione-governata, siamo i soli a cui spetti il decidere se ella meriti quel prezzo che il produttore-governo, per mezzo delle imposte di cui ci aggrava, o delle privazioni a cui ci condanna, pretenda di farcela costare [...]. Tale è la portata dell'espressione che noi usiamo, libertà economica" (v. Ferrara, 1976, p. 358). In questo modo Ferrara riteneva di aver saldato insieme liberalismo politico e liberismo economico. L'assimilazione dell'economia finanziaria all'economia privata consentiva all'economista siciliano di definire a contrario i casi in cui fra prelievo statale e spesa pubblica non vi sia perfetta corrispondenza (in termini di utilità sottratta e restituita) perché il prelievo risulta più oneroso di quanto non risulti vantaggiosa la seconda. Casi che dovevano essere analiticamente studiati da due economisti liberal-liberisti, ideali discepoli del Ferrara: Antonio De Viti De Marco, con la fattispecie dello Stato assoluto o monopolista, e Luigi Einaudi, sotto il duplice profilo dell'imposta-grandine e dell'imposta-taglia (per un quadro complessivo, v. Buchanan, 1960).
Mentre considerava realisticamente lo Stato come un'istituzione artificiale, Ferrara riteneva la proprietà non una istituzione, ma un connotato della natura umana, come tale imprescindibile e in linea di massima inviolabile. Qui egli seguiva gli idéologues liberali francesi del Sette-Ottocento, in particolare Destutt de Tracy (v. Faucci, 1990, pp. 27-28). Questo tratto 'proprietario' segna ideologicamente in senso conservatore il suo pensiero, che peraltro non è privo di spunti libertari e radicaleggianti, soprattutto nella critica alla contaminazione fra politica e grandi affari nel Piemonte di Cavour e nell'Italia unita.
Molti di questi spunti - la lotta contro il monopolio della Banca Nazionale, la denuncia del protezionismo doganale, ecc. - furono ripresi da Vilfredo Pareto, che negli anni giovanili fu assiduo dello stesso ambiente intellettuale (la Firenze del salotto Peruzzi) frequentato precedentemente da Ferrara. Tutta la produzione liberista del Pareto giovane è inoltre ispirata a un energico pacifismo, umanitarismo, cosmopolitismo mutuati da Cobden (v. Pareto, 1975).
Il liberismo assoluto sognato dagli economisti non fu mai realizzato neppure nel secolo in cui le idee liberiste ebbero maggior seguito. Infatti, a partire dalla metà degli anni settanta dell'Ottocento, i rapporti economici internazionali si orientarono in senso protezionista. L'Italia si convertì a un moderato protezionismo con la riforma doganale del 1878, e a un protezionismo più deciso nel 1887. Anche l'intervento attivo dello Stato per lo sviluppo industriale, soprattutto tramite le commesse militari, era molto al di fuori dei canoni liberisti. Tuttavia è solo dopo la prima guerra mondiale che il liberismo - sia come dottrina, sia come prassi di politica economica - entrò in una crisi più generale. L'enorme spesa militare, la riconversione industriale, il reinserimento dei combattenti nell'attività produttiva, l'inflazione che in alcuni paesi determinò l'annullamento del potere d'acquisto della moneta (come in Germania, nel 1923) furono tutti fattori che - ancor prima che sconsigliarlo - resero impossibile il ritorno all''età dell'oro' precedente, quell'età caratterizzata da un'incessante accumulazione di capitale in mani private, che John Maynard Keynes rappresenta con grande maestria nelle prime pagine di The economic consequences of the peace (1919).
Keynes è probabilmente il primo economista che consapevolmente separa liberismo e liberalismo. Nel 1923 critica come depressive le politiche liberiste con cui il cancelliere dello scacchiere Winston Churchill intende ritornare alla parità prebellica sterlina-oro (v. Keynes, The economic..., 1925). Continua però a dichiararsi partecipe dei valori della cultura borghese e nel 1925 scrive: "La lotta di classe mi troverebbe dalla parte della borghesia colta" (v. Keynes, Am I..., 1925; tr. it., p. 249), e così commenta l'esperimento rivoluzionario russo: "Come posso adottare un credo che [...] esalta il rozzo proletariato al di sopra della borghesia e dell'intelligencija, le quali [...] sono l'essenza della vita e portano sicuramente in sé il seme di ogni progresso umano?" (v. Keynes, A short..., 1925; tr. it., p. 231). Tuttavia nel 1926 afferma che "il problema politico dell'umanità consiste nel mettere insieme tre elementi: l'efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale" (v. Keynes, Liberalism..., 1926; tr. it., p. 262) e che l'individualismo è solo una delle componenti necessarie per raggiungere questi obiettivi. Nello stesso anno proclama che il laissez faire è finito: l'economia di mercato descritta (o sognata) dai fondatori dell'economia politica non esiste più, dato il prevalere, da una parte, "di organismi semiautonomi all'interno dello Stato", e dall'altra, della "tendenza della grande impresa a socializzarsi" (v. Keynes, The end..., 1926; tr. it., p. 241). Ne deriva che l'elenco degli agenda benthamiani è profondamente cambiato. Gli agenda "non riguardano le attività che gli individui già svolgono, ma le funzioni che cadono al di fuori della sfera dell'individuo, le decisioni che, se non le assume lo Stato, nessuno prende. L'importante per il governo non è fare le cose che gli individui stanno già facendo, e farle un po' meglio o un po' peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per niente" (p. 243). Finalmente, in una conferenza del 1930, afferma in modo volutamente paradossale che fra le "prospettive economiche dei nostri nipoti" rientra nientemeno che la "fine del problema economico", inteso come problema della scarsità delle risorse rispetto ai bisogni, e che il problema principale del futuro sarebbe stato il miglior impiego del tempo libero (v. Keynes, 1930; tr. it., pp. 278 e 280).
Ex post possiamo dire che queste profezie si sono oggi (relativamente) avverate, almeno nei paesi più sviluppati. Ma quando Keynes le formulava, si era nel corso della 'grande depressione', e suonavano come utopistiche o peggio. Luigi Einaudi le bollò in quest'ultimo senso, come "storia scritta da un Marx in ritardo" (v. Faucci, 1986, p. 256). L'economista piemontese si assunse negli anni fra le due guerre la funzione di difensore del liberismo dagli attacchi che, nell'Italia fascista, provenivano da parte corporativista, ma che altrove erano avanzati da keynesiani, democratici rooseveltiani e socialisti più o meno marxisti.Nell'arco del decennio 1931-1941 Einaudi discusse a lungo con Benedetto Croce su liberismo e liberalismo. Per il filosofo i due concetti sono posti su due piani completamente differenti, in quanto il primo ha carattere empirico ed è quindi transeunte, mentre il secondo ha autentico carattere filosofico ed è eterno. Ma obietta Einaudi che in questo modo la religione della Libertà predicata da Croce è adatta a un popolo di anacoreti, non agli uomini comuni, desiderosi di vedere la Libertà incarnarsi nella varietà delle scelte economiche, nella facoltà di lavoro e di movimento, ecc. (v. Croce ed Einaudi, 1957; v. Faucci, 1986, pp. 297-300).
Mentre Croce non mutò le sue idee circa il carattere non filosofico del liberismo, Einaudi - anche per la suggestione su di lui esercitata dal pensiero dell'economista tedesco Wilhelm Roepke (su cui v. Frumento, 1968) - fu spinto a caricare il liberismo di nuovi contenuti intellettuali. Egli identificò il sistema di libero mercato non con l'economia capitalistica vigente, ma con una specie di 'città divina' affiorante qua e là nel corso dei secoli: l'Atene di Pericle, i Comuni medievali, alcuni momenti della società europea del Settecento e Ottocento. Tale 'terza via', peraltro, non avrebbe mai dovuto aver a che fare con i 'piani' (v. Einaudi, 1942).
Allievo di Einaudi fu Ernesto Rossi. Antikeynesiano, sensibile alla lezione di Pareto e di De Viti De Marco oltre che degli utilitaristi inglesi, egli coniugò liberismo e radicalismo riformatore, denunciando in numerosi volumi sprechi, inefficienze e indebiti favori statali ai privati, e animando l'attività degli Amici del "Mondo" su temi come la politica antimonopolistica (v., per esempio, Piccardi e altri, 1955). La nazionalizzazione dell'industria elettrica, avvenuta nel 1962, mentre fu osteggiata dai liberisti di destra presenti nel Partito Liberale di Giovanni Malagodi, fu sostenuta dai liberisti di sinistra, che la ritenevano necessaria per risolvere una situazione di monopolio privato (v. Rossi, 1962). Si trattò peraltro di posizioni politicamente minoritarie, in un panorama dominato dal nuovo interventismo keynesiano coniugato con l'antico solidarismo cattolico (mentre l'intelligencija marxista non era liberista per ragioni ideologiche).
La ricostruzione economica del dopoguerra fu condotta, in Italia come nel resto dell'Europa, su basi keynesiane di sostegno della domanda aggregata attraverso una massiccia spesa pubblica e investimenti pubblici in infrastrutture. Queste politiche consentirono per molti anni il 'miracolo' di una crescita stabile e senza disoccupazione, favorita peraltro dall'ampliamento degli scambi internazionali e dai processi di liberalizzazione e unificazione dei mercati (Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, 1951; Comunità Economica Europea, 1957) e, nel caso italiano, dall'imponente flusso di migrazione dal Sud al Nord. Liberoscambismo internazionale e liberismo interno non hanno marciato di pari passo.
È a partire dagli anni settanta che il modello keynesiano viene messo in discussione dall'aggravarsi dell'inflazione, da una parte, e dal ristagno produttivo con crescita della disoccupazione, dall'altra. Soprattutto nell'area anglosassone gli economisti si riavvicinano al liberismo, ritenendo che la burocratizzazione dell'economia per effetto della crescita del settore pubblico - con conseguente mortificazione dell'iniziativa privata - abbia gravi responsabilità per la situazione. Il neoliberismo presenta però un fronte eterogeneo. Alcune proposte di politica economica sono ormai largamente condivise, come quelle di deregulation (v. Cassese e Gerelli, 1985) di molti settori economici nei quali si ritiene che l'intervento statale abbia effetti controproducenti (per esempio le tariffe aeree). Altre proposte di privatizzazione (specie nel settore sanitario e pensionistico) incidono invece profondamente sul Welfare State (v. Caffè, 1986). I risultati di queste politiche liberiste-privatiste - sperimentate soprattutto negli Stati Uniti durante l'amministrazione Reagan (1980-1988) - sono di difficile valutazione, anche perché l'innegabile sviluppo economico americano di quegli anni ha coinciso con una crescita della spesa pubblica (bellica) che certo non fa parte della dottrina liberista.
Sul piano delle idee il neoliberismo economico ha il suo centro forse più importante nell'Università di Chicago, dove ha insegnato il premio Nobel Milton Friedman. Fondatore dell'indirizzo 'monetarista', più interessato alla politica economica che alla teoria e alla storia del pensiero, Friedman è sostenitore, in polemica con i keynesiani, di una politica priva di interventi discrezionali e rivolta soprattutto a mantenere costante la crescita dell'offerta di moneta (v. i saggi raccolti in Bellone, 1972). In vari testi per il grande pubblico Friedman esalta il ruolo del capitalismo concorrenziale nei risultati ottenuti nel dopoguerra da Germania, Giappone e Hong Kong, rispetto ai risultati insoddisfacenti di paesi 'pianificatori' come l'India (v. Friedman, 1962; v. Friedman e Friedman, 1980 e 1984).
Maggiore profondità concettuale hanno le riflessioni di Friedrich A. von Hayek, anch'egli per molti anni professore a Chicago e capofila, insieme al suo maestro Ludwig von Mises, della cosiddetta scuola neoaustriaca (v. Cubeddu, 1992). Partito negli anni trenta dall'analisi economica delle crisi, nella quale si era opposto alle tesi keynesiane (ma le sue teorie sul credito sono state di recente riprese e valorizzate), nel dopoguerra si è rivolto prevalentemente alla speculazione filosofico-politica. Centrale in essa è il rapporto fra individuo, conoscenza e mercato (v. Hayek, 1988). Il primo è dotato di forze limitate e di conoscenza imperfetta; il mercato è l'istituzione che consente a queste forze e a questa conoscenza di raggiungere risultati che si pongono al di là degli scopi individuali. Hayek contrappone al 'costruttivismo' (credere che le istituzioni dipendano da un preciso atto di volontà degli individui) la nota idea settecentesca della loro origine spontanea e non intenzionale: idea che egli fa risalire a Vico, Smith e Ferguson, ai quali aggiungeremmo Galiani. Hayek è particolarmente efficace nel presentare il mercato come il luogo in cui avviene nel modo migliore la selezione naturale. Interessanti anche le sue riflessioni sulla differenza fra cósmos (ordine spontaneo) e táxis (ordine artificiale) nei fenomeni economici. Avversario di ogni regime democratico-giacobino, ai partiti politici (portatori dell'aborrita 'volontà generale') propone di sostituire gruppi di opinione di sapore ottocentesco (v. Hayek, 1978). Per molti versi egli appare un epigono di Bastiat (della cui traduzione inglese è prefatore: v. Bastiat, 1964) e di Ferrara: a cominciare dalla critica del concetto di 'giustizia sociale' (cioè distributiva), che ritiene incompatibile con l'ordine naturale di un'economia autenticamente competitiva (v. Jossa, 1994, p. 12).
Nonostante la fortuna di Hayek, le tendenze più recenti sembrano approfondire, anziché colmare, il divario fra liberismo e liberalismo (v. Ricossa, 1989, pp. 65 ss.). Alcuni pensatori liberali si sono maggiormente interessati al problema della giustizia, rovesciandone il tradizionale rapporto di subordinazione con la libertà e facendone il cardine del liberalismo politico (v. per tutti Rawls, 1971 e 1993). Dal canto loro autori come il premio Nobel James Buchanan, seppure liberisti e insieme liberali, procedono con maggiore prudenza nella critica delle istituzioni, distinguendo fra un livello 'costituzionale' - che detta le regole ed è necessario a un'economia autenticamente liberista - e un livello amministrativo e discrezionale, che va sfrondato radicalmente (v. Buchanan, 1977 e 1986; v. Brennan e Buchanan, 1985). Non è dunque da escludere un ritorno di tipo benthamiano del liberismo nell'alveo del pensiero democratico.
(V. anche Capitalismo; Economia internazionale; Liberalismo; Protezionismo).
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