Abstract
La voce esamina la disciplina in materia di libera circolazione del lavoratori all’interno dell’Unione, quale delineata dall’art. 45 del TFUE e dalle fonti derivate, nella loro complessa evoluzione. L’analisi della giurisprudenza consente di focalizzare l’attenzione sulle principali linee di tendenza di tale evoluzione, che da un lato si caratterizza per l’emersione di una specifica disciplina delle forme di mobilità all’interno dell’impiego attraverso il distacco transnazionale dei lavoratori, e dall’altro si raccorda alla crescente importanza parallelamente acquisita dalla cittadinanza dell’Unione quale status fondamentale della persona nell’ordinamento sovranazionale.
«Un mercato che si voglia davvero comune non è concepibile se alla domanda e all’offerta di lavoro non è dato incrociarsi in ogni suo punto». È questa, nella sua essenza, nella icastica enunciazione di Federico Mancini (L’incidenza del diritto comunitario sul diritto del lavoro degli Stati membri, in Riv. dir. eur., 1989, 10), la ragion d’essere delle norme sulla libera circolazione dei lavoratori all’interno, ieri, della Comunità e, oggi, dell’Unione, ed il motivo della loro perdurante centralità nel corpo – pur progressivamente dilatatosi durante il lungo percorso compiuto dal processo d’integrazione – del diritto del lavoro europeo. Già prefigurato, seppure in forme parziali ed embrionali, dal Trattato CECA del 1951, il diritto alla libera circolazione dei lavoratori subordinati fece il suo ingresso tra le libertà fondamentali del mercato comune con l’art. 48 del Trattato di Roma, istitutivo della Comunità economica europea, disposizione corrispondente all’attuale art. 45 del TFUE. Alla piena attuazione di tale libertà fondamentale si giunse, peraltro, per tappe successive, completatesi, conformemente all’impostazione gradualistica prefigurata dallo stesso Trattato istitutivo, soltanto con l’adozione del reg. n. 1612/1968 e della coeva dir. 1968/360/CEE. Ma già all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Roma, i reg. 3 e 4 del 1958 delinearono un organico sistema di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale, ponendo in essere quella che viene generalmente considerata una sorta di precondizione strutturale per l’effettiva libertà di circolazione dei lavoratori nel mercato comune.
All’esito d’una complessa evoluzione, che ha risentito in maniera decisiva degli impulsi provenienti dall’incessante elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia, le regole in tema di libera circolazione dei lavoratori sono oggi contenute, per gli aspetti relativi ai diritti di ingresso e di soggiorno e alle condizioni di lavoro applicabili al migrante, nella direttiva 2004/38 e nel regolamento n. 492/2011, con cui si è provveduto a razionalizzare e a codificare il materiale normativo stratificatosi nel tempo, abrogando ed inglobando in un corpus relativamente organico i previgenti strumenti di diritto derivato. A tali fonti si aggiunge, per i discussi profili relativi alla disciplina del distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, la direttiva 96/71/CE; mentre il coordinamento delle disposizioni relative ai regimi legali di sicurezza sociale, applicabili ai lavoratori e più in generale alle persone che si spostano all’interno dell’Unione, è oggi assicurato dai regolamenti n. 883/2004 e n. 987/2009 (quest’ultimo di attuazione del primo). In sede di ricognizione delle fonti di disciplina, non può, infine, essere trascurato il crescente rilievo riconosciuto dalla Corte di giustizia, anche in quest’ambito, ai principi generali dettati dai trattati istitutivi, ora anche mediante il riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in materia di cittadinanza dell’Unione e, quindi, di libertà di circolazione delle persone non correlata, in quanto tale, al funzionamento del mercato interno.
L’art. 45 del TFUE delinea – in termini praticamente immutati rispetto all’originaria formulazione della norma – il quadro dei principi regolatori fondamentali in tema di libera circolazione dei lavoratori subordinati. La disposizione – cui la Corte di giustizia ha da tempo riconosciuto la diretta applicabilità, anche nei rapporti interprivati – stabilisce, anzitutto, che la libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione implica «l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro» (art. 45, par. 2, TFUE). Ma prima ancora, la libertà così assicurata importa – per espresso disposto dell’art. 45, par. 3, TFUE, e con le sole limitazioni eccezionalmente giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica – il diritto dei lavoratori, cittadini dell’Unione, di: a) rispondere ad offerte di lavoro effettive; b) spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri dell’Unione; c) prendere dimora in uno qualunque di essi al fine di svolgervi un’attività di lavoro conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali; d) rimanere, sia pure a certe condizioni, nel territorio di uno Stato membro dopo avervi occupato un impiego.
Il diritto di spostarsi nel territorio di un altro paese dell’Unione – peraltro non solo per rispondere ad offerte di lavoro effettive, ma, come ormai chiarito dallo stesso legislatore sovranazionale (con l’art. 14, par. 2, lett. b, direttiva 2004/38/CE), anche semplicemente per ricercare un’occupazione –, e quello, consequenziale, di soggiornarvi al fine di svolgere un’attività lavorativa, configurano situazioni preliminari rispetto al principio fondamentale di parità di trattamento con i lavoratori nazionali, che pure l’art. 45 del TFUE enuncia per primo (v. Roccella, M.-Treu, T., Diritto del lavoro dell’Unione europea, Padova, 2012, 129), in quanto ne integrano il necessario presupposto di operatività in conformità con il generale principio per cui le norme sulle libertà di circolazione non sono applicabili a situazioni puramente interne ad uno Stato membro, esigendo la sussistenza di un elemento transfrontaliero. La Corte di giustizia ha, nel tempo, attenuato, soprattutto nell’ambito della libera prestazione dei servizi, il requisito della trans-nazionalità della situazione a tal fine rilevante per il diritto dell’Unione, ravvisandolo ad esempio in fattispecie in cui esso esibiva un carattere solo indiretto o potenziale e, per così dire, “rarefatto” (come emblematicamente avvenuto nella causa C. giust., 11.7.2002, C-60/00, Mary Carpenter c. Secretary of State for the Home Department), ma, quantomeno sino ad oggi, non si è mai spinta sino al punto di applicare in modo esplicito le norme sulle libertà fondamentali a situazioni meramente interne, lasciando così irrisolta l’annosa questione delle “discriminazioni alla rovescia”, la cui soluzione resta affidata agli ordinamenti nazionali, alla stregua del principio di eguaglianza da questi garantito. Il rilievo costituzionale assegnato alla cittadinanza europea, come status fondamentale della persona nell’ordinamento dell’Unione, spinge, peraltro, a superare tale tradizionale limite applicativo del principio di parità di trattamento in base alla nazionalità, e già si rintracciano chiari segnali in questa direzione nella giurisprudenza più recente della Corte (C. giust., 8.3.2011, C-34/09, Gerardo Ruiz Zambrano c. Office national de l’emploi (ONEm), dove, per la verità, sono soprattutto le conclusioni dell’Avvocato generale Eleanor Sharpston a delineare tale prospettiva).
L’esercizio del diritto di ingresso nel territorio di un qualunque Stato membro dell’Unione richiede semplicemente il possesso di una carta di identità o di un passaporto in corso di validità (art. 5, dir. 2004/38/CE). A differenza di quanto vale per i cittadini europei economicamente inattivi, che per i soggiorni superiori ai tre mesi debbono soddisfare determinate condizioni di autosufficienza economica, i lavoratori godono di un diritto di soggiorno incondizionato nel territorio dello Stato membro in cui svolgono la propria occupazione, e l’unica formalità amministrativa – di natura meramente dichiarativa – che può esser loro richiesta consiste, attualmente, nella iscrizione presso le autorità competenti (così l’art. 8 dir. 2004/38/CE, che continua a prevedere il rilascio della carta di soggiorno soltanto per i familiari del cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro). I lavoratori godono, in certe situazioni, oggi disciplinate dal reg. n. 635/2006, di uno status privilegiato rispetto ai cittadini economicamente inattivi anche in ordine all’acquisizione del diritto di soggiorno permanente, che in via generale matura, ai sensi dell’art. 16 della dir. 2004/38/CE, allorché il cittadino dell’Unione abbia soggiornato legalmente e in via continuativa per almeno cinque anni nello Stato membro ospitante.
I soggetti in cerca di occupazione e i disoccupati sono titolari di diritti che la giurisprudenza della Corte di giustizia, ed oggi la direttiva del 2004, hanno tendenzialmente assimilato a quelli dei lavoratori migranti, anche se sotto diversi profili essi godono di una garanzia meno intensa rispetto a quella riconosciuta a questi ultimi (per questo in dottrina si è parlato, per tali soggetti, di uno status in qualche modo intermedio tra quello del lavoratore pleno iure e quello del cittadino economicamente non attivo: v. Giubboni, S.- Orlandini, G., La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea, Bologna, 2007, 33 ss.). Per tale ragione, e pur a fronte della significativa espansione delle garanzie riconosciute ai soggetti economicamente inattivi in forza delle norme sulla cittadinanza dell’Unione, resta indubbiamente rilevante che lo status protettivo della persona che si avvale della libertà di circolazione possa essere o meno ricondotto alla sfera di applicazione dell’art. 45 del TFUE e della normativa valevole, in particolare, per i lavoratori subordinati. Seppure la dir. 2004/38/CE adotti un approccio tendenzialmente unitario, al cui fondamento va senz’altro rintracciato lo status di cittadinanza dell’Unione, i diritti dei migranti europei rimangono, infatti, sensibilmente differenziati su base categoriale, e la linea di demarcazione principale resta quella che divide i soggetti attivi sul mercato del lavoro come lavoratori subordinati o autonomi (ed i rispettivi familiari) da coloro che, per contro, esercitano una libertà di circolazione non collegata al funzionamento del mercato interno. Questo – come è stato osservato – dà anche ragione del fatto che, «nel contesto in esame, la preoccupazione principale della Corte non è tanto quella di tracciare una linea di discrimine fra subordinazione e autonomia (questione invece di cruciale rilievo per la giurisprudenza nei diversi contesti nazionali); quanto piuttosto di distinguere, al fine di delimitare la sfera operativa delle norme comunitarie in materia di libera circolazione, fra lavoratori (subordinati) e soggetti economicamente non attivi» (Roccella, M.-Treu, T., Diritto del lavoro, cit., 98).
La Corte di giustizia ha storicamente adottato un orientamento assai espansivo circa la sfera di applicazione delle norme sulla libera circolazione dei lavoratori subordinati, recependo una nozione decisamente ampia – che per questo in altra occasione abbiamo chiamato “debole” (Giubboni, S., La nozione comunitaria di lavoratore subordinato, in Sciarra, S.- Caruso, B., Il lavoro subordinato, vol. V del Trattato di diritto privato dell’Unione europea, Ajani, G.-Benacchio, G.A., Torino, 2009, 35 ss.) – di subordinazione. Questo orientamento si è non a caso formato, già a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo (con la famosa sentenza C. giust., 19.3.1964, C-75/63, Unger in Hockstra c. Bedrijfsvereniging voor Detailhandel en Ambachten), proprio nella lunga fase, chiusasi solo con la emanazione delle direttive del 1990, nella quale il diritto comunitario non riconosceva ancora – se non in via indiretta – diritti di libera circolazione (e le connesse garanzie di parità di trattamento) al di fuori della cerchia dei soggetti attivi nel mercato del lavoro e dei servizi. Dopo aver affermato la natura propriamente comunitaria (e dunque necessariamente uniforme) della nozione di lavoratore subordinato rilevante in tale contesto, la Corte di giustizia ha gradualmente precisato i relativi indici tipologici, inglobandovi soggetti che ben difficilmente gli ordinamenti nazionali – neppure quelli nei quali la giurisprudenza assecondava analoghi trend espansivi – avrebbero ricondotto alla corrispondente definizione di diritto interno (si pensi ai casi della “ragazza alla pari” o del tirocinante). Alla stregua di una consolidata giurisprudenza (sulla quale v. diffusamente Barnard, C., EU Employment Law, Oxford, 2012, 144 ss.), deve ritenersi infatti lavoratore subordinato, ai fini dell’art. 45 del TFUE, chiunque presti attività reali ed effettive nell’ambito di un rapporto la cui caratteristica distintiva è data dalla circostanza che la persona interessata fornisca per un certo tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione (è questa la formula utilizzata dalla Corte nella sentenza C. giust., 3.7.1986, C-66/85, Lawrie-Blum c. Land Baden-Wurttenberg, e poi confermata, ad esempio, nelle sentenze C. giust., 8.6.1999, C-337/97, C.P.M. Meeusen c. Hoofddirectie van de Informatie Beheer Groep, e C. giust., 6.11.2003, C-413/01, Franca Ninni-Orasche c. Bundesminister für Wissenschaft, Verkehr und Kunst). Si tratta di una nozione debole di subordinazione in quanto i confini della fattispecie, più che rispetto alle attività di lavoro autonomo, sono delimitati nei confronti di quelle attività che, per essere del tutto marginali e accessorie, debbono ritenersi tout court escluse dal mercato del lavoro (anche subordinato).
Una identica ratio espansiva del raggio di applicazione dei beneficiari della libertà di circolazione protetta dall’art. 45 del TFUE ispira del resto quella giurisprudenza – anch’essa d’ormai risalente consolidamento – che ha specularmente ridotto i margini entro i quali gli Stati membri sono autorizzati a riservare ai lavoratori nazionali l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni. Motivata da comprensibili ragioni storico-politiche, la deroga tuttora prevista dall’art. 45, par. 5, TFUE in termini apparentemente onnicomprensivi di tutti «gli impieghi nella pubblica amministrazione» è stata, infatti, assai restrittivamente interpretata dalla Corte di giustizia in quanto eccezione ad una libertà fondamentale garantita dal Trattato. Per cui, lungi dal poter essere riferita all’intero settore pubblico, l’eccezione alla libertà di circolazione come diritto di accedere in condizioni di parità al mercato del lavoro di un altro Stato membro è stata limitata esclusivamente a quegli impieghi che «implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche» (secondo la formula utilizzata nella sentenza pronunciata dalla C. giust., 17.12.1980, C-149/79, Commissione c. Regno del Belgio, e poi affinata dalla successiva giurisprudenza).
Una interpretazione rigorosamente restrittiva hanno d’altra parte ricevuto le limitazioni alla libertà di circolazione dei lavoratori (anche) subordinati giustificabili dagli Stati membri sulla base dei classici motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica menzionati dall’art. 45, par. 2, del TFUE. L’elaborazione giurisprudenziale – ora largamente codificata dalla dir. 2004/38/CE (agli artt. 27 ss.) – è stata particolarmente ricca in materia di limiti di ordine pubblico, vista la strisciante tendenza degli Stati membri a farvi ricorso, specie nei periodi di crisi, largheggiando sulla difesa delle specifiche identità politico-culturali nazionali. La Corte, pur ammettendo un certo margine di apprezzamento degli Stati membri nella definizione delle ragioni di ordine pubblico, ha essenzialmente comunitarizzato la relativa nozione, affermando che vi si possono ricomprendere solo comportamenti personali dell’individuo che integrino una minaccia effettiva e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività. Una severa applicazione del principio di proporzionalità – secondo modalità che la direttiva del 2004 ha inteso rafforzare, meglio articolando anche le garanzie procedimentali a favore del lavoratore (e del cittadino europeo) migrante – contribuisce di fatto a marginalizzare il rilievo applicativo del limite dell’ordine pubblico.
Come ricordato, l’art. 45, par. 2, del TFUE stabilisce, in favore dei lavoratori migranti, un incondizionato principio di parità di trattamento nelle condizioni di lavoro assicurate dallo Stato ospitante ai propri cittadini, specificando il divieto generale di discriminazione in base alla nazionalità ora contenuto nell’art. 18 dello stesso Trattato e nell’art. 21, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Questa piena assimilazione alla condizione giuridica del lavoratore nazionale sotto ogni profilo della disciplina del rapporto di lavoro (dall’accesso all’impiego al trattamento economico e normativo, sino alla normativa in materia di licenziamenti ed alle tutele di sicurezza sociale), nel situare lo status del migrante a metà strada tra quello del cittadino e quello dello straniero, rappresentò, all’epoca dell’entrata in vigore del Trattato di Roma, una novità nel quadro delle forme storiche di regolazione delle migrazioni economiche, quantomeno per la intensità con cui veniva affermato il principio di integrazione del migrante nella società del paese ospitante (v. Gottardi, D., La libera circolazione dei lavoratori subordinati nell’Unione europea, in Trattato di diritto del lavoro diretto da Persiani, M.-Carinci, F. vol. VI, Il mercato del lavoro, Brollo, M., a cura di, Padova, 2012, 3 ss.).
Al lavoratore migrante la normativa lavoristico-previdenziale del paese ospitante si applica nella sua interezza, sulla base di un principio di non discriminazione in ragione della nazionalità che la Corte di giustizia ha sin da subito provveduto ad applicare con rigore, sanzionando, oltre alle discriminazioni dirette, anche quelle indirette, ovvero le disparità di trattamento dissimulate o occulte, secondo la terminologia spesso impiegata in quest’ambito dai giudici di Lussemburgo, effettivamente derivanti, a svantaggio dei lavoratori migranti (o dei loro familiari), dall’applicazione di criteri apparentemente neutri (si pensi, tipicamente, alla residenza o ad analoghi criteri di collegamento territoriale). La particolare estensione dell’obbligo di parità di trattamento nello Stato ospitante è stata assicurata soprattutto dalla previsione dell’art. 7, par. 2, del reg. n. 1612/1968 (riprodotta nella omologa disposizione del vigente reg. n. 492/2011), che garantisce al lavoratore migrante il pieno accesso ai «vantaggi sociali», oltre che fiscali, previsti dall’ordinamento del paese di accoglienza. La norma è stata infatti interpretata, sin dagli anni Settanta dello scorso secolo, nel senso di garantire al lavoratore migrante tutti i vantaggi che, connessi o no ad un contratto di lavoro, «sono generalmente attribuiti ai lavoratori nazionali, in ragione principalmente del loro status obiettivo di lavoratori o del semplice fatto della loro residenza nel territorio nazionale, e la cui estensione ai lavoratori cittadini di altri Stati membri risulta quindi atta a facilitare la loro mobilità nell’ambito della Comunità» (secondo la formula impiegata dalla C. giust., 31.5.1979, C-207/78, Pubblico Ministero c. Even e Office National des Pensions pour Travailleurs). Insieme alla mobilità all’interno dell’Unione, l’accesso paritario agli stessi vantaggi sociali goduti dai cittadini dello Stato membro ospitante facilita e promuove in realtà l’integrazione del lavoratore migrante e dei suoi familiari nel tessuto sociale del paese di accoglienza. Nella interpretazione estensiva dell’art. 7. par. 2, del reg. n. 1612/1968 si compendia così quello che è stato definito il “modello assimilazionista” assunto alla base dell’art. 45 del TFUE: un modello che, nel garantire l’inclusione del lavoratore migrante e della sua famiglia nel complessivo sistema di welfare del paese ospitante, già si apre – come avrebbe dimostrato la successiva evoluzione dell’ordinamento sovranazionale – ad una idea più ampia di cittadinanza europea (v., anche per gli opportuni riferimenti, Giubboni, S., Diritti e solidarietà in Europa, Bologna, 2012, 139 ss.).
Il principio del trattamento nazionale in base al diritto del lavoro dello Stato di accoglienza (ovvero alla lex loci laboris, secondo il convergente combinato disposto degli artt. 4 e 11, par. 3, lett. a, del reg. n. 883/2004 in materia di sicurezza sociale) non risponde, peraltro, solamente ad esigenze di protezione del lavoratore migrante e di piena integrazione dello stesso nel tessuto socioeconomico del paese ospitante. Pensato soprattutto con riguardo al lavoratore migrante tradizionale, ovvero al prestatore di lavoro cd. standard con contratto a tempo pieno e indeterminato che si trasferisce stabilmente nel nuovo Stato membro, esso tende in realtà a trovare un’applicazione più ampia, originariamente estesa anche alle forme di mobilità temporanea, in quanto realizza, insieme ad una essenziale esigenza di tutela del prestatore di lavoro, anche una funzione di protezione del mercato nazionale da pratiche di dumping sociale. L’affermazione di un principio di piena parità di trattamento nel territorio dello Stato ospitante risponde, infatti, anche ad una precisa ratio economica, che è quella di proteggere, insieme al lavoratore migrante, la forza-lavoro nazionale, garantendo, più in generale, una concorrenza nel mercato comune non falsata dallo sfruttamento di regimi salariali e di protezione del lavoro più basi di quelli che sono tenuti ad osservare le imprese nazionali. Il principio per cui al migrante comunitario deve essere garantito lo stesso trattamento del lavoratore nazionale, sia per quanto attiene alle condizioni applicabili al rapporto di lavoro sia per ciò che concerne la tutela previdenziale e sociale più in generale, risponde, dunque, anche ad una chiara finalità di prevenzione di possibili distorsioni del processo concorrenziale nel mercato interno.
È importante sottolineare che, almeno nella impostazione originaria, il diritto comunitario non distingueva, con riguardo alla libera circolazione dei lavoratori, tra forme di accesso al mercato del lavoro del paese ospitante di carattere tendenzialmente permanente o stabile e ipotesi di mobilità di natura temporanea. Come già l’art. 1, par. 2, del reg. n. 38/1964, il reg. n. 1612/1968 era esplicito nel riferire il principio della parità di trattamento nello Stato ospitante anche ai lavoratori temporaneamente impiegati in regime di distacco nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi. Nel quarto «considerando» del regolamento del 1968 si legge, infatti, che «questo diritto deve essere riconosciuto indistintamente ai lavoratori permanenti, stagionali e frontalieri o a quelli che esercitano la loro attività in occasione di una prestazione di servizi». Nel disegno originario, dunque, come chiarì Luigi Mengoni (La libera circolazione dei lavoratori nella CEE, in Libertà di movimento delle persone nell’ambito delle Comunità europee, L’Aquila, 1972, 121 ss., qui 126), «le norme degli artt. 48-51 [gli odierni artt. 45-48 del TFUE: n.d.r.] sono strettamente connesse con la libertà di stabilimento e con la libera circolazione dei servizi, in quanto – secondo l’interpretazione giustamente accolta dal Consiglio – comprendono non solo i movimenti di lavoratori per rispondere a offerte provenienti da datori appartenenti a un altro Stato membro, ma anche i movimenti di lavoratori conseguenti allo spostamento della sede dell’impresa da cui dipendono da un Paese all’altro o all’istituzione di sedi secondarie o di società affiliate nel territorio di un altro Stato membro oppure, infine, alla temporanea prestazione di servizi da parte di un imprenditore insediato nel territorio di un altro Stato membro».
Questa impostazione è entrata in crisi all’inizio degli anni Novanta, allorquando nella giurisprudenza della Corte sulla libera prestazione dei servizi si è progressivamente affermato, accanto al tradizionale approccio antidiscriminatorio, il principio del divieto di ostacoli di carattere non discriminatorio, da allora prevalentemente applicato in base al rigoroso criterio del cd. market access (cfr. Barnard, C., The Substantive Law of the EU. The Four Freedoms, Oxford, 2010, 17 e 356 ss.). Tale mutamento di indirizzi interpretativi nella costruzione giurisprudenziale del diritto del mercato interno ha presto coinvolto anche la fattispecie del distacco di lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, che, già inglobata nella sfera di applicazione del reg. n. 1612/1968, ha finito per essere attratta nel campo applicativo dell’art. 56 del TFUE, con un tendenziale capovolgimento dei criteri regolativi di riferimento sino ad allora in vigore, posto che, in tale nuova prospettiva, l’integrale assoggettamento dei lavoratori temporaneamente distaccati dal prestatore di servizi straniero al diritto del lavoro dello Stato membro ospitante avrebbe per l’appunto integrato, per il datore di lavoro distaccante, un ostacolo non discriminatorio all’esercizio della libertà economica fondamentale, come tale in linea di massima vietato dal Trattato.
Questa operazione di “scorporo” della fattispecie del distacco nell’ambito di una prestazione intracomunitaria di servizi dall’art. 45 del TFUE, con contestuale riconduzione all’art. 56 del Trattato, si è perfezionata con la celebre sentenza Rush Portuguesa (C. giust., 27.3.1990, C-113/89), la quale ha gettato anche le basi concettuali di quella che – all’esito di una sofferta mediazione tra gli Stati membri – sarebbe divenuta la dir. 96/71/CE (infra, § 4). In tale pronuncia, infatti, la Corte da un lato stabilì che i prestatori di lavoro distaccati, a differenza dei lavoratori migranti ai sensi dell’art. 45 del TFUE, non accedono, in quanto tali, al mercato del lavoro del paese temporaneamente ospitante, ma seguono il datore che esercita (ex art. 56 del Trattato) la propria libertà di prestazione dei servizi rimanendo stabilito nello Stato d’origine; dall’altro affermò (incidentalmente) che, sia pure nel rispetto di tale libertà fondamentale, «il diritto comunitario non osta a che gli Stati membri estendano l’applicazione delle loro leggi e dei contratti collettivi a chiunque svolga un lavoro subordinato, anche temporaneo, nel loro territorio, indipendentemente dal paese in cui è stabilito il datore di lavoro» (così l’obiter dictum contenuto nel punto 18 della sentenza). La Corte di giustizia introduceva, in tal modo, una netta distinzione tra due forme di mobilità dei lavoratori sino ad allora unitariamente ricomprese all’interno della libertà di circolazione garantita dall’art. 45 del TFUE. Con tale sentenza, solo la “mobilità verso l’impiego” – seconda l’efficace definizione di Antoine Lyon-Caen (Le droit, la mobilité et les relations du travail: quelques perspectives, in Revue du marché commun, 1991, 108 ss.) – poteva ritenersi ricompresa nella sfera operativa dell’art. 45 del TFUE e, quindi, del principio di parità di trattamento con i lavoratori nazionali ivi affermato in favore dei lavoratori migranti; per contro, la mobilità effettuata in regime di distacco transnazionale “all’interno dell’impiego” avrebbe d’ora innanzi rinvenuto la propria base giuridica nella libertà di prestazione dei servizi riconosciuta dall’art. 56 del Trattato al datore di lavoro distaccante. Solo la libertà di circolazione ex art. 45 del TFUE è governata dal principio del trattamento nazionale previsto nello Stato d’accoglienza in favore del migrante; la mobilità dei lavoratori che si realizza nell’ambito d’una prestazione transnazionale di servizi, in quanto attratta nell’art. 56 del Trattato, preclude, viceversa, la integrale applicazione del diritto del lavoro del paese temporaneamente ospitante e richiede, piuttosto, la tendenziale applicazione della legge del paese d’origine, potendosi applicare la disciplina lavoristica dello Stato di destinazione solo nei limiti consentiti dai criteri di adeguatezza, necessità e proporzionalità.
La più volte richiamata dir. 96/71/CE ha quindi assolto al delicato compito di concorrere a determinare – in una linea di difficile mediazione tra le contrapposte istanze in gioco – il quantum di protezione da assicurare, nello Stato ospitante, ai lavoratori temporaneamente distaccati nell’ambito di una prestazione intracomunitaria di servizi, compatibilmente con i principi in tema di libera prestazione dei servizi, sulla cui base essa è stata adottata. Il legislatore sovranazionale si è perciò mosso lungo una sottile e scivolosa linea di compromesso tra istanze tra loro in tendenziale conflitto; ed il contemperamento tra l’esigenza di promuovere la libera prestazione dei servizi, da una parte, e quella di difendere i sistemi nazionali di diritto del lavoro da forme sleali di concorrenza basate sul dumping sociale, dall’altra, è transitato proprio attraverso la determinazione della misura di protezione che deve (o può) essere legittimamente assicurata al lavoratore distaccato secondo la legge e i contratti collettivi in vigore nel paese di destinazione.
In coerenza con tale compromissoria e limitata funzione, la dir. 96/71/CE non contiene norme di armonizzazione, neanche parziale, delle legislazioni del lavoro degli Stati membri, non dettando uno standard di tutela materiale in favore dei lavoratori impiegati nelle tre fattispecie di distacco che essa stessa definisce per delimitare il proprio raggio d’applicazione. La direttiva contempla ipotesi tra loro molto diverse sotto il profilo giuridico, adottando una definizione di distacco decisamente più ampia di quelle tipicamente in uso negli ordinamenti nazionali e di certo molto diversa, in particolare, da quella adottata, nell’ordinamento interno italiano, dall’art. 30 d.lgs., 10.9.2003, n. 276. Le fattispecie cui la direttiva (art. 1, par. 3) riferisce la propria disciplina – alla condizione che, in tutti i casi, tra il lavoratore e il datore distaccante permanga un rapporto di lavoro durante tutta la durata del distacco transfrontaliero – sono, segnatamente, quelle del distacco: a) attuato nell’ambito di un contratto (tipicamente d’appalto) concluso tra l’impresa che invia il lavoratore e il destinatario della prestazione del servizio; b) operato verso uno stabilimento o un’impresa appartenente al medesimo gruppo; c) realizzato nel contesto di una fornitura transnazionale di lavoro temporaneo. Con riguardo a tali ipotesi, la direttiva si limita a coordinare i sistemi di diritto del lavoro degli Stati membri applicabili al rapporto del lavoratore distaccato in tendenziale concorso tra di loro, stabilendo entro quali limiti debbano (art. 3, par. 1) o possano (par. 10) applicarsi le norme della legge, o dei contratti collettivi (par. 8), in vigore nello Stato membro in cui viene svolta l’attività lavorativa. In tal senso, la direttiva si configura come speciale strumento di diritto internazionale privato, integrativo della disciplina dettata dal reg. n. 593/2008 in materia di legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), in quanto concorre a dare soluzione al problema della selezione della disciplina applicabile ai lavoratori dipendenti da operatori economici che erogano servizi transfrontalieri mediante distacco del proprio personale. Le previsioni della direttiva sul distacco dei lavoratori prevalgono, d’altra parte, in quanto lex specialis, anche su quelle della dir. 2006/123/CE in materia di prestazione di servizi nel mercato interno (di cui si vedano, in particolare, gli artt. 16, par. 3, e 17, par. 2).
L’art. 3, par. 1, della dir. 96/71/CE definisce il nucleo minimo di tutela imperativa che lo Stato membro ospitante è tenuto ad assicurare al lavoratore temporaneamente distaccato nel suo territorio, a prescindere da quale sia la legge applicabile al contratto di lavoro ai sensi del regolamento Roma I. L’elenco delle materie che formano tale nucleo imperativo di tutela include le norme – risultanti da disposizioni legislative, regolamentari e amministrative, o da accordi collettivi dichiarati di applicazione generale – relative a: a) periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo; b) durata minima delle ferie annuali retribuite; c) tariffe minime salariali, comprese le maggiorazioni per lavoro straordinario (con espressa esclusione dei regimi pensionistici integrativi di categoria); d) condizioni di cessione temporanea dei lavoratori, in particolare da parte di imprese di somministrazione; e) sicurezza, salute e igiene sul lavoro; f) provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani; g) parità di trattamento fra uomo e donna nonché altre disposizioni in materia di non discriminazione. L’art. 3, par. 1, integra, in tal modo, nel campo di applicazione della direttiva, la previsione attualmente contenuta nell’art. 9 del reg. Roma I, che definisce le norme di applicazione necessaria cui il giudice può dare attuazione.
L’art. 3, par. 10, della direttiva autorizza peraltro una estensione delle misure di protezione applicabili al lavoratore distaccato nello Stato membro di destinazione. La disposizione consente, infatti, agli Stati membri, «nel rispetto del trattato», di esigere il rispetto di condizioni di lavoro e di occupazione riguardanti materie diverse da quelle contemplate dal par. 1, «laddove si tratti di disposizioni di ordine pubblico», come anche di applicare ai lavoratori distaccati nel proprio territorio condizioni di lavoro e di occupazione, stabilite in contratti collettivi o arbitrati a norma del par. 8, riguardanti attività diverse da quelle contemplate dall’allegato alla direttiva, riferito al solo settore edile. È opportuno rammentare che, per contratti collettivi (o arbitrati) dichiarati di applicazione generale, si intendono, ai sensi dall’art. 3, par. 8, quelli che devono essere rispettati da tutte le imprese situate nell’ambito di applicazione territoriale e nella categoria professionale o industriale interessate. E solo in assenza (come in Italia) di un sistema di dichiarazione di applicazione generale dei contratti collettivi, gli Stati membri possono avvalersi, ma solo a condizione di assicurare la parità di trattamento tra gli operatori economici nazionali e stranieri, vuoi dei contratti collettivi che sono in genere applicabili a tutte le imprese simili nell’ambito di applicazione territoriale e nella categoria professionale o industriale interessate, vuoi dei contratti collettivi conclusi dalle organizzazioni delle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale e che sono applicati in tutto il territorio nazionale.
Una notissima ed assai discussa giurisprudenza della Corte di giustizia ha tuttavia depotenziato il significato di tali aperture della dir. 96/71/CE, apparentemente rivolte a consentire un’ampia applicazione delle norme (di legge e di contratto collettivo, pur privo di efficacia propriamente erga omnes) del diritto del lavoro del paese di destinazione della manodopera distaccata. Nelle celebri sentenze Laval (C. giust., 23.5.2007, C‑341/05, Laval un Partneri Ltd c. Svenska Byggnadsarbetareförbundet e altri) e Rüffert (C. giust., 20.9.2007, C-346/06, Rechtsanwalt Dr. Dirk Rüffert als Insolvenzverwalter über das Vermögen der Objekt und Bauregie GmbH & Co. KG c. Land Niedersachsen), la Corte ha anzitutto chiarito che il livello di protezione assicurato ai lavoratori distaccati nell’ambito delle materie elencate dall’art. 3, par. 1, della direttiva è soltanto quello minimo esistente nello Stato membro interessato. In virtù di una interpretazione assai restrittiva della clausola di favor prevista dall’art. 3, par. 7, il nucleo di protezione minima fissato dal par. 1 della disposizione finisce, così, per determinare anche il livello massimo di tutela applicabile (anche in virtù della contrattazione collettiva) al lavoratore distaccato (cfr. per tutti Roccella, M.-Treu, T., Diritto del lavoro, cit., 177-178). Nella sentenza pronunciata nella causa Commissione c. Granducato di Lussemburgo (C. giust., 19.6.2008, C-319/06) la Corte ha d’altra parte accolto una nozione molto stretta di «ordine pubblico» ai sensi del citato art. 3, par. 10, in buona sostanza facendola coincidere con quella utilizzata nell’ambito della disciplina sulla libera circolazione dei lavoratori, e così escludendo che gli Stati membri possano avvalersi di tale disposizione per allargare significativamente il novero delle norme di legge applicabili nel loro territorio ai lavoratori distaccati da imprese stabilite in altri paesi dell’Unione (gli esempi che si possono formulare riguardano, fondamentalmente, le sole disposizioni, quali quelle in tema di privacy, dirette a tutelare il nucleo intangibile della libertà e dignità del lavoratore).
Poiché questa interpretazione assai restrittiva della dir. 96/71/CE ha implicazioni dirette anche sui margini di praticabilità del conflitto collettivo, nella misura in cui i limiti dalla stessa stabiliti si impongono per il tramite dell’art. 56 del TFUE anche all’azione rivendicativa e negoziale delle parti sociali (v. pure la sentenza C. giust., 11.12.2007, C‑438/05, International Transport Workers’ Federation e Finnish Seamen’s Union c. Viking Line ABP e OÜ Viking Line Eesti), è fondata la preoccupazione – espressa da molti osservatori – che in tal modo la Corte di giustizia abbia alterato l’equilibrio di interessi che la direttiva era stata deputata a realizzare, consentendo in buona sostanza forme di concorrenza nel mercato dei servizi basate sul dumping salariale. È anche per rispondere, almeno in parte, a tali preoccupazioni, fatte autorevolmente proprie dal Parlamento europeo, oltre che dalla Confederazione europea dei sindacati, che la Commissione ha recentemente presentato una proposta di potenziamento della implementazione della direttiva 96/71/CE nell’ambito del piano di azione per il rilancio del mercato interno (cfr. COM[2012] 131 final). La proposta della Commissione, tuttavia, appare piuttosto debole, e difficilmente potrà modificare l’assetto normativo delineatosi in forza dei ricordati orientamenti interpretativi della Corte di giustizia, non fosse altro perché intende lasciare inalterate, nel loro contenuto sostanziale, le previsioni centrali di cui all’art. 3 della direttiva.
La disciplina in materia di libera circolazione dei lavoratori appare percorsa da tensioni che ne impediscono una lettura unitaria. Sono in effetti osservabili tendenze apparentemente contraddittorie: da un lato si assiste ad una pervasiva incidenza dei principi in tema di libera prestazione dei servizi, con effetti potenzialmente deregolativi sui sistemi di diritto del lavoro degli Stati membri, in particolare per il tramite dell’interpretazione di segno liberistico della direttiva sul distacco fatta propria, almeno sino ad oggi, dalla Corte di giustizia; da un altro lato, tuttavia, la normativa sulla libera circolazione dei lavoratori continua ad esprimere una fondamentale istanza integrativa ed antidiscriminatoria, che risulta per certi versi rafforzata dalla tendenza giurisprudenziale a fare un uso sinergico dei principi sulla cittadinanza dell’Unione. In forza di tali principi, i canali di accesso ai sistemi di protezione sociale degli Stati membri sono stati potenziati in favore degli stessi lavoratori migranti, oltre che dei cittadini europei economicamente inattivi, come esemplarmente dimostrato da casi come Collins (v. la nota sentenza pronunciata dalla C. giust., 23.3.2003, C-138/02, Brian Francis Collins c. Secretary of State for Work and Pensions). La stessa Commissione europea ha più recentemente mostrato di voler tornare a investire su questa fondamentale dimensione della libera circolazione dei lavoratori – come nucleo primitivo della stessa cittadinanza dell’Unione quale «statuto transnazionale di integrazione sociale» (Azoulai, L., La citoyenneté européenne, un statut d’intégration sociale, in Chemins d’Europe. Mélanges en l’honneur de Jean Paul Jacqué, Paris, 2010, 1 ss.) –, consapevole del rilievo che essa può avere specialmente nell’attuale contesto di crisi europea (v. la proposta di direttiva COM[2013] 236 final, relativa alle misure intese ad agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libertà di circolazione loro garantita dal Trattato).
Difficilmente, però, tale tensione sarà sciolta privilegiando nettamente una dimensione a scapito dell’altra. È indubbio che la disciplina in materia di distacco nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi debba ritrovare un equilibrio più favorevole alle esigenze di protezione dei mercati del lavoro nazionali da forme di dumping sociale, ed è auspicabile che il potenziamento delle misure intese a garantire la corretta applicazione delle norme già esistenti – nei termini previsti dalla ricordata proposta legislativa della Commissione – possa effettivamente contribuire a tale risultato. Come è auspicabile che la Corte di giustizia adotti indirizzi più equilibrati negli esercizi di bilanciamento tra libertà economiche (di stabilimento e di prestazione di servizi) e diritti sociali di natura collettiva, valorizzando le indubbie potenzialità in tal senso offerte dal Trattato di Lisbona, anzitutto con la attribuzione di pieno valore giuridico alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ma una tale dialettica tra libertà economiche, tutela del lavoro e diritti di cittadinanza sociale è prevedibilmente destinata a rimanere anche in futuro, sia pure in forme diverse dalle attuali, in quanto esprime – anche nell’ambito della libertà di circolazione dei lavoratori – il carattere intrinsecamente composito e compromissorio della costituzione dell’Unione europea.
Artt. 45-48 del TFUE; artt. 15 e 21, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; dir. 2004/38/CE; reg. (UE) n. 492/2011; reg. (CE) n. 883/2004; reg. (CE) n. 987/2009; dir. 96/71/CE; reg. (CE) n. 593/2008.
Azoulai, L., La citoyenneté européenne, un statut d’intégration sociale, in Chemins d’Europe. Mélanges en l’honneur de Jean Paul Jacqué, Paris, 2010, pp. 1 ss.; Barnard, C., The Substantive Law of the EU. The Four Freedoms, Oxford, 2010; Barnard, C., EU Employment Law, Oxford, 2012; Giubboni, S., La nozione comunitaria di lavoratore subordinato, in S. Sciarra, B. Caruso, Il lavoro subordinato, vol. V del Trattato di diritto privato dell’Unione europea, Ajani, G.-Benacchio, G.A., diretto da, Torino, 2009, 35 ss.; Giubboni, S., Diritti e solidarietà in Europa, Bologna, 2012; Giubboni, S.-Orlandini, G., La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea, Bologna, 2007; Gottardi, D., La libera circolazione dei lavoratori subordinati nell’Unione europea, in Trattato di diritto del lavoro, Persiani, M.-Carinci, F., vol. VI, Il mercato del lavoro, Brollo, M., a cura di, Padova, 2012, 3 ss.; Lyon-Caen, A., Le droit, la mobilité et les relations du travail: quelques perspectives, in Revue du marché commun, 1991, p. 108 ss.; Mancini, G.F., L’incidenza del diritto comunitario sul diritto del lavoro degli Stati membri, in Riv. dir. eur., 1989, 10 (e ora in Mancini, G.F., Democrazia e costituzionalismo nell’Unione europea, Bologna, 2004, 159 ss.); Mengoni, L., La libera circolazione dei lavoratori nella CEE, in Libertà di movimento delle persone nell’ambito delle Comunità europee, L’Aquila, 1972, 121 ss.; Roccella, M.-Treu, T., Diritto del lavoro dell’Unione europea, Padova, 2012.