Liberde pomo
de pomo. Operetta filosofica (L. de pomo sive de morte Aristotilis) composta originariamente in arabo, da autore ignoto, intorno al sec. IX, rimaneggiata più volte in questa lingua, poi tradotta in persiano. Da una successiva versione ebraica, compiuta tra il 1235 e il 1240 da Abraham ha-Levi ibn Chasdai di Barcellona, che nel tradurre modificò sostanzialmente lo scritto, abbreviandolo e dandogli un carattere anche dottrinale completamente diverso, l'operetta fu tradotta in latino nel 1255 da re Manfredi, sia pure, quasi certamente, con l'aiuto di qualcuno dei numerosi dotti che risiedevano presso la sua corte chiamativi dal padre Federico II.
Da allora fino a tutto il XV secolo l'operetta ebbe una vastissima diffusione, favorita dalla strana e inspiegabile attribuzione di essa ad Aristotele, sì che si ritrova in numerosissimi manoscritti e in alcuni incunaboli contenenti il corpus delle opere aristoteliche.
L'operetta consiste in un dialogo tra Aristotele, che gravemente malato trova conforto nel profumo di una mela (elemento non nuovo nella letteratura medievale e applicato anche ad altri personaggi dell'antichità), e alcuni suoi fedeli allievi, che egli esorta, con volto e parole sereni nonostante il male che lo tormenta, a una vita tutta dedita alla filosofia e aliena dai piaceri e dalle preoccupazioni del mondo, e a un'attesa fiduciosa della morte come definitiva liberazione dell'anima dal carcere corporeo. Il dialogo è condotto sulla falsariga del Fedone platonico (di cui sono anche riportati qua e là, più o meno letteralmente, interi periodi): platonica è l'idea centrale che lo anima, platonica l'ambientazione, platonici sono gl'interlocutori pur nella lieve deformazione dei loro nomi.
Ciò che riporta in qualche modo a D. non è tanto il contenuto in sé dell'opera, quanto piuttosto il vivo interesse mostrato per essa da Manfredi, undici anni prima di Benevento, durante la lunga convalescenza da una grave malattia che gli aveva fatto intravvedere la morte; e soprattutto il prologo da lui premesso alla traduzione latina, tutto vibrante di fede cristiana nell'immortalità dell'anima e pervaso da un sereno abbandono alla misericordia di Dio: " ... quamvis de nostrae perfectionis praemio possidendo non nostris inniteremur iustitiae meritis, sed soli misericordiae creatoris ". Parole queste che immediatamente richiamano alla memoria quelle che D. gli fa pronunziare nel III canto del Purgatorio (Poscia ch'io ebbi rotta la persona / di due punte mortali, io mi rendei, / piangendo, a quei che volontier perdona. / Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei), sì da far nascere legittimamente il dubbio che lo scritto del giovane re non sia rimasto ignoto al poeta e lo abbia forse ispirato nel ricostruire così polemicamente e amorosamente la tragica figura.
Bibl.- Per l'originale arabo, J. Kraemer, Das arabische Original des pseudo-aristotelischen " Liber de pomo ", in Studi orientalistici in onore di Giorgio Levi Della Vida, Roma 1956, 484-506. Per la versione persiana (e i suoi rapporti da un lato con l'originale arabo e dall'altro con la traduzione ebraica e di riflesso quella latina): D.S. Margoliouth, The Book of the Apple, ascribed to Aristotle, in " Journal of the Royal Asiatic Society " 1892, 187-192, 202-252. Per la versione ebraica: J. Musen, Hatapuach, übersetzt aus dem Arabischen ins Hebräische von Abraham ben Chasdai, Lemberg 1873. Per la versione latina: W. Hertz, Das Buch vom Appel, in Gesammelte Abhandlungen von W. Hertz, a c. di F. von der Leyen, Stoccarda-Berlino 1905, 371-397; M. Plezia, Aristotelis qui ferebatur Liber de pomo. Versio latina Manfredi, Varsavia 1960; B. Nardi-P. Mazzantini, Il canto di Manfredi e il Liber de pomo sive de morte Aristotilis, Torino 1964.