LIBAZIONE (dal lat. libo "versare")
È il versamento di un liquido per bevanda di uno spirito o di un dio.
Gli antichi, oltre collocare entro le sepolture cibi e bevande, sopra o all'intorno versavano specialmente acqua fresca, perché credevano che i morti fossero tormentati, più che dalla fame, dalla sete. Alla stessa guisa, nelle diverse religioni agli dei si offrivano cibi e bevande; queste si spandevano sopra l'altare, ai quattro angoli, ovvero disotto, alla base. In specie si offriva il sangue delle vittime (cfr. Salnto L, 13), cosi da sostituire talora, per es., presso gli Arabi e altri Semiti, l'offerta delle carni. Libazioni si facevano anche col brodo in cui era stata cotta la vittima, con l'olio (Ezechiele, XLV, 14; 17, 24) e col latte. Il sangue e l'olio erano anche usati, forse per virtù vitale a essi inerente, come mezzi di consacrazione degli oggetti o delle persone su cui si spargevano.
Libazioni per pura bevanda si facevano solitamente con vino e acqua. Presso gli Ebrei, sebbene la legge menzioni solo le libazioni di vino (Esodo, XXIX, 40), se ne facevano anche di acqua (I Samuele [Re], VII, 6; II Sam. [Re], XXIII, 16). Il vino valeva talora come sostituto del sangue (cfr. Ecclesiastico, II, 15 [16] "le libazioni di sangue d'uva" e nell'Eucaristia cristiana il sangue della nuova alleanza sotto la specie di vino: Matteo, XXVI, 27-29), e l'acqua spesso si versava per scopo di semplice purificazione.
Nel rituale del sacrificio presso i Romani, appressata la vittima all'ara, il sacerdote celebrante, recitate le preci prescritte, spargeva sul capo dell'animale prescelto una manciata di farro macinato misto a sale (mola salsa); quindi, ricevuto da uno degli assistenti un vaso contenente del vino, lo delibava appena e poi lo offriva agli astanti, perché parimenti lo deliberassero; ciò fatto, versava il resto del vino contenuto nel vaso sul capo della vittima. Durante lo svolgimento di queste cerimonie doveva dai presenti osservarsi il più perfetto silenzio che era intimato dal praeco e dal calator con le formule di rito: favete linguis o parcite linguam; durante le varie fasi della cerimonia il tibicen suonava il flauto, affinché alcun rumore estraneo non turbasse la solennità del momento. Nei sacrifici incruenti la libazione si faceva gettando grani d'incenso e versando vino, dopo la delibazione, direttamente sull'ara accesa. I vasi per le libazioni erano il praecculum, il guttus, il simpulum o simpuvium. In questi vasi si portava dai ministranti (camilli) al sacrificante il vino da versarsi sul capo della vittima e sulle fiamme del foculus dell'ara. Un altro inserviente porgeva al sacerdote la patera della quale si serviva per spargere la mola salsa e poi versare il vino. I camilli non toccavano i vasi sacri e gli altri strumenti del sacrificio con le mani nude, ma a mezzo di una piccola tovaglia frangiata (mantele) che mai lasciavano durante la sacra cerimonia.
Libazioni si facevano dai Romani anche nei banchetti (epulae) con vino, latte e anche acqua o con altro liquido da effondersi o su di una piccola ara o a terra, con accompagnamento di canti e di suoni, mentre si recitavano preghiere in onore degli dei. Altre libazioni si facevano in certe circostanze prima di coricarsi, e queste erano generalmente in onore di Mercurio, divinità che in modo speciale presiedeva al sonno. Libazioni si facevano anche nei funerali, nell'ultimo giorno di questo, cioè al nono giorno dopo la sepoltura (feriae novemdiales) con la quale cerimonia si concludevano i parentalia. Tali libazioni di carattere funebre si facevano presso il sepolcro del congiunto con vino, latte e sangue.
Bibl.: J. Toutain, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiq. gr. et rom., IV, ii, p. 97 segg.; W. Henzen, Acta fratrum Arvalium, Berlino 1874, p. 34 segg.; J. Wellhausen, Reste arabischen Heidentums, 2ª ed., Berlino 1897; S. Reinach, Cultes, mythes et religions, I, Parigi 1902, p. 96-104; B. Stade, Biblische Theologie des Alten Testaments, Tubinga 1905; W. Robertson Smith, Lectures on the Religion of the Semites, 3ª ed., Londra 1927.