Li occhi dolenti per pietà del core
Canzone (terza e ultima) della Vita Nuova (XXXI 8-17), di cinque stanze, con fronte e sirma, concatenatio e combinatio, di 14 versi (come le due precedenti), su schema abc, abc: CDEeDEFF, ma, a differenza delle altre, con congedo (xyyzzy). Oltre che nella tradizione ‛ organica ' della Vita Nuova e delle ‛ rime scelte ' di essa (Barbi) e nella Giuntina del 1527, si ritrova in numerosi codici di rime dantesche, per lo più unita a Donne ch'avete e a Donna pietosa; qualche volta soltanto con la prima, come nel Barberiniano lat. 3953. Non è citata nel De vulg. Eloquentia.
Come le altre, appare disposta nel libro con scrupolo di simmetria: è, infatti, seguita da dieci componimenti minori, tanti quanti precedono Donne ch'avete, e quattro la separano da Donna pietosa, come quattro separano questa dalla prima canzone (si ha così lo schema 10-X-4-X-4-X-10). Questo fatto, oltre alla scelta della forma metrica, indica chiaramente l'importanza strutturale assegnatale dal poeta. E, infatti, il primo componimento dopo il cominciamento di Geremia profeta (Quomodo sedet sola civitas...), annunziante la morte di Beatrice, allegato da D. quasi come entrata de la nuova materia che appresso viene (Vn XXX 1); una materia che, come la prima, ma con nuova maturità spirituale e stilistica, tratta dell'amante e degli effetti dell'amore su di lui (la narrazione del suo ‛ stato '), mescolando al tema della lode quello della sofferenza, fino al trionfo finale della prima. La posizione dialettica dei due motivi è già evidente nel contrasto fra prima e seconda stanza; ma prevale quello del dolore, definito come cifra tematico-stilistica già nel primo verso e ribadito nel congedo (vv. 71-76 Pietosa mia canzone, or va piangendo / ... e tu, che se' figliuola di tristizia, / vatten disconsolata), oltre che nella prosa: propuosi di fare una canzone, ne la quale piangendo ragionassi di lei per cui tanto dolore era fatto distruggitore de l'anima mia (XXXI 1; e si pensi anche alla definizione dolorose parole, e, al § 2, alla risoluzione di ‛ dividere ' la canzone prima di allegarne il testo nel libro, affinché paia rimanere più vedova dopo lo suo fine). Il modo prescelto è, dunque, fondamentalmente, un modo elegiaco (lo ‛ stilus miserorum '), cosa che potrebbe spiegare l'esitazione di D. a proporla fra gli esempi di stile ‛ tragico ' nel De vulg. Eloquentia. Tuttavia, dal punto di vista formale, non la si può certo considerare scritta in stile umile; sono, anzi, prova di un alto impegno stilistico, secondo i parametri che verranno fissati, in seguito, nel trattato latino, la prevalenza quasi assoluta dell'endecasillabo (il superbissimum carmen), l'elevatezza della concezione e del lessico, la complessa struttura dell' ‛ ordine del sermone ', con la tendenza (pienamente attuata nella seconda stanza) a far coincidere il periodo sintattico con quello strofico. Quest'ultimo fatto se, da un lato, contribuisce a dare il senso di un ‛ disconsolato ' lamento, di una stremata volontà di pianto che concresce, per così dire, su sé stessa, senza neppure le insorgenze drammatiche di Lo doloroso amor, conferisce, d'altro lato, alla canzone una gravitar che nasce dalla volontà di quel dolore di sentirsi e commisurarsi a ragioni supreme, di configurarsi a esperienza esemplare.
La sostanziale staticità dello svolgimento corrisponde alla volontà di approfondire il tema del compianto soprattutto mediante l'insistenza su una tonalità ricorrente (e questo stesso ricorrere fa immagine, definisce liricamente una ‛ situazione ', un modo di essere); così la fitta trama discorsiva è punteggiata di parole emblematiche che costituiscono un campo semantico unitario, una misura d'ispirazione e di stile ben evidenziata: dolente, pietà, lagrimar, pena, sfogar lo dolore, morte, traendo guai, piangendo, dolente (prima stanza); piange, di pianger doglia, tristizia, voglia di sospirare e di morir di pianto (terza stanza); angoscia, sospiri, mente grave, morte, pena, dolor, piangendo, lamento (quarta stanza); pianger di doglia, sospirar d'angoscia, strugge 'l core, travagliar, acerba vita, labbia tramortita (quinta stanza; e significativamente, questi modi sono assenti dalla seconda, che parla della gloria celeste di Beatrice). D., insomma, sembra aver voluto dare, in tal modo, un modello esaustivo di stile ‛ doloroso ' (una scelta tematica e stilistica è per lui in primo luogo una scelta lessicale), nel quadro, però, delle dolci rime, dato che questo lamento è pur sempre un ragionar d'amore e si risolve in esaltazione suprema della donna amata.
Come iniziatrice programmatica di una nuova ‛ materia ', la canzone è strutturata su una solida impalcatura concettuale e meditativa. Il De Robertis ha rilevato puntuali rispondenze d'impostazione fra le sue prime tre stanze e quelle dell'altra canzone-manifesto, Donne ch'avete, nel numero dei versi (42), nel disegno, nella progressione dello stile (dal ragionare all'esaltazione alla dimostrazione) e nella distribuzione dei motivi. Nella prima stanza, infatti, dopo la proposizione tematica, c'è, come nell'altra canzone, l'affermazione di voler ‛ dire ', l'allegazione delle ‛ ragioni ' di questo ‛ dire ' e il rivolgersi allo stesso pubblico di donne gentili. Nella seconda c'è anche qui una visione celeste (Ita n'è Beatrice in l'alto cielo, / nel reame ove li angeli hanno pace, vv. 15-16), con l'intervento di Dio che la chiama a sé perché vedea ch'esta vita noiosa / non era degna di si gentil cosa (vv. 27-28). Nella terza viene ripreso il motivo dell'esaltazione delle virtù di lei, con la stessa divisione di ‛ cori gentili ' e ‛ cori villani ' e l'ammissione dei primi soltanto a quel dolore che è segno di aristocrazia spirituale e della conseguente capacità di comprendere la sublimità di Beatrice (e qui si può aggiungere che la delimitazione rigorosa di questa schiera di eletti, fra i quali si colloca il poeta, dispone nei modi tipici dell'affabulazione stilnovistica gli spunti tratti, in questa e nella stanza precedente, dalla letteratura agiografica e dai testi sacri). Solo a questo punto si ha una piena liberazione del sentimento, nella stanza quarta, la più bella, che anch'essa corrisponde all'erompere dell'inno d'amore nella quarta di Donne ch'avete, con, però, un'evidente distanza: all'oggettività corale della lode, fa qui riscontro il lamento soggettivo. L'ultima stanza è rivolta, come, idealmente, anche quella della prima canzone, al pubblico delle donne gentili, ma con una diversa volontà di narrare compiutamente il proprio ‛ stato ' e di completare la confessione patetica secondo i modi tipici del ‛ genere ' del compianto.
Nel complesso la canzone, ove si escluda la quarta stanza, è inferiore, come risultato poetico, alla precedente (e anche a Donna pietosa). Ad es., nella seconda stanza di Donne ch'avete si riscontra un alto grado di tensione mitica, evidente, fra l'altro, nella perentorietà vertiginosa degli attacchi paratattici (Angelo clama...; Lo cielo, che non bave altro defetto...; ché parla Dio...) e nella stessa misteriosa vaghezza del discorso divino, che dà a questo ‛ prologo in cielo ' il tono di una rivelazione visionaria, con ragioni commisurate su una dimensione diversa da quella dell'umano intelletto discorsivo. Ne Li occhi dolenti, invece, si ha come la chiosa, la spiegazione a livello terreno di queste ragioni, con un linguaggio argomentativo nel quale la stringente concatenazione sintattica stempera l'impeto visionario nella tessitura tendenzialmente prosastica delle giustificazioni e delle prove sostenute da nessi consecutivi o causali, da correlazioni logiche piuttosto che poetiche. Questo modo è evidente, oltre che nella prima e nella terza, anche nella quinta stanza che smorza l'insorgenza patetica della quarta in forme tipicamente dimostrative, " come di chi voglia affermare, difendere la propria commozione " (De Robertis). Si pensi, ad es., ai vv. 59, 62, 64, che concludono il discorso affettivo in moduli retorici di perorazione, in ‛ tòpoi ' convenzionali, piuttosto che in modi d'invenzione lirica.
Diverso discorso è da fare a proposito della quarta stanza, che rappresenta indubbiamente l'inizio di una nuova maniera che si ritroverà nei momenti più felici delle liriche e delle prose seguenti, fino almeno a quelle dedicate alla Donna pietosa, e resterà un acquisto sicuro anche nella lirica successiva alla Vita Nuova. Si è parlato, in proposito, di rappresentazione più semplice e diretta del sentimento, di un dolore " umano ", " personale " (ma converrà togliere a questi giudizi la connotazione romantica, e ogni sospetto di voler contrapporre questi versi alla poesia, pure essa altissima, della lode), di accenti che fanno presentire il Petrarca. Il Sapegno parla anche di un " superamento " della maniera di Guido Cavalcanti, alla quale D. si era attenuto nella prima parte del libro (D.A., La Vita Nuova, Firenze 1957², 102); e in effetti non c'è qui tanto la cura di evidenziare, ipostatizzandole, le strutture immaginative, assumendole, nel contempo, come strumento euristico di un approfondimento intellettuale e conoscitivo, ma conta, piuttosto, la scansione intima del discorso del ‛ core ', il libero svolgersi dell'emozione con le sue improvvise aperture, le sue intuizioni balenanti. Il desiderio della morte, trasfigurata in una luce di dolcezza, come pieno compimento d'amore, lo scolorarsi del viso nel disio soave di essa, il riscuotersi dell'anima affranta e il risentirsi viva nello stesso dolore come vocazione e fedeltà, il bisogno di solitudine che nasce dal pudore della propria intimità di pena e che sola può ridonare, in un lucido e patetico vaneggiamento, l'immagine remota e al tempo stesso vicina della donna, vivono in una cadenza morbida e intensa, già apparsa nell'ultima stanza di Donna pietosa (Vieni, ché 'l cor te chiede). La memoria, qui, non è solo e non tanto una redintegratio ontologica, un ritorno al centrum circuli in senso oggettivo e tendenzialmente anagogico; ma un'assunzione della propria fragilità umana, del sentimento del tempo come scorrere e morire dei giorni, il dolce e vano riscatto della vita perduta in uno spazio problematico d'illusione. I due motivi correranno paralleli e spesso dialetticamente fusi nella fase successiva del libro, accostando all'inno l'elegia, al mito immobile dell'amore perfetto, sottratto alla contingenza, il peso di una umanissima pena e di una tensione inappagata. L'intelligenza nova d'amore di Oltre la spera richiedeva questo sospiro del cuore (come pure la tentazione della Donna pietosa: l'ansia di un amore e di una felicità qui e ora) per affermarsi in tutta la sua purezza, nella sua polarità di conquista e perenne nostalgia.
Nella costruzione del libro la canzone ha, dunque, un'importanza assai notevole. Mentre, infatti, riconferma l'acquisizione centrale dello stilo de la loda e di una poesia che ritrova in sé stessa le sue ragioni, come non era avvenuto nella tematica iniziale dell'amor doloroso (si ricordi, oltre la stanza seconda, il coro femminile cui D. si rivolge, e il prevalente ragionare non di un particolare dolore, ma del dolore, assunto nella vicenda paradigmatica di amore perfetto coincidente a sua volta con una perfetta poesia), dispone, soprattutto nella quarta stanza, l'assolutezza di questo ideale nel pathos di una storia, lo splendore del mito nella vicenda problematica della coscienza: come meta da ritrovare ora per ora in un cammino sempre insidiato dall'irrequietudine stessa del sentimento. Prevale, tuttavia, nella canzone la ricerca di una verità che preesista alla singola storia, in cui, anzi, questa trovi giustificazione e autenticazione.
Alcuni spunti di questa canzone furono ripresi da Cino da Pistoia nella consolatoria a D. Avvegna ched el m'aggia più per tempo, composta, probabilmente, dopo la stesura della Vita Nuova.
Bibl. - Oltre ai commenti alla Vita Nuova, v. Barbi-Maggini, Rime 115 ss.; E. Proto, Beatrice beata, in "Giorn. d. " XIV (1906) 76 ss.; A. Marigo, Mistica e scienza nella " Vita nuova ", Padova 1914, 61-65; G. Zonta, La lirica di D., in " Giorn. stor. ", suppl. 19-21 (1921) 105-106; D. De Robertis, Cino da Pistoia e la crisi del linguaggio poetico, in " Convivium " I (1952) 28-30; ID., Il libro della " Vita nuova ", Firenze 1961, 155-163; ID., Le Rime di D., in Nuove lett. 302-303 (ora in Il libro della V.N., cit., 1970², 264-266); M. Marti, Appunti sulle rime giovanili di D., in Realismo dantesco e altri studi, Milano-Napoli 1961, 40-41; N. Sapegno, Storia letteraria del Trecento, Milano-Napoli 1963, 46-48; V. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella " Vita nuova ", in Studi in onore di I. Siciliano, Firenze 1966, I 130-133; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, II, 132-138; C. Singleton, Saggio sulla " Vita nuova " (trad. ital.), Bologna 1968, cap. v.