LEVI e Leviti (Levi, ebr., nella versione greca dei LXX Λευεί e Λευί; la Bibbia riallaccia il nome alla radice "aderire" [Genesi, XXIX, 34 e Num., XVIII, 2]; per altra etimologia vedi sotto)
L., secondo la Bibbia, era il terzo dei figli di Giacobbe avuti da Lia: e capo di una delle dodici tribù d'Israele. Alla sua discendenza appartennero i fratelli Mosè e Aronne. Ma se Mosè ebbe la parte di reggitore delle tribù ebraiche nel loro formarsi in popolo, i Leviti ebbero, nella storia seguitane, mansioni esclusivamente cultuali: una famiglia, quella d'Aronne, il sacerdozio (Esodo, XXVIII-XXIX), le altre, la cura del tabernacolo prima (Numeri, I, 50; III, 6-10) e poi le mansioni secondarie nel tempio.
Figli di L. furono Gerson, Caath e Merari, e ad essi furono raggruppate le famiglie levitiche. Mosè (che non ebbe lunga discendenza) e Aronne furono tra i Caathiti. Il sacerdozio in Israele si continuò per la linea del terzogenito d'Aronne, Eleazar e quindi per Pinḥas (Phinees nella Volgata): ma un ramo parallelo si svolse per Ithamar, il quartogenito.
Nella benedizione di Giacobbe morente ai suoi figli, a L. ed a Simeone è rinfacciato il carattere violento di guerrieri senza scrupoli, alludendosi al tradimento e al massacro dei Sichemiti (Genesi, XXXIV, 25) da loro perpetrato a vendicare l'onore della sorella Dina; e di loro si predice: "Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele" (Gen., XLIX, 5-7). In realtà la sorte dei Leviti non fu felice sotto l'aspetto materiale in confronto delle altre tribù israelite. A parte il sacerdozio giudaico, che quando fu dato valore effettivo all'unità del tempio sul Sion ebbe a volte condizioni economiche fiorenti, i Leviti ebbero una sorte precaria e, sovente, di povertà: tanto che nel Pentateuco si raccomanda spesso la generosità verso di loro come verso gli orfani e le vedove.
Nella divisione della terra conquistata di Canaan i Leviti non ebbero una propria parte. "Il Signore è la loro parte", secondo la espressiva frase biblica (Num., XVIII, 20; Deuter., X, 9; XVIII, 2). Essi infatti non esercitano né la pastorizia (se non limitatamente per uso familiare nel territorio attiguo alla città abitata) né l'agricoltura o altra attività lucrosa, ma addetti al culto per tradizione familiare e per legge vivono dei proventi del santuario, di offerte volontarie e di diritti di culto che la consuetudine e la legge vengono determinando, e di cui si trovano minuziose indicazioni nel Levitico e nel Deuteronomio. Sono però loro attribuite dalla legge, ma senza che siano loro riservate, città in numero di 48, con una zona di 1000 cubiti in giro per i loro greggi e armenti (Numeri, XXXV, 2-8; Giosuè, XXI; I Chron., VI, 54-81); alcune possedute in realtà solo temporaneamente e ad epoca tardiva. Sei fra esse servono assieme da luogo di rifugio, dove cioè può scampare senza poter esserne estratto l'omicida in attesa del giudizio della sua colpabilità.
Venendo dalla penisola del Sinai con le tribù israelite, riunite per opera precipua d' uno dei loro, Mosè, attorno a un'unica divinità che diviene centro e vincolo nazionale, i Leviti sono naturalmente più stretti ad essa e al suo culto. I fasti dell'antica fedeltà loro a Jahvè sono esaltati nella tradizione familiare: con le spade in mano s'erano lanciati contro gli adoratori del vitello d'oro (Esodo, XXXII, 25-29); e Pinḥas aveva trapassato con una lancia una coppia prevaricatrice (Numeri, XXV, 7-9). L'arca, che fu sempre unica in Israele, avanti la ricostruzione del tempio era portata da essi nelle battaglie in segno della presenza e dell'aiuto di Dio, e, come la tenda (tabernacolo) in cui era riposta, veniva da essi custodita con una continuità che non venne meno se non con le vicende dell'arca stessa. Però essi stessi furono chiamati anche altrove: così un Levita che abitava come straniero (gher) nella tribù di Giuda (Giudici, XVII, 7, XVIII, 30), si pone a servizio di culto presso il ricco efraimita Mica, ed è poi invitato a Dan, dove crea un santuario che con quello di Betel sarà tra i centri principali religiosi del regno delle dieci tribù. Egli, delle cui vicende si narra un fatto mostruoso che diede poi origine allo sterminio della tribù di Beniamin (Giud., XIX- XXI), fu accolto dai Daniti favorevolmente perché in possesso di una tradizione cultuale e forse anche di una legittimità almeno apparente, tale da donare importanza al santuario da lui diretto.
Ma, dal periodo dei Giudici, si attenua e s'infrange lo sforzo originario di cementare l'unità nazionale con una speciale alleanza con Dio sotto il nome di Jahvè e una stretta comunione religiosa. Sorgono un po' da per tutto i santuarî: oltre a Silo, dove è l'arca, si hanno tracce di culto a Sichem (Giosuè, VIII, 30; Giudici, IX, 6, 27), a Galgala di Efraim (I Samuele, VII, 16), a Bokhim (Giud., II, 1-15), a Betel, a Mispa di Beniamin e di Galaad, a Galgala di Gerico, a Hebron, Bersabea e altrove. Il loro sorgere era un prodotto del sentimento religioso per una parte e per l'altra delle condizioni in cui le tribù si trovavano, disperse in territorî non completamente dominati e con legami politici e militari del tutto saltuarî. Le scarse notizie non ci permettono di affermare che in tali località vi fossero elementi levitici, come farebbe supporre l'unicità della divinità adorata: anche non Leviti certo esercitarono il culto supremo del sacrificio. Né mancano, nel rilassamento generale dei vincoli comuni, infiltrazioni idolatriche, occasionate e appoggiate da famiglie levitiche o da individui di esse che secondano le correnti popolari o cercano meno grama esistenza, creando un proprio santuario o mettendo in valore alcuni fra quelli esistenti.
Ma la storia religiosa ebraica, dal tempo almeno di Samuele, è dominata dal contrasto di questo penetrare del politeismo o cananeo o dei grandi imperi che a turno si scambiano l'egemonia dell'Oriente, e della reazione della tradizione iahvista, sostenuta dagli antichi cultori e sacerdoti del dio nazionale e fatta propria poi dal profetismo.
Nel primo periodo dei re i Leviti appaiono nel trasferimento dell'arca per la fuga di David dinnanzi ad Absalom (II Samuele [Re], XV, 24); e nel tempio di Salomone (III Re, VIII, 4, testo malsicuro). Obededom, presso cui fu depositata l'arca in Gerusalemme, era pure levita (I Cron., XV, 18-21).
Ezechiele, durante l'esilio in Babilonia, rimprovera acerbamente l'idolatria diffusa tra sacerdoti e Leviti (Ez., VIII; XLIV): e nell'ultima visione del tempio ricostruito su piani smisuratamente ampliati, abbozzando una legislazione del periodo messianico ammette quali unici sacerdoti i figli della famiglia di Sadoc, di cui testimonia la continua fedeltà a Jahvè, mentre i Leviti i quali servirono ai diversi Baal locali sono retrocessi ai servizî inferiori del tempio.
Alcuni critici attribuiscono anzi ad Ezechiele e all'influenza dei suoi scritti la distinzione stessa di sacerdoti sacrificatori e di Leviti, cui è consentita solo una parte secondaria e dipendente del culto. Quando però Ciro dà ai Giudei deportati in Babilonia la libertà del rimpatrio, si ricostruiscono le liste genealogiche delle diverse famiglie a base dei rispettivi diritti e interessi civili e territoriali, e in esse appaiono nettamente distinte famiglie di sacerdoti, di Leviti, di cantori e di netinei (servi pagani donati al tempio). Quella divisione di uffici doveva essere anteriore all'esilio poiché le condizioni delle diverse classi addette al culto s'erano trasformate in diritti. Bisogna risalire almeno al tempo del re Giosia, quando il culto di nuovo s'accentrò vigorosamente, e i privilegi delle famiglie sacerdotali obliterati nella molteplicità dei santuarî e ancor più nelle numerose sedi cultuali idolatriche, dovettero venire rievocati e rimessi in valore. Il rilievo dato allora al sacerdozio rimasto fedele era spontaneo risultato della prevalenza avuta dalla tendenza accentratrice su quella discentratrice del culto, quando non fosse un castigo per i Leviti infedeli alla religione nazionale.
Ma la distinzione di classi e di privilegi doveva essere più antica, non solo per la complessità raggiunta dal culto d'Israele con conseguente divisione di mansioni, ma dal sistema stesso tribalizio in cui emergeva costantemente con speciali diritti e dominio una particolare famiglia.
Alcuni, della scuola indipendente, revocano in dubbio la storicità delle linee stesse fondamentali delle origini dei Leviti. Essi non avrebbero costituito realmente un complesso gentilizio, ovvero tra i Leviti noti tardivamente come addetti ai servizî minori del tempio e l'antica bellicosa tribù di cui si ricordano episodî vi sarebbe una soluzione di continuità. Il nome stesso, messo in rapporto con la radice lw' rinvenuta in iscrizioni minee di el-‛Ölā, a nord di Medina, e altre ritrovate nell'Arabia da Jaussen e Savignac, con significato fondamentale di sacerdote, indica una professione, non una gente. Mosè e Aronne, secondo narra la Bibbia, ebbero stretti rapporti con tribù midianite: apparentati ai sacerdoti del luogo, adoravano quella divinità che poi per opera loro divenne l'Iddio proprio d'Israele.
Senza sottomettere a esame le diverse teorie sulla prima storia degli Ebrei, ad altri non appaiono ragioni decisive per togliere ai Leviti il carattere di nucleo gentilizio loro dato dalla tradizione e trasformarli in semplice corporazione. Non solo nell'ebraismo, ma anche presso gli Arabi antichi il sacerdozio, quando non fu esercitato dai capi del clan, si svolse presso una speciale famiglia, che nel proprio grembo ne perpetuò la successione quasi una propria caratteristica, se non sempre un diritto. È quanto troviamo, fin dove ci permettono risalire i documenti, nella storia del sacerdozio e dei Leviti ebrei. Gli uffici sacerdotali, devoluti a una famiglia, divengono eredità della discendenza moltiplicantesi in modo da rendere necessaria una divisione in classi sia per la regolarità del servizio cultuale sia per la tutela dei diritti dei singoli. Ugualmente per i semplici Leviti, ministri secondarî del culto, per i quali si rilevano con cura nelle liste ufficiali dei rimpatriati dall'esilio babilonese i rapporti gentilizî a dimostrazione della loro condizione giuridica. Per avere il carattere di tribù non occorre che far risalire più addietro questa speciale dedizione al culto del complesso levitico.
Il sistema ereditario delle persone addette al culto aumentò il numero di sacerdoti e di Leviti semplici a cifre elevatissime. Al sorgere del cristianesimo i sacerdoti sono divisi in 24 classi, rispondenti a diversi gruppi familiari, la cui organizzazione è fissata nel Talmūd jer. (Taanith, IV, fol. 68). Essi servivano a turno, come risulta anche dal Vangelo (Luca, I, 8). Nelle liste dei rimpatriati dall'esilio babilonese le famiglie sacerdotali contano 4289 uomini (Esdra, II, 36-39; Nehemia, VII, 39-42; in Nehemia, XII, 1-7 per il tempo di Zorobabele sono enumerati 22 gruppi sacerdotali). Per il periodo posteriore non si hanno cifre.
Per i Leviti le liste dei rimpatriati sono molto inferiori: Leviti propriamente detti 74, "cantori" 128 e "portieri" 139 (Esdra II, 40-58). Ma non si può dedurre che il numero fosse realmente limitatissimo. La misera condizione giuridica ed economica, cui erano astretti, senza che vi supplisse un forte movente ideale per la materialità stessa dei loro uffici, dovette trattenerne la maggior parte in Babilonia, dove s'erano collocati: n'è buona conferma il testo di Esdra, II, 4 segg. Per il tempo di David in I Chron., XXIII, 9, si ha invece una cifra complessiva di 38.000. Per il periodo dell'esodo si vedano le cifre in Num., III, 22, 34. Dopo l'esilio i semplici Leviti, sminuiti di numero in Palestina e poveri d'organizzazione, perdono sempre più d'importanza sociale e religiosa. Anch'essi erano divisi in classi o gruppi gentilizî: 17 famiglie in Nehemia, X, 10-14, ma 24 rispondenti alle sacerdotali secondo le Cronache, come nel periodo cristiano (Fl. Gius., Antiq., VII, 14, 7; Taanith, IV, 2). Per la consacrazione, uffici e diritti dei sacerdoti e Leviti, v. levitico.
La distruzione del tempio di Gerusalemme fatta da Tito nell'anno 70 tolse ogni privilegio ai Leviti e ai sacerdoti, data la legge dell'unità assoluta del santuario fissato sul Sion, cui Israele tenacemente s'attenne. Chiusa l'era del sacerdozio ebraico, sacerdoti e Leviti furono designati con preferenza al culto sinagogale, essenzialmente diverso dai loro antichi ministeri sacrificali, e si cercarono una posizione indipendente come gli altri figli d'Israele.
L'importanza del sacerdozio levitico nella storia dell'idea e della vita religiose è certamente minore di quella del ministero dei profeti, fioriti per vocazione personale dal sec. IX al V a. C. Il sacerdozio ebraico, come quelli pagani, non ebbe, a differenza di quello cristiano, missione d'istruzione o formazione religiosa, ma essenzialmente di culto. I Leviti dovevano però insegnare al popolo la legge (Levit., X, 10; Deut., XXXIII, 9-10). Parve in tal modo che vi fosse un antagonismo tra profeti e sacerdozio, valutando quelli meno di questi il culto esteriore di cui facevano professione. Ma contro il sacerdozio i profeti non parlarono se non quando esso deviò, dando al popolo l'illusione che bastassero le offerte dei sacrifizî per rendersi accetti a Dio. Così parlò Amos contro il santuario di Betel, ed Ezechiele contro i Leviti fattisi ministri d'idolatria e illudenti con speranze menzognere la nazione privilegiata del santuario del Sion. In realtà il sacerdozio levitico, consacratosi a Dio "suo retaggio", lasciando a parte i tralignamenti dovuti a influenza d'ambiente o a ragioni economiche, ebbe il merito di mantenere fedeltà all'antica religione di Jahvè, nelle particolarità sue di monoteismo e di spiritualità. Si deve ad esso lo sforzo continuato di accentrare il culto in Israele, perché fosse espressione comune della fede nell'unico Dio. Né mancarono i profeti d'origine levitica, quali Geremia ed Ezechiele. Le invettive non rare negli scritti profetici contro il materialismo del culto devono avere un'interpretazione mitigata, se consideriamo la parte, che appare nei nuovi studî sempre più grande e viva, del Salterio nel servizio religioso di Israele. Un culto, vivificato - almeno nel suo periodo migliore - dalle più profonde e sincere liriche religiose che mai siano uscite da cuore umano, doveva avere un'influenza tutt'altro che esigua nella formazione dell'anima religiosa nazionale.
Bibl.: G. Maybaum, Die Entwicklung des altisraelitischen Priestertums, Breslavia 1880; W. W. Baudissin, Geschichte des alttestamentlichen Priestertums, Lipsia 1889; A. van Hoonacker, Le sacerdoce lévitique, Lovanio 1899. - Da consultare i commenti alle voci: esodo; levitico; numeri; e per l'importanza specialissima avuta dalla religione inIsraele le grandi storie del popolo ebraico. Fondamentale per la conoscenza dello sviluppo della critica posteriore: J. Wellhausen, Prolegomena zur Geschichte Israels, 6ª ed., Berlino 1927. Rappresentanti delle varie tendenze: E. Meyer, Die Israeliten und ihre Nachbarstämme (radicale), Halle a. S. 1906; H. Gressmann, Moses und seine Zeit (assai moderato e opposto al Meyer), Gottinga 1913; E. König, Geschichte der alttestamentlichen Religion kritisch dargestellt (conservatore), 3ª e 4ª ed., Gütersloh 1924; L. Desnoyers, Histoire du peuple bébreu (cattolico), voll. 3, Parigi 1922-30. Più notevoli e recenti lavori della critica conservatrice: F. X. Kugler, Von Mosses bis Paulus, Münster 1922; A. Eberharter, Der israelitische Levitismus in der vorexilischen Zeit, in Zeitschrift für kath. Theologie, LII (1928), pp. 492-518; G. Ricciotti, Storia d'Israele, Torino 1932. - Per il periodo giudaico: E. Schürer, Geschichte des jüdischen Volkes im Zeitalter Jesu Christi, 4ª ed., Lipsia 1891-1909, voll. 3. Sull'etimologia del nome Levi ultimo studio di H. Grimme, Der südarabische Levitismus und sein Verhältnis zum Levitismus in Israel, in Museon, XXVII (1924), pp. 169-99.