Lettere e numeri: lo sviluppo del linguaggio algebrico
Il linguaggio algebrico-analitico, nel quale si scrivono espressioni, equazioni e, più in generale, formule matematiche, non è un linguaggio naturale, sviluppatosi cioè in un contesto umano relazionale sia pure non orale. È un linguaggio artificiale, adatto allo scopo di esprimere relazioni matematiche quantificabili, che tuttavia non ha un “autore”, non è cioè stato progettato consapevolmente e una volta per tutte, come lo sono invece i linguaggi di programmazione.
Come un linguaggio naturale, è un sistema aperto e la sua attuale sistemazione è il risultato di un processo storico che trae origine dallo stesso linguaggio naturale e che si è evoluto per successive abbreviazioni e convenzioni elaborate e accettate dalle comunità scientifiche dei vari periodi. Nello sviluppo del linguaggio algebrico si è soliti distinguere tre fasi: quella dell’algebra retorica, che va dall’antichità fino a circa il xv secolo, in cui le relazioni tra grandezze sono espresse attraverso parole non codificate; quello dell’algebra sincopata, in cui iniziano ad apparire abbreviazioni sintetiche che via via si cristallizzano in simboli da tutti riconosciuti; quello dell’algebra simbolica, che si afferma nel xvi secolo con F. Viète e Cartesio, in cui le variabili, le operazioni, i predicati di confronto e altri operatori sono indicati con segni che oggi, almeno per gli aspetti più elementari, costituiscono un patrimonio linguistico comune, che si acquisisce attraverso l’istruzione scolastica.
Un esempio di algebra sincopata è un’equazione di cui si occupa G. Cardano nella prima metà del xvi secolo: «Qdratu aeqtur 4 rebus p: 32». Nell’odierna e familiare algebra simbolica tale equazione sarebbe scritta come x 2 = 4x + 32, avendo indicato con la lettera x (come spesso si usa, anche se tale usanza non costituisce una regola vincolante del linguaggio stesso) il valore incognito da determinare.
La precedente equazione già condensa in sé notazioni e simboli sorti in epoche e luoghi differenti: il sistema posizionale decimale, di origine indiana e araba, per scrivere i numeri di fatto fu introdotto in Europa nel 1202 con la pubblicazione da parte di Fibonacci del Liber abaci; anche se tale sistema era stato propugnato già attorno all’anno Mille da papa Silvestro ii, che aveva compiuto studi matematici nella Spagna araba.
L’indicazione con lettere di numeri incogniti o indeterminati, e la loro manipolazione come se fossero dati numerici conosciuti, si ritrova già nel iii secolo d.C. in Diofanto di Alessandria, ma viene compiutamente codificata solo nel xvi secolo con F. Viète, che utilizza le vocali per le incognite e le consonanti per i parametri dati; l’indicazione dell’elevazione a potenza attraverso un esponente, che indica il numero dei fattori da moltiplicare, è dovuta a Cartesio, cui risale anche la giustapposizione, come in 4x, per indicare la moltiplicazione 4 ⋅ x; il segno di uguaglianza «=» fu invece introdotto soltanto a metà del xvi secolo da R. Recorde «perché – così egli scrive – non ci possono essere due cose più uguali di due rette parallele»; il segno «+», infine, per indicare l’addizione, che si sviluppa come abbreviazione stilizzata dal latino et, utilizzato in alternativa a plus per indicare tale operazione, compare per la prima volta a stampa, insieme al segno «−» per la sottrazione, nel testo di J. Widman Behende und hupsche Rechnung auf alIen Kauffmanschafft (Calcolo svolto e semplificato per ogni commercio, 1489). Così l’usuale scrittura odierna x 2 = 4x + 32 indica il punto di arrivo di un lungo e non lineare processo di sistemazione.
Va osservato che in matematica l’introduzione di un nuovo simbolo, come del resto la definizione di un nuovo termine, non è quasi mai soltanto una comodità stenografica: spesso è dovuta all’introduzione di nuovi strumenti matematici (come è il caso dei simbolismi per i limiti, le derivate e gli integrali del calcolo infinitesimale); altre volte contribuisce a creare un nuovo oggetto, concetto o relazione, anche se in modo non del tutto consapevole e, quindi, viene successivamente adottata con familiarità. Per esempio, la notazione della elevazione a potenza dovuta a Cartesio non è semplicemente un’abbreviazione per una moltiplicazione in cui si ripetono più fattori, ma di fatto introduce una nuova operazione – l’elevazione a potenza – che nella matematica greca era limitata all’elevazione al quadrato e al cubo, perché soltanto delle operazioni con gli esponenti 2 e 3 era possibile una interpretazione geometrica. Come nel caso delle potenze, la stenografia matematica non è perciò mai neutra, ma nell’assumersi un enorme carico di informazioni porta naturalmente con sé vere e proprie novità concettuali.
Per tali motivi, l’introduzione di nuovi simboli avviene in matematica in parallelo con l’introduzione di nuovi oggetti ed è dunque inarrestabile, come lo è l’evolversi di una qualsiasi disciplina di studio. Anche per questo, la matematica ricerca sempre nuovi simboli e, oltre che all’alfabeto latino, ricorre all’alfabeto greco; un esempio per tutti: π, per indicare il rapporto tra la circonferenza e il suo diametro, introdotto con questo significato, nel 1737, da Eulero, cui si devono anche la scelta della lettera e come base dei logaritmi naturali e quello della lettera i per l’unità immaginaria. Ma ricorre anche a quello ebraico, come il simbolo ℵ0 (aleph zero) per indicare la cardinalità del numerabile, introdotto da G. Cantor. A volte fa uso anche di segni di interpunzione, come il punto esclamativo «!» (per indicare il fattoriale di un numero) introdotto nel 1808 dal matematico C. Kramp, o a segni grafici come il simbolo per l’infinito «∞» introdotto da J. Wallis nel 1655.