lettere diplomatiche
Si possono definire così tutte le corrispondenze che, nell’esercizio delle sue funzioni presso la seconda cancelleria della Repubblica, M. inviò a diverse autorità fiorentine (i Signori, i Dieci di Balìa e libertà, i Nove dell’ordinanza e milizia) nel corso di missioni fuori Firenze, sia che esse fossero all’interno del dominio, e per tali missioni si è soliti parlare di «commissarie» o «commissioni», sia presso potentati esteri, e allora le si indicano piuttosto come «legazioni».
Le commissarie. – Ci è pervenuta la documentazione di almeno 27 missioni all’interno del territorio fiorentino, cronologicamente distribuite in maniera piuttosto omogenea lungo tutto l’arco del servizio di M. presso la cancelleria (1498-1512), ed è legittimo supporre che altre ve ne furono di cui non è rimasta traccia nei registri dei Dieci o dei Nove. La prima, o almeno tale risulta a noi, ebbe luogo sul fronte pisano tra il 10 giugno e l’11 luglio 1500 (LCSG, 1° t., pp. 370-86; solo una delle 15 lettere, tutte comunque di mano di M., è da lui firmata); l’ultima si svolse nel Mugello nell’agosto del 1512, a pochi giorni dal disastro di Prato, per organizzare le fanterie fiorentine (ne resta una sola lettera, del 22 ag., LCSG, 7° t., p. 132). Per 16 di esse ci è giunta solamente o la patente che attestava le funzioni dell’inviato o la commissione con il conferimento e la descrizione dell’incarico. È comunque probabile che per missioni che erano generalmente di pochi giorni M. riferisse a voce al suo rientro in Firenze. Non è raro che tali patenti o commissioni siano redatte da M. stesso, che poi le conservava nel proprio archivio personale (le Carte Machiavelli della BNCF).
Più consistenti, e comunque tali da averci tramandato diverse lettere, sono il gruppo di commissarie nel Mugello e nel Casentino dell’inverno 1505-06, allorché, nelle sue funzioni di segretario dei Nove, M. era impegnato nel reclutamento di fanti per la milizia cittadina; e quindi quelle nelle fasi finali della campagna contro Pisa, tra l’inverno e la primavera del 1509. Di queste ultime commissarie al campo pisano ci restano lettere sue e lettere dei tre commissari generali fiorentini (Niccolò Capponi, Antonio da Filicaia e Alamanno Salviati) da M. integralmente redatte, spesso anche nella firma dei commissari. Tutta sua, e singolare testimonianza di appassionata dedizione al servizio, è comunque quella del 16 aprile 1509, quando, nelle fasi culminanti dell’assedio pisano, si stava profilando l’ipotesi di farlo arretrare dal fronte delle operazioni militari:
Pare [...] vostre Signorie disegnino mi fermi in Cascina, il che non è punto a proposito perché quivi può stare ogni uomo d’ogni qualità. E se io vi stessi, non sarò buono né per le fanterie né per nulla. So che la stanza sarebbe meno pericolosa e meno faticosa; ma se io non volessi né periculo né fatica, io non sarei uscito di Firenze, sì che lascinmi vostre Signorie stare infra questi campi e travagliare fra questi Commissari delle cose che corrono, dove io potrò essere buono a qualcosa, perché io non sarei quivi buono a nulla e morre’vi disperato (LCSG, 6° t., p. 322).
Nel loro insieme e considerate congiuntamente alle molteplici attività di cui danno testimonianza gli Scritti di governo (→), le commissarie svolte all’interno del dominio fiorentino mostrano la trama della conoscenza capillare che nei quattordici anni passati in cancelleria M. poté acquisire del territorio, dei suoi vari problemi amministrativi e delle sue caratteristiche politiche, sociali e militari.
Le legazioni ante res perditas (1498-1512). – Consistenza del corpus e aspetti formali. Sono in tutto 26 le missioni fuori dal dominio fiorentino («legazioni», appunto), considerando solamente il periodo del servizio presso la seconda cancelleria (per le missioni svolte successivamente, cfr. più oltre). La prima fu a Piombino, e non ne resta che la lettera di istruzione, datata 24 marzo 1499, e due credenziali, di mano di M. stesso (LCSG, 1° t., pp. 236-39); l’ultima, a Siena, nel giugno del 1512, per la quale abbiamo una sola «responsiva» machiavelliana. Dall’insieme di queste missioni ci sono pervenute un totale di 249 lettere di M. o, comunque, a lui sicuramente riconducibili. Ve ne sono in effetti alcune vergate a quattro mani e altre di mano di M., ma a firma del titolare della legazione, per le quali si può porre una legittima questione di attribuzione, almeno per la responsabilità politica del contenuto. Dagli elenchi delle lettere ricevute e inviate che di norma aprono i dispacci tanto del legato quanto delle autorità fiorentine, si constata che almeno una ventina di lettere machiavelliane sono andate disperse.
Ruolo amministrativo e rango sociale impedivano che M. potesse essere considerato un vero e proprio ambasciatore («oratore»). La sua veste era per lo più quella di un rappresentante dell’autorità fiorentina senza un mandato per negoziare e concludere, ma piuttosto con il compito di osservare e riferire, magari in vista della missione dell’ambasciatore ufficialmente eletto che sarebbe giunto in un secondo tempo. In alcuni casi M. ebbe il compito di accompagnare l’ambasciatore fungendo da segretario (fu al fianco di Francesco Soderini per la prima parte della missione che quest’ultimo svolse presso Cesare Borgia), o anche di raggiungerlo a missione già avviata (così per Francesco Vettori, nella legazione all’imperatore nell’inverno del 1508). Nondimeno, e soprattutto a misura che crescevano la sua esperienza e la stima di cui godeva, in particolare dopo l’elezione di Piero Soderini al gonfalonierato perpetuo nell’autunno del 1502, M. ebbe a trattare direttamente affari di sempre maggior rilievo politico, e in quasi tutte le sue missioni fu in contatto personale con i massimi responsabili della corte visitata, da Caterina Sforza a Pandolfo Petrucci, da Giampaolo Baglioni a Giovanni Bentivoglio, da Luigi XII e Georges d’Amboise a Cesare Borgia, da Giulio II a Massimiliano d’Asburgo. Per i particolari relativi a ciascuna missione si rinvia alle singole voci sui personaggi citati e alla biografia machiavelliana che chiude questa Enciclopedia.
Dell’oscillazione, e anche della sostanziale ambiguità delle sue funzioni diplomatiche, nelle quali alla costante modestia del rango corrispose il sempre più ampio margine di iniziativa e di responsabilità, pur nel quadro di una politica decisa a Firenze, testimonia la lettera in cui M. dà conto della missione svolta a Piombino nell’aprile del 1509, allorché andò a incontrare una delegazione di pisani per trattare la resa della loro città: per un verso la delegazione pisana lamenta che le sia stato inviato non un «cittadino», ossia un membro della classe ottimatizia che poteva svolgere le funzioni di autentico ambasciatore, ma «uno secretario», per di più neppure proveniente da Firenze (M. era in quel momento al campo); per un altro verso, però, i rappresentanti del contado che facevano parte di quella delegazione e che erano stati sensibili all’abile retorica del Segretario fiorentino, proprio quel titolo gli danno: «Noi vogliàno la pace, noi vogliàno la pace, Imbasciadore» (M. ai Dieci, 15 marzo 1509, LCSG, 6° t., pp. 309, 311). Non è raro in effetti che il pur non giustificato titolo di «oratore» o di «ambasciatore» lo si trovi in documenti coevi di carattere non ufficiale: con questo titolo gli scriveva Agostino Vespucci durante la prima legazione in Francia (lettere del 20 sett. e 20-29 ott. 1500, Lettere, pp. 25, 28), o il fratello Totto mentre era presso il Valentino (lettera del 5 dic. 1502, Lettere, p. 74), o ancora Biagio Buonaccorsi durante la legazione a Giulio II nel 1506 (lettera dell’11 sett. 1506, Lettere, p. 134); così anche lo definisce un cronista senese, Sigismondo Tizio, in occasione della sua missione per i funerali di Pandolfo Petrucci: «Die interea junii quarta, Nicolaus Maclavellius orator a florentinis Senam destinatus est ad condolendum Pandolphi mortem» (Historiae Senenses, cit. in O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 1° vol., 1883, p. 714).
Difficile fissare una tipologia dei corpora epistolari che documentano tali missioni (cfr. comunque Jean-Jacques Marchand in LCSG, 1° t., pp. xxii-xxiv). Si va da missioni di più limitata importanza presso piccole signorie confinanti (Piombino e Siena, Bologna e Perugia), delle quali talvolta non ci è pervenuta alcuna lettera, a legazioni che duravano vari mesi presso corti lontane e di cui ci restano, per ciascuna di esse, diverse decine di lettere, non poche delle quali di singolare ampiezza e impegno, alcune anche in più redazioni e spesso con varianti di notevole interesse. Tra gli esempi di legazioni quantitativamente più cospicue abbiamo la prima legazione in Francia nel 1500, in parte condivisa con Francesco Della Casa (→), della quale ci sono pervenute 28 lettere machiavelliane, non includendo nel computo i dispacci ufficiali spediti da Firenze; 53 sono le lettere per la seconda legazione a Cesare Borgia tra l’autunno del 1502 e il principio del 1503; 46 per la legazione a Roma nell’autunno del 1503; 41 per la legazione presso Giulio II in marcia nell’Italia centrale alla volta di Bologna, nell’estate-autunno del 1506; 21 per quella presso Massimiliano d’Asburgo, in cui andò ad affiancare Francesco Vettori, già da mesi presso la corte imperiale; 19 per la terza legazione in Francia nell’estate del 1510.
Quando la missione è nella sola responsabilità di M., le sottoscrizioni variano alquanto: il nome, quasi sempre in latino nei primi anni («Nicolaus Maclavellus» o «Machiavellus»), tende però a farsi volgare con l’andare del tempo (costantemente «Machiavegli» nella terza legazione in Francia nel 1510), ed è seguito da «secretarius et mandatarius», «mandatario», «secretario florentino», talvolta con l’indicazione dell’autorità presso la quale effettua la missione («apud Regem Christianissimum», «apud papam» ecc.). Rara, invece, la sottoscrizione con il titolo di cancelliere («cancellarius»). Sottoscrizione condivisa e senza alcuna indicazione di funzione la abbiamo per la prima legazione in Francia, nel 1500, dove M. si recò con Francesco Della Casa per una missione puramente interlocutoria, al posto dei due ambasciatori richiamati per protesta (è significativo, tuttavia, che in quelle lettere che M. firma da solo torni la sottoscrizione «secretarius»).
Quando invece la missione è nella responsabilità di un ambasciatore ufficiale è frequente che M. sia l’estensore di tutta la lettera e persino della firma dell’ambasciatore: è così nella prima legazione presso Cesare Borgia in cui le due lettere spedite durante la sua presenza al fianco del vescovo Francesco Soderini sono integralmente di mano di M., anche nella firma di Soderini, o in quella presso l’imperatore con Francesco Vettori. In questi casi – anche per il rilievo oggettivo di tali missioni nello svolgimento della riflessione machiavelliana e per il ripresentarsi di quelle esperienze nelle sue opere maggiori – diviene necessario discutere e sciogliere, per quanto possibile, la questione della responsabilità politica del messaggio.
Si sono opportunamente sottolineati i limiti politici delle funzioni e dell’azione di M. durante le sue legazioni (Dupré-Theseider 1945, pp. 83-85; Ridolfi 1954, 19787, pp. 42, 439-40; Chabod 1964, p. 274), e si deve pertanto cercare di valutare con attenzione l’apporto che poteva venire e sicuramente sarà venuto dal compagno di legazione, che era poi sempre di maggior rango diplomatico; tuttavia, non ci si sottrae all’impressione che, anche quando affiancava un titolare ufficiale al quale fungeva da segretario, M. finiva in qualche modo con l’imprimere una sua personale impronta alle lettere che formalmente (ma spesso non materialmente) il titolare firmava.
Nelle due lettere di suo pugno della prima legazione al Valentino è il ritratto stesso del duca che a noi appare su una linea di continuità – quasi un primo, ma già efficacissimo e a suo modo compiuto schizzo – con quello che poi M. avrebbe consegnato a pagine celeberrime del Principe:
El modo di questa vittoria è tutto fondato su la prudenzia di questo Signore el quale, essendo vicino a 7 miglia a Camerino, sanza mangiare o bere, s’appresentò a Cagli che era discosto circa miglia 35 e nel medesimo tempo lasciò assediato Camerino e vi fece fare correrie; sì che notino vostre Signorie questo stratagemma e tanta celerità coniunta con una estrema felicità (Francesco Soderini alla Signoria, 22 giugno 1502, LCSG, 2° t., p. 232).
E nella successiva lettera, che porta la data del 26 giugno all’alba e si chiude con la significativa postilla «La non è riveduta» (ossia, M. spedisce un testo scritto currenti calamo e non riletto), il ritratto viene svolto e precisato:
Questo Signore è molto splendido e magnifico; e nelle armi è tanto animoso che non è sì gran cosa che non li paia piccola; e per gloria e per acquistare stato mai si riposa, né conosce fatica o periculo. Giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la partita donde si leva; fassi benevolere a’ suoi soldati; ha cappati e’ migliori uomini d’Italia. Le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunto con una perpetua fortuna (Francesco Soderini ai Dieci, 26 giugno 1502, LCSG, 2° t., p. 247).
Una conferma che solo dalla mente oltre che dalla penna di M. potevano uscire tali osservazioni la si ha leggendo i pur notevoli carteggi diplomatici di Francesco Soderini quando non aveva al suo fianco M. (le lettere con cui portò a termine la legazione presso il Valentino sono in N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, 1964, pp. 270-319; per i rapporti tra M. e Francesco Soderini durante la legazione al Valentino, cfr. G. Sasso, Machiavelli e Cesare Borgia. Storia di un giudizio, 1966, pp. 31-41; inoltre, una sua importante legazione in Francia nel 1501 sarà presto pubblicata a cura di Denis Fachard e di chi scrive).
Se nella seconda legazione alla corte di Francia, nel 1504, l’ambasciatore Niccolò Valori appare più geloso delle sue prerogative e solo in tre casi volle cedere la penna a M., che quindi firmò in nome proprio, mentre per il resto redigeva e firmava di suo pugno, considerazioni analoghe a quelle appena svolte per la prima legazione a Cesare Borgia possono, invece, essere avanzate per la lunga legazione presso Massimiliano d’Asburgo dell’inverno-primavera 1508, per la parte in cui Francesco Vettori ebbe al suo fianco Machiavelli. Già alquanto intricata è la questione della mano che stendeva la lettera che poi Vettori firmava, giacché in realtà anche la firma di Vettori è spesso di mano di M. al pari del testo delle lettere; eppure talvolta Vettori si alternava a M. nel copiare lettere di particolare lunghezza (quindi esisteva un originale che rimaneva presso gli inviati fiorentini, e che probabilmente era il frutto di un’elaborazione condivisa). E vi è anche il caso limite di una lettera per buona parte di mano di Vettori fino alla conclusione, tranne poi – un segnale politico? – l’indicazione di luogo, la data e la firma («Francesco Vectori») di mano di M. (cfr. la lettera dell’8 febbr. 1508, LCSG, 6° t., p. 155). A parte dunque il fatto che la materialità delle grafie non è decisiva per stabilire la responsabilità del messaggio, non par dubbio che proprio a M. vadano attribuite la massima parte dei rapporti diretti con Massimiliano e con i suoi principali consiglieri, e quindi anche le osservazioni che ne scaturivano. Non poche osservazioni su Massimiliano e sulla politica imperiale contenute nelle lettere della legazione del 1508 si ritrovano poi riprese e svolte nei testi che M. scrisse sull’argomento, a cominciare dal Rapporto delle cose della Magna (→ Ritratto delle cose della Magna e altri scritti sulla Germania). Appare insomma chiaro che, fin dal suo arrivo a corte, fu il più anziano segretario, e non il giovane ambasciatore, a portare la vera responsabilità della legazione, almeno in quella fase cruciale. Se ne accorse, peraltro, lo stesso Massimiliano fin dal primo colloquio con M., una volta che questi gli si fu presentato insieme a Vettori: «Ed innanzi mi partissi el Re chiamò Pigello [Pigello Portinari, un fiorentino tra i consiglieri dell’imperatore] da parte e lo domandò chi era questo Segretario venuto e per che via, e li disse li pareva che ’ Fiorentini facessino bono principio» (Francesco Vettori ai Dieci, 17 genn. 1508, LCSG, 6° t., p. 111, dove Vettori – qui in effetti la mano è sua – dà conto della prima udienza alla quale M. partecipa).
È dunque del tutto legittimo considerare come testimonianze a pieno titolo dell’esperienza politico-diplomatica machiavelliana anche quei dispacci che, da lui redatti in tutto o in parte, pur erano firmati dal titolare della missione.
In missioni particolarmente delicate – soprattutto quelle in Francia e presso la corte imperiale – parti più o meno estese delle lettere (da qualche nome soltanto fino a, seppure raramente, l’intera lettera) venivano cifrate con un cifrario che M. portava con sé e che doveva distruggere con altri documenti – istruzione, credenziali, lettere di presentazione – nel caso temesse che cadessero in mani nemiche (accadde durante la missione all’imperatore nel 1508: cfr. LCSG, 6° t., p. 109). Al loro arrivo in cancelleria le lettere venivano messe in chiaro nell’interlinea (più raramente a parte) in maniera più o meno fedele e più o meno completa. Spesso tali decifrati sono di mano di Biagio Buonaccorsi.
In tre casi nella prima legazione alla corte imperiale (lettere del 25 e del 31 genn. 1508 e del 14 febbr. 1508, integralmente di mano di M. anche nella firma di Vettori), il cifrato non copre altro che una lettera ‘vuota’, inviata solamente come diversivo oppure per mostrare alla corte che il flusso della comunicazione con le autorità fiorentine è attivo. «Questa lettera non contiene nulla, ma scrivesi acciò che le vere si salvino trovando questa», dà il primo rigo del cifrato della lettera del 25 gennaio (LCSG, 6° t., p. 129). Tali lettere non hanno alcun decifrato originale poiché in cancelleria, accortisi che esse «non dicono nulla» (così la lettera del 14 febbr., LCSG, 6° t. pp. 155-56), non ne avviarono la messa in chiaro. E altrettanto fecero tutti i precedenti editori fino alla recente edizione nazionale, nella quale si è proceduto alla decifrazione integrale di quel che, pur tra tanti segni e parole senza alcun significato, M. si divertì a inserire. In effetti, obbligato a riempire linee e linee con cifre che non avrebbero dovuto dare alcun senso, M. ne fece l’occasione per burlare i colleghi addetti alla decifrazione dei dispacci. Per cui, senza alcuna necessità e tra sillabe sgangherate che non significano nulla, alla sua fantasia si affacciarono aforismi sarcastici: «Questa è una cazzelleria: che menato sia la fava a chi crede che in questo mondo sia virtù veruna» (LCSG, 6° t., p. 129); versi danteschi citati a memoria (tre terzine nella lettera del 31 genn. 1508, un paio di versi in quella del 14 febbr. 1508: LCSG, 6° t., pp. 138, 155); goliardiche oscenità sulle popolazioni presso le quali si trovava, dove si noterà il gioco che si instaura tra la parte cifrata (qui resa in corsivo) e quella in chiaro:
io vi dico ed io credo in ogni modo per tutto si doverrebbe conietturare la impossibilità de la natura che fa le maggiori cose in questi paesi che in alcuno altro del mondo. E’ ci sono certi rubaldoni grandi come asini che hanno cazzi come io la coscia che vanno infilzando queste povere fantesche, talmente che vostre Signorie si maraviglierebbero ed appena chi non li tocca con mano lo crederrebbe. E perché si aspetta risposta con desiderio da vostre Signorie non mi scade dire di questa materia altro d’importanza che quello ho scritto di sopra, né per altra cagione scrivo la presente che per sollecitare quelle alla risposta (p. 156).
E ancora il nome del «Duca Valentino» (p. 129), che è certo ben curioso che gli torni in mente a quella data e in tale contesto burlesco; commenti divertiti e non sempre perspicui su vari personaggi, come Biagio Buonaccorsi («Biagio è guasto o vero innamorato», lettera del 25 genn. 1508, p. 129) o Giovanni da Poppi («ser Giovanni da Poppi è uno zugo [fesso]», lettera del 31 genn. 1508, p. 138), ma anche su un consigliere dell’imperatore: «Piggello [Portinari] è uno cazzo di cane che entra bene ed esce male tale che non credo che l’Imperadore è uno gentile compagnone ed ha più forza la brigata non crede» (p. 138).
L’incursione che sotto la copertura della cifra la materia privata compie nelle corrispondenze diplomatiche permette di osservare che non è possibile separare con nettezza le lettere (→) di carattere privato e quelle pubbliche; o, per meglio dire, la lettura delle corrispondenze pubbliche richiede di essere accompagnata da quelle private. In effetti, come da Firenze M. scriveva lettere, che si è soliti pubblicare in seno ai carteggi privati, per dare diverse informazioni politiche a cittadini di alto rango fuori Firenze in veste ufficiale (si vedano, per es., le lettere a Giovanni Ridolfi del 12 giugno 1506 e ad Alamanno Salviati del 28 sett. 1509, Lettere, rispettivamente pp. 124-27 e 195-99), così capitava che a sua volta egli ne ricevesse a titolo privato mentre era in missione per essere ragguagliato sulla politica fiorentina e internazionale. Tra i molti esempi possibili, si possono indicare le lettere di Biagio Buonaccorsi a M. mentre era in legazione presso Caterina Sforza nell’estate del 1499 (Lettere, pp. 16-18); o anche il nucleo delle lettere ‘private’ inviategli durante la prima legazione in Francia da Agostino Vespucci, Piero Soderini e Luca degli Albizzi (fra il 20 e il 24 sett. 1500, Lettere, pp. 25-30). Sempre come esempio significativo di queste modalità della comunicazione diplomatica in cui i confini tra pubblico e privato non sono poi così netti, si può osservare che per l’importante legazione alla corte di Francia del 1510 non abbiamo una vera e propria lettera ufficiale di istruzione dei Dieci di Balìa, e si è pertanto soliti pubblicare in testa alla legazione una lettera personale di Piero Soderini dove è tracciato lo scopo della missione (lettera del 20 giugno 1510, LCSG, 6° t., pp. 412-14); tuttavia, una sorta di ulteriore lettera di istruzione è anche quella, privata (e come tale pubblicata in Lettere, p. 210), di Francesco Soderini, del 28 giugno 1510, il quale ribadisce e specifica le linee della lettera del fratello gonfaloniere.
In linea generale, una porzione consistente del carteggio privato che ci è pervenuto per gli anni della cancelleria può essere considerata come tale che in parte integra, in parte supplisce e in parte entra in concorrenza con quello pubblico.
Essa prevede un esordio piuttosto codificato: a parte l’indirizzo sull’esterno del foglio e le eventuali indicazioni per il corriere, nonché gli elementi canonici quali intitolazione, data e firma (in latino, com’era prevalente nell’epistolografia volgare del tempo), la lettera è avviata dall’indicazione dei dispacci inviati e ricevuti (lo spaccio costituisce una preoccupazione ricorrente, anche per le ristrettezze economiche in cui l’inviato si trova pressoché costantemente). Si passa quindi – in maniera più libera – al resoconto dei colloqui con i responsabili politici, delle notizie raccolte, dell’ambiente della corte presso la quale M. si trova e, quando lo reputa opportuno, delle caratteristiche generali del Paese e della corte. Nel caso di lettere ritenute particolarmente importanti e per le quali temeva che potessero non essere giunte a destinazione, M. ne spediva una copia a distanza di alcuni giorni, spesso incrementandola con le novità susseguitesi. E ciò poteva ripetersi più volte: di una lettera della legazione all’imperatore ce ne sono giunte cinque redazioni successive rimaneggiate e incrementate (cfr. la «Copia quinta abbreviata de’ dì 29 di marzo con aggiunta de’ dì 16 di aprile», LCSG, 6° t., pp. 219-22). Frequente il caso di lettere riaperte con postille e aggiunte, anche assai consistenti, resesi necessarie nelle more della spedizione.
Si tratta di aspetti tecnici della comunicazione diplomatica che, nell’insieme e con gli atteggiamenti e i comportamenti idonei per raccogliere notizie e condurre efficacemente i negoziati, M. codificherà anni dopo in quella «sorta di trattatello di arte diplomatica» (Vivanti 2001, p. 27) che è l’Instruzione d’uno che vada imbasciadore (→), redatta per Raffaello Girolami. Ciò che certo non poteva codificare, era proprio quel che costituisce al massimo grado il pregio delle sue lettere diplomatiche, a cominciare dal piano formale:
Eccelle soprattutto nelle vigorose caratterizzazioni di situazioni e personaggi, riprodotti questi al vivo, con scorci efficaci, sicuro gusto dell’aggettivazione, preciso senso dell’equilibrio tra elementi essenziali e secondari, salvo qualche concessione in senso artistico, in favore del particolare pittoresco. Il novelliere, il commediografo vi si palesa a ogni momento, soprattutto nel modo in cui sono condotti i dialoghi (Dupré-Theseider 1945, pp. 25-26).
E in effetti, nei migliori e più impegnati dei suoi dispacci (che non sono pochi), M. dispiega una vera e propria vis drammaturgica, concedendosi
la libertà di aggiungere al semplice resoconto vari elementi di regia e di registro linguistico-retorico, che per le loro caratteristiche rispecchiano una tendenza alla messa in scena. Queste aggiunte alla funzione puramente informativa del dispaccio hanno per scopo di informare non solo sui contenuti delle discussioni, ma anche sul contesto materiale e psicologico in cui i colloqui si sono svolti. I luoghi in cui sono avvenute le conversazioni, i gesti, gli atteggiamenti contribuiscono ad arricchire la qualità del messaggio; inoltre, il modo in cui i personaggi si esprimono, riportato ora in discorso indiretto, ora in discorso diretto, in lingua originale (francese, latino, italiano) o in traduzione italiana, permettono di collocare il personaggio sia socialmente, sia culturalmente, sia psicologicamente (Marchand 2001, p. 126; sulle implicazioni teatrali delle lettere diplomatiche si veda altresì J.-J. Marchand, Teatralità del primo Machiavelli. Il dispaccio ai Dieci di Balìa del 28 agosto 1506, in Il teatro di Machiavelli, Atti del Convegno, Gargnano del Garda 30 sett.-2 ott. 2004, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, 2005, pp. 45-65).
Non si corre certo il rischio di esagerare l’importanza che l’attività diplomatica, con l’assidua pratica di una scrittura di analisi su situazioni anche assai disparate, ebbe per la genesi del pensiero politico e della stessa personalità letteraria di Machiavelli. Fin dalle prime legazioni si può osservare l’attitudine a problematizzare il dato diplomatico considerandolo in un quadro storico e teorico che esorbita dalle contingenze immediate, e dunque a cercare in esso i termini di una verità valida sempre e comunque. Tale attitudine si manifesta già nella prima legazione in Francia, nell’autunno del 1500, allorché al potente cardinale di Rouen Georges d’Amboise M. impartì una ‘lezione’ su quella che a suo parere avrebbe dovuto essere un’autentica politica di conquista in Italia da parte del re di Francia: Luigi XII «si doveva bene guardare da coloro che cercavono la distruzione degli amici suoi, non per altro che per fare più potenti loro e più facile a trarli l’Italia delle mani»; e in ciò il re di Francia non aveva che da «seguire l’ordine di coloro che hanno per lo addrieto volsuto possedere una provincia esterna», ossia dei Romani antichi, e che consiste nel «diminuire e’ potenti, vezzeggiare li sudditi, mantenere li amici e guardarsi da’ compagni, cioè da coloro che vogliono in tale luogo avere equale autorità» (M. ai Dieci, 21 nov. 1500, LCSG, 1° t., p. 525). Insomma, già questa prima esperienza della grande politica europea si rivela per il giovane Segretario quanto mai fruttuosa, e anzi decisiva, perché, come è stato opportunamente osservato,
salendo di colpo dalla sua piccola ‘patria’ fiorentina al vertice della politica europea, il problema della forza e della debolezza acquistava una dimensione più profonda. I rapporti che i soggetti della realtà internazionale intrecciavano si complicavano, si arricchivano; e d’improvviso l’orizzonte di Machiavelli s’allargava, si faceva più profondo e complesso, includeva in sé, concretamente, quei ‘soggetti’ che prima gli erano noti bensì, ma nell’intelletto, non nelle cose stesse. Il tema della debolezza fiorentina tendeva a rovesciarsi in quello del ‘vero’ stato (Sasso 1993, p. 65).
Se la capacità di considerare il profilo diplomatico di una situazione alla luce di un più profondo interesse teorico è già ben operante nelle prime legazioni, i margini di operatività negoziale crescono però più lentamente, a misura che le svolte della sua carriera lo conducono ad acquisire un ruolo sempre più importante nella politica cittadina, fino al personale successo politico che era stata l’espugnazione di Pisa. In tal senso la terza legazione alla corte di Francia, nell’estate del 1510, costituisce forse il vertice dell’esperienza diplomatica machiavelliana, poiché le consolidate capacità di osservazione e di analisi politica sono messe al servizio di un’intensa e autonoma attività propriamente diplomatica. In effetti, M. condusse allora per proprio conto negoziati che erano intesi a far uscire Firenze dalla paralisi politica in cui l’aveva condotta l’improvvisa ostilità accesasi tra la Chiesa e la Francia, a seguito del cambiamento di fronte operato da Giulio II dopo la battaglia di Agnadello. Questa legazione testimonia quindi non solo «l’irresistibile tendenza a fare dei suoi dispacci altrettanti esempi di dimostrazione teorica» (Sasso 19933, pp. 283-84), ma anche una tensione drammatica dettata dalla percezione del rischio mortale che andava delineandosi per Firenze e che portava M. a cercare attivamente una soluzione politico-diplomatica. In tali frangenti M. dispiega un’autonoma iniziativa diplomatica in cui si esprimono, come forse in nessuna altra missione precedente, una sicurezza di giudizio e un’esplicita volontà di indicare una linea per la politica fiorentina:
Ora le Signorie vostre sono prudentissime ed esamineranno quello scrivo [...] e piglierannoci su buono partito, ma tutto bisogna con celerità. Io non ho fuggito queste pratiche, giudicando che a la Città vostra non potessi venire el più pauroso infortunio che la inimicizia di questi dua principi [Luigi XII e Giulio II], per quelle ragioni che infino e’ ciechi ed e’ sordi veggono ed intendono. E tutti quelli modi che ci sono da pigliare per condurre lo accordo ho iudicato buoni, né veggo diventandone vostre Signorie mezzane che le ne possino altro che guadagnare. Perché o e’ riuscirà o no; riuscendo, ne seguita quella pace che noi speriamo e vogliamo, e fuggesi quelli periculi che la guerra ci potrebbe arrecare a casa; e tanto più ci fia la satisfazione vostra quanto voi ci arete più parte, facendovi obligati el Re ed el Papa, per li quali non si fa meno che per voi. Quando ella non riesca, questa Maestà vi resta obbligato, avendo voi fatto quello che gli ha consentito e datogli più iusta cagione di fondare le querele sua contro al Papa nel conspetto di tutto el mondo; né el Papa potrà dolersi di voi avendo persuaso la pace quando e’ non la voglia e voi li facciate contro nella guerra. Tutte queste ragioni mi hanno fatto implicare volentieri in questi maneggi: quando vostre Signorie lo apruovino, io l’arò caro; quanto che no, mi escuseranno, perché secondo questo mondo qua non potevo giudicare la cosa altrimenti (M. ai Dieci, 3 ag. 1510, LCSG, 6° t., p. 465).
Agisce dispiegato nelle lettere inviate dalla Francia nell’estate 1510 l’ormai affinato metodo dilemmatico, con il quale i termini di una situazione sono condotti a due esiti polarmente opposti, donde ne esce chiarita e quasi obbligata una scelta operativa; ma quel che interessa ora notare è come tale metodo sia qui messo al servizio di una soluzione politico-diplomatica «assai ardita [...] e personale», e che il tono fermo e sostenuto delle lettere di questa legazione mostra un M. «ormai giunto a maturità piena di giudizio e di pensiero» (Chabod 1964, pp. 356-57).
Le missioni post res perditas. – Carattere diverso, talvolta semiprivato e comunque assai meno rilevante, almeno sul piano politico (non però su quello biografico), hanno le missioni che M. svolse, una volta allontanato dalla cancelleria, tra la primavera del 1518, allorché si recò a Genova per conto di mercanti fiorentini (LCSG, 7° t., pp. 135-39), e l’inverno-primavera del 1527, quando fu inviato dalla magistratura degli Otto di pratica presso Francesco Guicciardini, luogotenente pontificio alle prese con l’esercito imperiale che scendeva lungo la penisola (di questa, che è la più importante missione svolta post res perditas, ci restano in tutto 20 lettere di M., LCSG, 7° t., pp. 191-230). Tra questi estremi si collocano la missione nel luglio 1520 a Lucca per conto di mercanti fiorentini coinvolti in un fallimento (LCSG, 7° t., pp. 139-50), quella del maggio 1521 a Carpi presso il capitolo dei frati minori per ottenere la separazione della ‘provincia’ fiorentina da quella senese (pp. 151-60), e quindi quella a Venezia nell’agosto 1525 per conto di mercanti fiorentini (pp. 160-64). All’autunno del 1526 risalgono inoltre la missione, ancora una volta sul confine tra pubblico e privato, svolta a Cremona per incarico di Guicciardini (pp. 174-81), e l’altra, presso lo stesso Guicciardini, a Modena (pp. 182-89). Per un quadro complessivo dell’attività post res perditas, cfr. J.-J. Marchand, L’esperienza diplomatica post res perditas, in Niccolò Machiavelli politico, storico, letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 sett. 1995, a cura di J.-J. Marchand, 1996, pp. 297-312; e quindi dello stesso studioso, LCSG, 7° t., pp. 34-61.
Fondi archivistici ed edizioni. – La massima parte delle lettere diplomatiche machiavelliane è conservata presso l’Archivio di Stato di Firenze e la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Le copie delle lettere spedite a M. da Firenze erano archiviate in un registro di «missive», mentre quelle dell’inviato erano archiviate negli originali pervenuti a Firenze in registri di «responsive», sia nella sezione Dieci di Balìa, sia nella sezione Signori degli Archivi della Repubblica (alcune minute si trovano nelle Carte Machiavelli della BNCF). Lettere isolate, che in diverse epoche hanno lasciato le naturali sedi archivistiche, sono conservate in altri fondi della BNCF o presso altre biblioteche italiane e straniere (per un quadro completo, oltre alla Nota ai testi che chiude ciascun tomo di LCSG, si rinvia all’Indice cronologico degli autografi di Cancelleria, a cura di A. Guidi, in LCSG, 7° t., pp. 259-518).
All’abate Ferdinando Fossi si deve la prima edizione di lettere diplomatiche machiavelliane, tratte da cinque missioni: Lettere di Niccolò Machiavelli che si pubblicano per la prima volta [...], Firenze 1767. Notevole incremento, con le lettere tratte da quindici legazioni, si ha già con l’edizione Cambiagi (→ Cambiagi, Gaetano) nel 1782-1783. Quanto alle commissarie, una prima edizione, limitata a un’assai ristretta scelta, risale a Giuseppe Canestrini, che pubblicò un volume di Scritti inediti di Niccolò Machiavelli risguardanti la storia e la milizia (1499-1512), tratti dal carteggio officiale da esso tenuto come segretario dei Dieci (Firenze 1857). Tra il 1875 e il 1877 comparvero quattro volumi di Legazioni e commissarie, a cura di Giuseppe Milanesi e Luigi Passerini, in cui i testi venivano fusi in un’unica serie cronologica e si perveniva a un reperimento pressoché completo del materiale archivistico. Inoltre, per la prima volta, si includevano anche le corrispondenze ufficiali destinate a Machiavelli. Da quest’ultima edizione furono tratte edizioni parziali lungo il corso del Novecento (da segnalare, per la ricchezza degli apparati illustrativi, quella a cura di Sergio Bertelli, 1964). A metà degli anni Sessanta Fredi Chiappelli avviò una nuova edizione fondata su rinnovate esplorazioni archivistiche che rimase tuttavia interrotta per la chiusura della collana editoriale (Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, a cura di F. Chiappelli [e J.-J. Marchand dal 3° t.], 1971-1985, quattro tomi pubblicati che coprono gli anni 1498-1505). L’iniziativa è stata ripresa e portata al traguardo in seno all’Edizione nazionale delle opere di M. la quale, in sette tomi, ha offerto un’edizione integrale e annotata delle legazioni e delle commissarie, con diversi inediti e nuove trascrizioni dei documenti, e una scelta significativa degli scritti di governo (2001-2011: è l’edizione da cui si cita in questa Enciclopedia).
Bibliografia: E. Dupré-Theseider, Niccolò Machiavelli diplomatico, Como 1945; F. Chabod, Il segretario fiorentino (1953), in Id., Scritti su Machiavelli, Torino 1964, pp. 241-368; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; S. Bertelli, Machiavelli e la politica estera fiorentina, in Studies on Machiavelli, ed. M.P. Gilmore, Firenze 1972, pp. 31-72; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 19933 (1a ed. Napoli 1958), pp. 25-324; J.-J. Marchand, Teatralizzazione dell’incontro diplomatico in Machiavelli, in La lingua e le lingue di Machiavelli, Atti del Convegno internazionale di studi, Torino 2-4 dic. 1999, a cura di A. Pontremoli, Firenze 2001, pp. 125-43; C. Vivanti, Machiavelli e l’informazione diplomatica, in La lingua e le lingue di Machiavelli, Atti del Convegno internazionale di studi, Torino 2-4 dic. 1999, a cura di A. Pontremoli, Firenze 2001, pp. 21-46; A. Guidi, Un segretario militante. Politica, diplomazia e armi nel cancelliere Machiavelli, Bologna 2009; R. Black, Machiavelli in the chancery, in The Cambridge companion to Machiavelli, ed. J.M. Najemy, Cambridge 2010, pp. 31-47.