Indiane, letterature
Le prospettive di studio e gli studi sulle l. i. sono soggetti da almeno tre decenni a un processo di revisione profonda e, d'altra parte, di completamento sul piano sia teorico sia storico. Questo secondo aspetto appare molto meno problematico, anche se non meno complesso, e da qui si prendono le mosse per esaminare lo 'stato dell'arte'. Il completamento al quale si allude riguarda innanzi tutto la disponibilità dei testi, soprattutto antichi e medievali, in edizioni affidabili. È ben noto che in India (si utilizza qui il termine comune, anche se insoddisfacente) la forma più diffusa di tradizione dei testi è quella manoscritta; questa è proseguita fino (quasi) alle soglie del 21° sec., sostenuta anche dall'immagine di assoluto prestigio religioso e sociale della commissione di manoscritti per la propria famiglia. Ne deriva che per numerosissime opere, anche di primo piano, mancano edizioni di riferimento; dove queste esistono, o si tratta di edizioni non scientificamente condotte, in quanto trascrizioni a stampa di singoli manoscritti, oppure di edizioni critiche basate su un numero di manoscritti molto limitato rispetto a quelli poi successivamente scoperti.
Al celebre drammaturgo Bhāsa, per es., sono attribuite 13 opere. Sulla base della tradizione manoscritta, in corso di integrale riesame, sono possibili due posizioni estreme e naturalmente alcune intermedie fra queste: accettare l'attribuzione a Bhāsa, collocato nel 2° sec. d.C., o negarla in toto, reputando i drammi originari dell'India meridionale e non anteriori al 7° secolo. La Centuria (trad. it. Centuria d'amore, 1989) di Amaruka, grande poeta d'amore della cui biografia nulla si conosce anche se la sua importanza è paragonabile a quella di F. Petrarca nella letteratura italiana, gode di un'edizione critica scientificamente ineccepibile, però datata (R. Simon, Das Amaruçataka in seinen Recensionen dargestellt, mit einer Einleitung und Auszügen aus den Commentatoren versehen, 1893). La scoperta di numerosi manoscritti e gli studi successivi portano a oscillare, anche in questo caso, fra due posizioni estreme. L'intero corpus che va sotto il nome di Amaruka conta 136 componimenti: c'è chi reputa le recensioni dell'opera sostanzialmente due e conclude che all''autentico' Amaruka risalgono le 87 strofe comuni a entrambe; c'è chi, invece, preferisce la suddivisione in quattro recensioni, concludendo che all''autentico' Amaruka si possano ascrivere solo i 73 componimenti che figurano ovunque. Le implicazioni storico-letterarie e critiche della situazione sono evidenti e richiedono il riesame integrale della tradizione. Un terzo esempio si pone ai confini fra letteratura, diritto e storia culturale in senso lato: è a tutti noto, almeno come nome, il Codice di Manu, ritenuto la più autorevole raccolta di leggi del diritto indiano tradizionale. Testo di rilievo incalcolabile, è in corso di preparazione la sua prima edizione critica: una preliminare raccolta dei testimoni, conclusa pochissimi anni or sono, ne annovera circa 700. Alcuni altri possibili esempi, che ci si limita a menzionare, configurano da soli campi di ricerca vastissimi: si allude fra l'altro allo studio dei testi (soprattutto buddhisti) che, composti in India, sono stati successivamente tradotti in tibetano, cinese ed eventualmente in mongolo e di cui si sono in alcuni casi perdute le redazioni nelle lingue indiane d'origine. Appare evidente, in questi casi, la necessità di edizioni critiche parallele e del confronto non soltanto con i testi indiani, se esistenti, ma anche con quelli delle lingue di traduzione.
Un altro aspetto dell'immenso lavoro di completamento in corso riguarda l'estensione degli studi a testi e lingue finora non considerati: si pensi, per es., che l'opera di riferimento più approfondita disponibile fino alla fine della Seconda guerra mondiale e ancora utile per la consultazione, ossia la Geschichte der Indischen Literatur (1908-1922) di M. Winternitz, include solamente le opere in sanscrito, in pāli (la lingua soprattutto del Canone buddhista) e nei principali pracriti, cioè nei dialetti medioindiani letterari usati da alcune specifiche tradizioni, come la magadhī per il jainismo o la mahārāśtrī per alcune forme liriche e successivamente epiche o teatrali. Il presupposto di opere come questa è, naturalmente, che le letterature dell'India si identifichino in sostanza con quella scritta in sanscrito e nelle poche altre lingue molto strettamente legate al sanscrito.
In posizione diametralmente opposta, ma risalente agli stessi anni, si colloca il monumentale Linguistic survey of India (1903-1922) di G. Grierson; nel censire scientificamente tutti gli idiomi dell'India, gli undici volumi dell'opera esaminano infatti, allo stesso titolo di sanscrito ecc., anche le lingue regionali e, di conseguenza, ne accolgono tutte le letterature, che sono denominate complessivamente in inglese, anche sul piano scientifico, regional Indian literatures: per ricordarne qualcuna forse già più nota, per es. la letteratura bengalese, quella mārāṭhī o quella tamil.
Gli interessi rivolti in questa direzione hanno conosciuto così un marcato incremento e un'intensità straordinaria di studi. Più che elencare liste di autori e opere assolutamente ignote e mai tradotte in Italia, come in massima parte le lingue che le veicolano, sembra utile mettere in luce i problemi storici e critici su cui la ricerca si è particolarmente concentrata negli ultimi anni e che saranno in previsione soggetti a indagini sempre più approfondite. Molto vivo è il dibattito preliminare sulla definizione dello spazio di una cultura letteraria determinata, antica o moderna, e della sua diacronia; vale infatti per il primo problema la discrepanza, talora vistosa, fra l'attuale estensione degli Stati dell'Unione Indiana e la consistenza delle letterature omonime dalle origini ai nostri giorni, letterature che potevano anche avere utilizzato più lingue. Un grande poeta bengalese come Tagore, per es., ha scritto da giovane canzoni che appartengono, ovviamente, alla letteratura bengalese (bānglā, come sarebbe più esatto dire), anche se sono in una lingua che imita quella di Vidyāpati, grande poeta vishnuita vissuto nel 15° sec. che scriveva in maiṭhīlī. D'altra parte, i componimenti di quest'ultimo erano compresi e apprezzati ben oltre i confini della regione di Miṭhilā (oggi Tirhut nel Bihar settentrionale), per l'appunto dai parlanti bānglā del Bengala. Per la diacronia i problemi preliminari insorgono invece dal fatto che in India, fino a tempi recentissimi, sullo sviluppo storico di una letteratura è prevalsa la ripresa dei modelli tradizionali, animati però dal gioco inesauribile delle variazioni.
Altri due temi generali, storici in senso lato, sono alla base di qualsiasi attuale ricerca complessiva sulle letterature indiane regionali: il rapporto fra tradizioni letterarie e religioni e il rapporto fra le diverse esperienze regionali e il modello - schiacciante ma in realtà non dovunque univoco - della letteratura in sanscrito e della sua estetica, o meglio delle estetiche e delle stilistiche diverse che la improntano nelle diverse grandi aree del subcontinente. Lo stile ben conosciuto fin dall'antichità come gauḍīya, dal nome di una zona storica del Nord-Est, ha, per es., influenzato in misura rilevante la letteratura della regione attuale, cioè il Bengala, che ne ha ereditato la tradizione. Un problema analogo, soprattutto linguistico nelle premesse, è quello della relazione tra l'apabhraṃśa, cioè la variegatissima fase che prelude alla formazione delle lingue e letterature indiane moderne nelle loro fasi più antiche, e appunto queste ultime; problema di straordinario interesse, che si può confrontare perfettamente con quello dei rapporti fra il latino volgare e medievale e gli esordi delle letterature romanze e che è reso più arduo dalla molteplicità delle varianti regionali di apabhraṃśa e dalla conoscenza tuttora piuttosto scarsa di questa tradizione linguistica e dei testi relativi.
Gli studi nel settore sono nevralgici, perché la realtà delle l. i. regionali è strettamente connessa alla standardizzazione come lingue letterarie delle lingue regionali (per le quali gli studiosi di lingua inglese preferiscono l'espressione vernacular languages, un po' fuorviante se trasferita in italiano), in epoche sia antiche sia molto recenti, e in questo caso sotto il dominio coloniale.
Per scendere a temi cronologicamente più prossimi, gli studi sui rapporti fra le letterature regionali indiane, il potere britannico, la lingua e la letteratura inglese nei diversi periodi sono in fase di grande sviluppo. Tali rapporti hanno segnato profondamente il panorama letterario indiano, sovrapponendo alle tradizioni indigene, soprattutto nel secolo scorso, generi ed esperienze occidentali come, per es., il Romanticismo o il Realismo. Questi movimenti europei non hanno infatti mancato di influenzare, in modi e con esiti non uniformi, le più diverse produzioni indiane, dalla hindī alla tamil, dall'assamese alla gujarātī (il Romanticismo), come tutte le correnti anticoloniali e nazionalistiche (il Realismo). In questo ambito rientra anche l'interesse a precisare la relazione con l'educazione e con la prassi editoriale occidentale, in un ambiente nel quale la diffusione orale, prima, e manoscritta, poi, hanno rispetto a quella a stampa, come si è accennato, un radicamento molto più forte e una storia anche recente molto più lunga di quella occidentale. Un capitolo a sé è rappresentato in questo quadro dalla letteratura anglo-indiana (Indian-English, in inglese), forte di una storia di oltre due secoli integrata molto precocemente da un'estetica propria. Questa produzione è dovuta ad autori che operano in ambienti diversi. Residente quasi solo in India, prevalentemente a Delhi, A. Roy (n. 1961), dopo il grande successo internazionale del romanzo di esordio, The god of small things (1997; trad. it. 1997), si è dedicata con molta passione a tematiche sociali e politiche, assumendo un atteggiamento di forte e aspra critica verso 'l'Impero', vale a dire il governo statunitense e i suoi alleati: An ordinary person's guide to empire (2002; trad. it. 2003), War talk (2003), Public power in the age of empire (2004).
Fra gli autori che vivono alcuni periodi in India e altri in Occidente si ricordano, in particolare, A. Desai (n. 1937), che ha insegnato all'Università di Cambridge e poi al MIT (Massachusetts Institute of Technology) e che risiede periodicamente anche a Delhi, la quale è maestra indiscussa sul piano internazionale nell'indagare l'universo femminile e le piccole immagini del quotidiano con i loro segreti (Diamond dust and other stories, 2000, trad. it. 2003; The zig zag way, 2004; Hill of solver, hill of lead, 2006); V. Chandra (n. 1961), che si divide fra Mumbai (Bombay) e Berkeley, il quale riprende con straordinaria efficacia e suggestione in chiave attuale le strutture e le modalità fantastiche della narrativa indiana classica (Red earth and pouring rain, 1995, trad. it. 1998; la raccolta di racconti brevi Love and longing in Bombay, 1997, trad. it. 1999; Chandra è inoltre autore della sceneggiatura del film Mission Kashmir, 2000, del regista V.V. Chopra); P. Mishra (n. 1969), che vive fra Londra e l'India; i suoi temi prediletti sono gli ambienti delle piccole città indiane di provincia (Butter chicken in Ludhiana, 1995; trad. it. Pollo al burro a Ludhiana: viaggio nell'India delle piccole città, 2003) e i rapporti fra cultura e società tradizionali e influssi occidentali (The romantics, 1999, trad. it. 2000; Temptations of the west: how to be modern in India, Pakistan, Tibet and Beyond, 2006); grande successo ha avuto anche la sua ricostruzione della ricerca del Buddha e della diffusione del suo messaggio sullo sfondo di un personale viaggio nei luoghi buddhisti (An end to suffering: the Buddha in the world, 2004; trad. it. 2006).
Fra gli scrittori della diaspora figurano autori di grande fama mondiale come V.S. Naipaul (n. 1932), premio Nobel nel 2001, le cui opere più recenti, Half a life (2001; trad. it. 2002) e Magic seeds (2004), sono prosecuzione l'una dell'altra; valutate dai critici in modi molto contrastanti, indagano l'animo del protagonista, alla ricerca della propria identità nei mondi opposti del terrorismo e dell'emarginazione, della ricchezza e del potere; S. Rushdie (n. 1947), che ha studiato e vive in Gran Bretagna; grande narratore, fantasioso e magico come nella più antica tradizione indiana, celebre anche per la condanna da parte delle autorità islamiche attiratagli dal romanzo The satanic verses (1988; trad. it. 1988); i suoi libri più recenti, Fury (2001; trad. it. 2002) e Shalimar the clown (2005; trad. it. 2006), in modi diversi sviluppano il racconto sullo sfondo dei conflitti e del caos che caratterizzano la società contemporanea.
Fra gli autori più giovani si segnala infine J. Lahiri (n. 1967), che vive a New York e predilige le situazioni connesse con i problemi di vita degli immigranti (Interpreter of maladies, 1999, trad. it. 2000; The namesake, 2003, trad. it. 2003, da cui è stato tratto il film omonimo della celebre regista M. Nair, del 2006).
In complesso, dopo l'alternarsi di atteggiamenti letterari e ideologici diversi nel secolo scorso, i requisiti attuali della letteratura della diaspora sono la 'riorientalizzazione' o esoticizzazione dell'India, in quanto evocata da scrittori educati o perfino nati e cresciuti in altri Paesi, anche se di origine indiana; la posizione fortemente critica e sarcastica contro il neocolonialismo degli Stati Uniti e in parte dell'Europa; sul piano linguistico, la grande varietà di sperimentazione frutto delle risonanze sull'inglese sia delle lingue indiane, sia di quelle dei Paesi di immigrazione. Ad accomunare queste esperienze letterarie molteplici rimane, comunque, l'avvincente operazione che consiste nel rappresentare l'India, gli indiani e l''indianità', comunque sia intesa da ciascuno degli autori, attraverso un mezzo linguistico che rimane sottilmente estraneo e lontano.
La rassegna degli orientamenti di studio attuali non può concludersi senza accennare a due temi di assoluto rilievo: il combattutissimo problema dei rapporti fra urdū e hindī e dell'affermazione della seconda come 'lingua ufficiale' dell'Unione Indiana (la Costituzione dichiara inoltre l'inglese 'lingua ufficiale aggiunta' e, naturalmente, anche gli Stati che formano l'Unione hanno in genere una lingua ufficiale ciascuno: per es., la hindī stessa per l'Uttar Pradesh, la mārāṭhī per il Maharashtra, il kannaḍā, lingua dravidica, per il Karnataka, il tamil, pure dravidico, per il Tamil Nadu e così via). L'altro tema di rilievo oggetto di sempre maggiore attenzione è quello della relazione ed eventualmente della commistione attuale (e in previsione futura) appunto fra lingua e letteratura inglese e letterature nelle lingue indiane, la hindī in particolare, commistione efficacemente etichettata con il termine ibrido hinglish. Di rilievo in un settore affine e in fase a loro volta di grande espansione sono gli studi sulle connessioni delle letterature con la televisione e con il cinema, di cui l'India, com'è noto (Bollywood), è uno dei massimi produttori al mondo.
Opere di riferimento e di sintesi sull'intera panoramica delle letterature dell'India sono rappresentate da A history of Indian literature, diretta da S. Kumar Das per la Sahitya Akademi of India (la prestigiosa Accademia nazionale delle lettere, fondata nel 1954) e giunta al quattordicesimo volume; vi si aggiunge, sempre sotto l'egida della stessa istituzione, la preziosa Sahitya Akademi Encyclopaedia of Indian literatures A to Z (1987), curata da A. Datta. Esiste anche in Europa un'analoga, e omonima, iniziativa, A history of Indian literature, progettata dallo scomparso indologo olandese J. Gonda e pubblicata da O. Harrassowitz (Wiesbaden); l'opera, in dieci sezioni per trenta volumi complessivi, l'ultimo uscito nel 1987, si ritiene completata. Nella concezione, oltre che nel titolo, questi lavori utilissimi tradiscono tuttavia un presupposto: che la letteratura indiana sia una; presupposto, d'altra parte, esplicitamente dichiarato nel dettato della Akademi ("La letteratura indiana è una, pure se scritta in molte lingue"). Questa convinzione, largamente influenzata anche dall'esigenza di dotare il Paese, dopo l'indipendenza (1947), di una storia letteraria nazionale, non poteva non essere soggetta a critica. Si profila a questo punto la saldatura, già leggibile in filigrana, fra gli aspetti storici e quelli teorici della revisione in atto, aspetti che abbiamo tenuto all'inizio distinti per economia espositiva. Sul piano teorico e ideologico, cui ha dato grande impulso il celebre saggio Orientalism (1978; trad. it. 1991) di E.W. Said, figurano così i problemi concernenti la definizione di 'India' e delle diverse aree linguistico-culturali menzionate; la definizione, cui già si è accennato, delle rispettive lingue anche nel loro sviluppo storico dalle prime testimonianze - in genere risalenti al 13° sec. d.C. - alla situazione attuale; la definizione, infine, di letteratura, quesito che non investe, naturalmente, solo 'la' letteratura (o 'le' letterature) dell'India, ma ogni altra tradizione letteraria a partire, per es. in Europa, da quelle greca e romana. Fra i molti temi di particolare rilievo in quest'ultimo ambito vi è la relazione, fino a tempi relativamente recenti, fra oralità, vivissima in India, e scrittura; come pure la situazione di iperglossia in molte aree del Paese: i bambini crescono, in alcune zone, imparando contemporaneamente fino a quattro lingue, magari appartenenti a due a due a gruppi linguistici diversissimi (come potrebbero essere per un bambino europeo italiano e francese e contemporaneamente ungherese e finlandese). Ne deriva che anche i valori culturali e simbolici acquisiti con il linguaggio sono multilingui e non veicolati da 'una' lingua materna. Ad arricchire e complicare queste tematiche, soprattutto sul piano estetico e critico, concorre la circostanza decisiva, tenuta in poco o nessun conto fino (almeno) al termine degli anni Sessanta del 20° sec., che nell'India antica la teoria letteraria ha avuto grandissima importanza ed è stata elaborata per secoli con grande attenzione e meticolosità. Ne deriva che esistono trattazioni originali, ampiamente articolate, su che cosa debba considerarsi letteratura e che cosa, invece, non lo sia; e in subordine su quali siano le diverse forme di letteratura. Un solo esempio può illuminare su questo aspetto: il complesso di opere chiamate letteratura vedica (cioè i testi sacri delle origini, 12°-6° sec. a.C.) con le quali inizia ogni moderna storia letteraria, anche scritta in India, per la concezione tradizionale indigena non appartiene assolutamente all'ambito della letteratura, ma è ritenuto 'rivelazione' autoesistente fin dalle origini del mondo. Si tratta, naturalmente, di un caso limite, ma le stesse considerazioni valgono, con le distinzioni opportune, per l'apprezzamento critico ed estetico delle opere, che dovrebbe essere improntato prevalentemente ai principi originali e non a quelli dell'Occidente moderno e contemporaneo, come quasi sempre è avvenuto.