letteratura e matematica
letteratura e matematica Letteratura e matematica evocano mondi antitetici: le due culture, appunto, l’una contro l’altra armata. In realtà – a ben guardare – i rapporti e le affinità tra il regno della narrazione, dell’immaginazione, del fantastico, dell’arbitrario e quello della astrusa, arida e fredda razionalità matematica sono ben più stretti di quanto il luogo comune della contrapposizione lasci intravvedere. E sono rapporti che vengono da lontano.
La contaminazione tra numeri e parole affonda le sue radici nelle tradizioni folcloristiche e nella letteratura orale. Come non ricordare le tante filastrocche e i giochi dell’infanzia basati proprio sui numeri, sulle conte, sulle presenze ritmate di azioni che si ripetono regolarmente tre o cinque o sette volte? Favole e filastrocche la cui creazione si perde in tempi lontani; favole e filastrocche più moderne, come quelle di Gianni Rodari (1920-80), il più grande scrittore per l’infanzia che l’Italia possa vantare nel Novecento, con la sua allegra rivisitazione dei numeri. Nei suoi racconti capita di leggere di un capo di governo che si dimette per ragioni matematiche: «Stavo recandomi a una seduta – continuò la voce – quando mi è venuto in mente un magnifico problema di matematica. E allora, seduta per seduta, mi sono seduto qui per risolverlo. Qui c’è tanta quiete! E così mi è passata la voglia di andare alla riunione. Mi dispiace per i miei colleghi, ma dovranno eleggere un altro capo del governo. Mi considero dimissionario per ragioni matematiche». In altri racconti, i numeri assurgono al ruolo di protagonista. È il caso del numero nove in Abbasso il nove, una delle Favole al telefono del 1962:
«Uno scolaro faceva le divisioni:
– Il tre nel tredici sta quattro volte con l’avanzo di uno.
Scrivo quattro al quoto. Tre per quattro dodici, al tredici uno. Abbasso il nove ….
– Ah, no,– gridò a questo punto il nove.
– Come? – domandò lo scolaro.
– Tu ce l’hai con me: perché hai gridato “abbasso il nove”? Che cosa ti ho fatto di male? Sono forse un pericolo pubblico?
– Ma io…
– Ah, lo immaginavo bene, avrai la scusa pronta. Ma a me non mi va giù lo stesso. Grida: “abbasso il brodo di dadi”, “abbasso lo sceriffo”, e magari anche “abbasso l’aria fritta”, ma perché proprio “abbasso il nove”?
– Scusi, ma veramente …
– Non interrompere, è cattiva educazione. Sono una semplice cifra, e qualsiasi numero di due cifre mi può mangiare il risotto in testa, ma anch’io ho la mia dignità e voglio essere rispettato. Prima di tutto dai bambini che hanno ancora il moccio al naso. Insomma, abbassa il tuo naso, abbassa gli avvolgibili, ma lasciami stare.
Confuso e intimidito, lo scolaro non abbassò il nove, sbagliò la divisione e si prese un brutto voto. Eh, qualche volta non è proprio il caso di essere troppo delicati».
Lo zero è protagonista de Il trionfo dello zero, nelle Filastrocche in cielo e in terra del 1960, perché decide di accompagnarsi all’uno e «da quel giorno lo Zero fu molto rispettato, anzi da tutti i numeri ricercato e corteggiato».
Non solo filastrocche, comunque. Il fascino che la matematica ha esercitato su romanzieri, narratori, poeti, soprattutto negli ultimi centocinquanta anni, si manifesta a diversi livelli: a un livello più superficiale si tratta semplicemente di riferimenti contenutistici e prestiti terminologici, echi e suggestioni non elaborati in maniera sistematica, che abbondano da qualche tempo anche nei titoli (come ne La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano o in Teoria degli infiniti di John Banville). A un livello più profondo, sono il mondo scientifico e i suoi protagonisti a diventare fonte di ispirazione per la narrazione letteraria. Ma l’incontro e il rispecchiamento tra le due sfere hanno ragioni anche strutturali: letteratura e matematica consistono entrambe principalmente nell’invenzione di mondi possibili, sono entrambe attività di finzione. Le teorie matematiche costituiscono “universi finzionali” non dissimili dalle grandi costruzioni romanzesche del Novecento, come la Ricerca del tempo perduto di Proust o l’Ulisse di Joyce. Nella creazione letteraria e in quella matematica entrano in gioco capacità linguistiche e attività ideative che hanno profonde affinità tra loro così come analoghe sembrano essere le qualità estetiche che i loro prodotti esprimono.
Prima di passare in rassegna altri esempi di come matematica e letteratura abbiano incrociato i loro cammini nel tempo, occorre sottolineare come la matematica sia in un certo senso chiamata in causa dalla stessa struttura della macchina narrativa o dall’architettura metrica della poesia. Anche la creazione letteraria scaturisce dalla tensione che si innesca tra la libertà di invenzione e la presenza di vincoli formali. Composizioni poetiche di antica tradizione, quali il sonetto o la sestina, rispondono a strutture matematiche di tipo combinatorio: il sonetto è composto da 14 versi con un numero costante di sillabe (in generale, 11 o 12); una sestina è formata da 39 versi suddivisi in sei strofe di 6, più una di 3.
Del resto la dialettica tra libertà e vincoli, tra scrittura e regole, e l’indagine delle nuove potenzialità che, una volta soddisfatte determinate condizioni, si aprono sul versante combinatorio sono al centro dell’ispirazione del movimento dell’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle, il Laboratorio di letteratura potenziale) fondato in Francia nel 1960 su iniziativa del matematico F. Le Lionnais e dello scrittore Raymond Queneau (1903-76). Il movimento scarta l’ipotesi che la poesia dipenda da fattori esterni come l’ispirazione; quanto ai lettori appare come frutto dell’ispirazione è in realtà il risultato di un lavoro più modesto e metodico che tende ad adattare la struttura del pensiero a determinate architetture. Tra i membri più autorevoli dell’Oulipo figurano Claude Berge (1926-2002), Italo Calvino (1923-1985), Georges Perec (1936-1982), Jacques Roubaud (1932). A Queneau si devono il romanzo Odile (1937), in cui il protagonista è un giovane matematico, e gli Exercises de style (1947), tradotti in italiano da Umberto Eco. Perec è forse lo scrittore che si è dato il maggior numero di vincoli e di schemi matematici da soddisfare nella realizzazione dei suoi romanzi: La Disparition del 1969 è un testo che non impiega mai la lettera “e”, una vocale che pure nella lingua francese è frequente quanto in italiano; l’oggetto sparito è insomma una lettera, di cui il romanzo fa completamente a meno. Anche per Calvino un’importante fonte di ispirazione è costituita dal calcolo combinatorio. Tra le sue opere si possono citare Le città invisibili, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Palomar, Ti con zero e ancor prima quelle Cosmicomiche che vedono al loro centro proprio il rapporto tra il mito e la scienza. Ne Il castello dei destini incrociati – valga questo come esempio dell’utilizzo dell’ars combinatoria – Calvino adopera 22 tarocchi come elementi narrativi di base con i quali è possibile generare infinite storie; disposti i tarocchi su un reticolo, tutti i percorsi che li toccano danno luogo a tutte le narrazioni possibili e Il castello dei destini incrociati diventa l’insieme delle storie raccontate dai diversi viaggiatori che si trovano insieme in una locanda.
L’attenzione di Calvino verso la scienza e l’importanza attribuitale sono esplicite. In un articolo pubblicato su «Il Corriere della Sera» nel 1975 (dal titolo I buchi neri) egli scrive: «A ogni secolo e a ogni rivoluzione del pensiero, sono la scienza e la filosofia che rimodellano la dimensione mitica dell’immaginazione, cioè il fondamentale rapporto tra gli uomini e le cose». Alla sua curiosità verso la matematica e la natura (certo alimentata dagli interessi personali così come da motivazioni letterarie e sociopolitiche) non è del tutto estranea anche un’iniziale educazione scientifica sviluppatasi nell’ambiente familiare. Dopo la guerra, Calvino si iscrive alla facoltà di lettere, ma dopo aver frequentato quella di agraria e aver dato quattro esami: «Sono figlio di scienziati: mio padre era un agronomo, mia madre una botanica; entrambi professori universitari. Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano in onore; un mio zio materno era un chimico, professore universitario, sposato a una chimica (anzi ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche); mio fratello è un geologo, professore universitario». Il suo non è un caso isolato. Molto più spesso di quanto si pensi i prodotti letterari mostrano una discreta cultura scientifica dell’autore o perlomeno il possesso di alcune informazioni di base che gli permettono di affrontare esplicitamente alcuni temi matematici e di avanzare precisi riferimenti alla storia della disciplina o a problemi che le diverse comunità di ricercatori si trovano ad affrontare.
Insospettabili conferme di questa attenzione al mondo della matematica si trovano addirittura nei “gialli” e nella letteratura poliziesca, a cominciare dai classici del genere. Edgar Allan Poe (1809-49) è considerato l’iniziatore del genere poliziesco. In The murders in the Morgue (I delitti di Rue Morgue, 1841), capostipite del romanzo-enigma in cui il detective raccoglie indizi, formula congetture, le modifica alla luce delle prove accumulate e poi arriva a esporre il “teorema” che risolve il caso, a proposito delle caratteristiche e delle facoltà mentali dell’investigatore, scrive: «La capacità di risolvere è probabilmente potenziata dallo studio della matematica e soprattutto dal ramo più nobile di essa che impropriamente, e solo a causa delle sue operazioni a ritroso, è stato denominato analisi». In realtà, Poe non si limita all’analisi ma coinvolge nelle sue riflessioni anche la probabilità, addirittura anticipando, in The mystery of Marie Rogêt (Il mistero di Marie Rogêt, comparso a puntate sul mensile «The Lady’s Companion Magazine» di New York tra il 1842 e il 1843) i temi alla base dell’effetto-farfalla: «Per quanto riguarda l’ultima parte della supposizione, si dovrà considerare che la più insignificante differenza nei fatti delle due vicende potrebbe dar luogo ai più importanti errori di calcolo, facendo divergere radicalmente le due sequenze dei fatti; proprio come in aritmetica un errore che in sé non ha valore, alla fine, moltiplicandosi da un punto all’altro del procedimento, produce un risultato lontanissimo dal vero».
Poe è solo il primo di un lungo elenco di “giallisti” che equiparano la soluzione di un mistero poliziesco alla dimostrazione di un teorema e che vengono quasi naturalmente a parlare di matematica, per la struttura logica che narrazione e indagini devono seguire. A partire dai nomi più classici si possono citare Arthur Conan Doyle (1859-1930), Agatha Christie (1890-1976), Georges Simenon (1903-89), Rex Stout (1886-1975), John Reese (1910-81), Erik Rosenthal (1905-1983), Hiroshi Mori (1957), Denis Guedj (1940-2010), Mark Cohen (1943), Guillermo Martínez (1962), Apostolos Doxiadis (1953). Sempre tra gli autori contemporanei si segnala, non fosse altro che per il grande successo di vendite fatto registrare anche in Italia, Stieg Larsson (1954-2004) e la sua Millennium trilogy (Trilogia del millennio, pubblicata postuma, 2005-07) dove la protagonista – Lisbeth Salander – esibisce non comuni abilità informatiche ma, per rilassarsi, si scervella anche sui grandi problemi irrisolti della matematica.
Non solo filastrocche o letteratura minore, come talora i gialli (e anche la fantascienza) vengono ancora considerati. Dedica alla matematica pagine interessanti anche la letteratura “alta”, quella della poesia più elevata e dei grandi romanzi, a partire da autori che appartengono all’Olimpo della nostra cultura e che tutti abbiamo imparato a conoscere sui banchi di scuola.
Ai tempi di Dante (1265-1321), ogni uomo colto doveva essere preparato nelle arti del “trivio” e anche in quelle scientifiche del “quadrivio” (musica, aritmetica, astronomia, geometria). Non sorprende quindi che il sommo poeta mostri la sua preparazione in questo senso e spesso, per costruire similitudini o metafore, ricorra proprio al contesto matematico:
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affigge
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder volea come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova.
Il passo è tratto dal Canto XXXIII del Paradiso dove Dante espone le sue difficoltà a capire il mistero dell’incarnazione e di come uno stesso elemento ne possa contemporaneamente rappresentare due (in questo caso, la natura umana e quella divina). La similitudine è allora con il geometra che non riesce, con gli usuali strumenti della riga e del compasso, a effettuare la quadratura del cerchio.
Letteratura e scienza sono connesse da canali tortuosi e carsici. La Luna costituisce un filo conduttore che da Dante e Beatrice ci porta a Ludovico Ariosto (1474-1533) che, definito da Calvino poeta cosmico e lunare, con il suo poema epico Orlando furioso e il viaggio di Astolfo, mostra una nuova sensibilità alla filosofia della natura. La Luna conduce poi a Giacomo Leopardi (1798-1837) che ha avuto nella scienza un costante punto di riferimento nella sua formazione e nella sua maturità di intellettuale. L’erudizione accumulata nella biblioteca paterna già traspare nelle opere dell’adolescenza. Numerosi sono i passi in cui Leopardi parla di fisica e di astronomia, ma anche di matematica, e non manca di accennare in termini critici al suo riduzionismo e agli aspetti più meccanici del calcolo, per esempio nello Zibaldone: «Nulla di poetico si scopre quando si guarda alla natura con la pura e fredda ragione, quindi nulla di poetico potranno mai scoprire la pura e semplice ragione e la matematica». È naturale che Leopardi rifletta sulla matematica del suo tempo, oltretutto nella versione che dai circoli più ristretti arrivava a intellettuali di diversa estrazione. Le sue parole, così come quelle di altri autori di opere letterarie, vanno contestualizzate storicamente. Non meraviglia dunque che i riferimenti e gli accenni che si colgono in autori della seconda metà dell’Ottocento cambino decisamente registro e riflettano la rivoluzione che ha investito la disciplina. Diverse sono certamente le sensibilità di letterati e poeti, ma diversa è soprattutto la consapevolezza dell’evoluzione della matematica da scienza della quantità a scienza della qualità (per usare una terminologia hegeliana) ossia a una disciplina maggiormente orientata verso aspetti strutturali.
Al mondo della logica, ai suoi rompicapo e ai suoi paradossi, si riferisce Charles Dodgson (1832-1898), più conosciuto con lo pseudonimo di Lewis Carroll. L’autore di un libro universalmente noto, qual è Alice’s adventures in wonderland (Alice nel paese delle meraviglie, 1865), aveva mostrato una notevole curiosità verso la matematica sin da bambino. Si racconta che, trovato un libro sui logaritmi nella biblioteca di famiglia, chiedesse al padre di spiegarglieli e che di fronte alle esitazioni di questi che gli faceva notare che era troppo piccolo per comprenderli, avesse risposto: «Va bene, ma ora spiegameli!». Il giovane Charles aveva poi terminato gli studi a Oxford, diventando poi lecturer di matematica al Christ Church (il maggiore dei college di Oxford). I riferimenti scientifici di Lewis Carroll non rimangono confinati ad Alice nel paese delle meraviglie. In Sylvie and Bruno (1889, 1893), per esempio, utilizza l’idea dell’estensione tridimensionale del nastro di Möbius (bottiglia di Klein) per la costruzione di un borsellino che non ha né interno né esterno e contiene dunque in un certo senso tutte le ricchezze del mondo. Alice rimane comunque la sua opera più fortunata: la regina Vittoria si divertì talmente a leggerla che chiese subito di avere il successivo libro dell’autore; pare però non si sia più molto divertita quando le arrivò An elementary treatise on determinants, with their application to simultaneous linear equations and algebraical geometry (Un elementare trattato sui determinanti, con applicazione a sistemi di equazioni lineari e alla geometria algebrica, 1867).
I riferimenti matematici cambiano e si rinnovano con lo scrittore e teologo inglese Edwin A. Abbott (1838-1926) che, in Flatland (Flatlandia: un romanzo a più dimensioni, 1882) racconta le vicende di un abitante proveniente da un “normale” universo tridimensionale che si trova a vivere in uno spazio a sole due dimensioni.
Non c’è però solo il racconto divertente. Gli accenni alla matematica diventano filosoficamente più consistenti e impegnati in Paul Valéry (1871-1945). Le centinaia di osservazioni che figurano nei suoi Cahiers (Quaderni) pubblicati postumi in venti volumi a partire dal 1957, riflettono su una disciplina che sempre più sceglie la libertà di un approccio assiomatico e si caratterizza per il rigore con cui prosegue lungo strade che si è scelta abbastanza arbitrariamente. Contemporaneo di Valéry è lo scrittore austriaco Robert Musil (1880-1942) che, figlio di un professore di meccanica, aveva ricevuto un’educazione prettamente scientifica: diplomatosi in ingegneria meccanica a Brno, divenne assistente al Politecnico di Stoccarda per poi completare i propri studi con una tesi su Ernst Mach. Anche per Musil, al pari di Valéry, i modelli da seguire (e da ammirare) non sono più i letterati e gli esteti ma i grandi fisici e matematici della seconda metà dell’Ottocento. Il romanzo d’esordio Die Verwirrungen des Zöglings Törless (I turbamenti del giovane Törless, 1906) trae ispirazione dalla personale esperienza dell’autore e racconta le reazioni di fronte a un mondo nuovo, quale quello matematico, che si apre davanti agli occhi della mente di un adolescente desideroso di nuove esperienze intellettuali pur nell’angusta atmosfera di un collegio militare. Il dialogo tra il problematico Törless, che vuole afferrare meglio la logica dei numeri complessi, e il suo compagno Beineberg che gli risponde soddisfatto e compiaciuto con la sicurezza che gli deriva dalla conoscenza delle formule – «Bisogna solo ricordare che l’unità di calcolo è data dalla radice quadrata di meno uno» sostiene, aggiungendo: «credo che a essere troppo scrupolosi la matematica finirebbe per non esistere più» – è l’occasione per presentare la convivenza all’interno della matematica di esattezza e indeterminazione, di rigore e anima, e per indicare come siano proprio i primi termini a permettere di avvicinare i secondi e ricomporre il dissidio. I due aspetti sottostanti a tali caratteristiche – quello di uno strumento essenziale dato che «tutto ciò che abbiamo è ottenuto attraverso calcoli matematici» e quello di una riflessione che esprime «il volto non finalizzato, ma antieconomico e passionale» della ricerca – sono di nuovo presenti nel racconto L’uomo matematico del 1913 (da cui sono tratte le due precedenti brevi citazioni, in Racconti matematici a cura di Claudio Bartocci, 2006). Il capolavoro di Musil è rappresentato dal romanzo Der Mann onhe Eigenschaften (L’uomo senza qualità), pubblicato nella sua prima parte nel 1930. Il protagonista principale, Ulrich Anders, è un giovane e brillante matematico. I suoi principali interessi di ricerca sono costituiti dalla logica e dalla fisica matematica e questi riferimenti disciplinari, oltre a quelli alla statistica, permettono all’autore di ribadire la convinzione che nel matematico convivono efficacemente assoluto rigore e libertà: «Si arriverà a un uomo nel quale si manifesta una paradossale combinazione di precisione e di indeterminatezza. Egli possiede quell’incorruttibilità che costituisce il temperamento dell’esattezza, ma al di là di questa caratteristica il resto è indeterminato».
Leggendo Musil, non si può non pensare alla rivoluzione matematica e concettuale operata dal metodo assiomatico e dall’insegnamento di un grande matematico quale D. Hilbert. Precisi riferimenti alla matematica del Novecento si trovano tra gli altri nello scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger (1929) – noto in particolare per Der Zahlenteufel (Il mago dei numeri, 1997) – con il suo Hommage à Gödel (in Claudio Bartocci, op. cit. dal titolo tedesco Die Elixiere der Wissenschaft, 2002) e nell’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) che nel racconto El jardín de senderos que se bifurcan (Il giardino dei sentieri che si biforcano, 1941, riportato nella raccolta Ficciones, Finzioni, 1944) parla espressamente di biforcazioni e di sistemi caotici: «Mi colpì, naturalmente, la frase: “Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano”. Quasi immediatamente compresi; il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerivano l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio». Fino a David Foster Wallace (1962-2008), che ha paragonato il suo romanzo Infinite jest (1996) al cosiddetto triangolo di Sierpiński, in cui una struttura è generata dalla ripetizione a scale diverse di una stessa forma di base.
È un’attenzione a cui non rimane estranea la letteratura italiana moderna e contemporanea. A volte, la presenza di una struttura logica e di temi matematici viene portata alla luce da successivi studi critici come nel caso di Luigi Pirandello (1867-1936) a proposito del quale il matematico B. De Finetti ha scritto: «Considero Pirandello come uno dei più grandi spiriti matematici; così dicevo a un suo collega nel giorno della sua morte, e tale affermazione mi parve accolta con meraviglia. Ed essa non può infatti non sembrare paradossale se, cullandosi nelle inveterate illusioni razionalistiche, si considera la matematica come un complesso di verità assolute che col relativismo pirandelliano sarebbe addirittura agli antipodi». Altre volte i riferimenti scientifici sono espliciti: da Carlo Emilio Gadda (1893-1973), a Dino Buzzati (1906-72), a Primo Levi (1919-87), a Umberto Eco (1932) e ai più giovani Bruno Arpaia (1957), Alessandro Baricco (1958), Paolo Giordano (1982), Marco Malvaldi (1974, ancora un “giallista”!). Questi esempi, così pregevoli, mostrano la debolezza del luogo comune per cui la dimensione scientifica sarebbe assente nella cultura italiana. Certamente non ha svolto un ruolo marginale visto che si è sviluppata all’ombra di un gigante quale Galileo che, con la sua prosa, può essere considerato uno dei più grandi scrittori italiani di ogni tempo. Lo ricorda, nell’articolo Natura calcolo fantasia pubblicato nel 1951 dalla rivista aziendale «Pirelli», Leonardo Sinisgalli (1908-81) che fu ingegnere e letterato, intellettuale esperto di comunicazione industriale e di contaminazioni culturali, autore della raccolta Furor mathematicus (1944, con scritti dell’autore negli anni Trenta del XX secolo): «la Scienza e la Tecnica ci offrono ogni giorno nuovi ideogrammi, nuovi simboli, ai quali non possiamo rimanere estranei o indifferenti, senza il rischio di una mummificazione o di una fossilizzazione totale della nostra coscienza e della nostra vita […]. Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti. I Poeti non devono avere sospetto di contaminazione. Lucrezio, Dante e Goethe attinsero abbondantemente alla cultura scientifica e filosofica dei loro tempi senza intorbidire la loro vena. Piero della Francesca, Leonardo e Dürer, Cardano e Della Porta e Galilei hanno sempre beneficiato di una simbiosi fruttuosissima tra la logica e la fantasia».