Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Secolo ricchissimo di esperienze e intuizioni filosofiche, il Novecento vede confrontarsi fianco a fianco pensiero e letteratura. Se da un lato la filosofia mostra per la prima volta un interesse speculativo per la creazione letteraria, poeti e romanzieri si sono nutriti delle elaborazioni del pensiero in corso. Anche la critica letteraria è particolarmente influenzata dalla filosofia creando vere e proprie correnti ispirate al pensiero dei grandi maestri del sospetto – Nietzsche, Freud e Marx – e numerosi filosofi hanno fatto della letteratura il centro delle proprie riflessioni.
Nietzsche e il superomismo
Henri Bergson
L’evoluzione creatrice - La durata interiore
Di ciascuno dei miei stati psichici parlo, infatti, come se esso costituisse un blocco: dico sì che cambio, ma concepisco il cambiamento come un passaggio da uno stato al successivo e amo credere che ogni stato, considerato per se stesso, rimanga immutato per tutto il tempo durante il quale si produce. Eppure, un piccolo sforzo di attenzione basterebbe a rivelarmi che non c’è affezione, rappresentazione o volizione che non si modifichi di continuo: se uno stato di coscienza cessasse di cambiare, la sua durata cesserebbe di fluire. Il mio stato d’animo, avanzando sulla via del tempo, si arricchisce continuamente della propria durata: forma, per così dire, valanga con se medesimo. Se la nostra esistenza fosse costituita di stati separati, di cui un Io impassibile dovesse far la sintesi, non ci sarebbe per noi durata: poiché un Io che non muti non si svolge, come non si svolge uno stato psichico che resti identico a se stesso finché non venga sostituito dallo stato successivo. Infatti, la nostra durata non è il susseguirsi di un istante ad un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta. La durata è l’incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce. E poiché si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente.
H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Milano, Raffaello Cortina, 2002
Friedrich Wilhelm Nietzsche
Aforisma 125: “Dio è morto”
L’uomo folle. - Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” - gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto - proseguí - non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.
F.W. Nietzsche, La gaia scienza
I fittissimi rapporti tra letteratura e filosofia nel Novecento, dopo le certezze del razionalismo positivista di fine secolo, iniziano nel segno di una crisi, rappresentata dalla figura di un Amleto intellettuale intento a gettare uno sguardo annoiato sull’Europa appena uscita dal primo grande conflitto mondiale e sul panorama di teschi dei grandi filosofi del passato. L’immagine è del poeta Paul Valéry, che nel saggio del 1919, significativamente intitolato La crisi del pensiero, diagnostica, con precisione da filosofo, uno smarrimento di senso che riguarda innanzitutto l’uomo. Non stupisce dunque che i primi decenni del secolo vedano il diffondersi del pensiero di un oracolo della crisi della civiltà come Friedrich Nietzsche: le sue opere, dal peculiare taglio poetico e aforismatico, scavalcando la data di morte del loro autore – l’assai simbolico 1900 – influenzano profondamente la cultura e la letteratura di inizio secolo. Non è forse un caso, che la fortuna del filosofo tedesco tra i letterati, sia affidata per lungo tempo a Così parlò Zarathustra (1883-1885), una sorta di poema filosofico in prosa, in cui si denuncia l’avvenuta “morte di Dio”, intesa come annullamento del sistema di valori che ha caratterizzato la civiltà occidentale, e l’inizio dell’età del nichilismo – già vaticinata dal grande narratore russo Fëdor Dostoevskij – ossia la mancanza di senso entro cui è destinato a vivere un uomo decadente, un uomo-massa. Va da sé che uno scrittore come Gabriele d’Annunzio, il quale definisce il proprio vivere inimitabile ma che in realtà trascorre la propria vita mistificando le proprie imitazioni, abbia sentito e fatta propria l’idea nietzschiana di Übermensch, termine dapprima maldestramente tradotto con superuomo e, solo dopo la metà del secolo, restituito al suo originale valore di oltreuomo, da intendersi come uomo al di là dell’uomo, del bene e del male, incarnazione della volontà di potenza, trionfo della infinità della vita contro i limiti della morale e della ragione. Di una visione oculatamente travisata di superuomo, è intrisa l’opera in versi e in prosa dello scrittore italiano, che proprio nel 1900 pubblica il romanzo Il fuoco: il protagonista, Stelio Effrena, alter ego dell’autore e didascalica rappresentazione della eccezionale potenza creativa e dell’ebbrezza dionisiaca superomistica, si muove sullo sfondo di una Venezia decadente, trasfigurata immaginificamente attraverso il continuo richiamo alla pittura veneta e alla musica nietzschiana di Wagner.
Sempre sullo sfondo di una Venezia corrosa dal colera si svolge un altro romanzo che trova nel pensiero del Nietzsche de La nascita della tragedia (1872), la giustificazione per il tema della ribellione verso la disciplinata vita borghese: La morte a Venezia (1912) del premio Nobel tedesco Thomas Mann. Il protagonista del romanzo, Gustav von Aschenbach, famoso scrittore, viene profondamente turbato dalla bellezza di un adolescente. L’attrazione per il giovane si presenta come una fuga da un’etica razionale e apollinea per un’esistenza dionisiaca, irrazionale ed estatica. In questa direzione va dunque interpretato il sogno fatto dal protagonista coinvolto in un’orgia che gli pare distruggere l’intero edificio della sua vita e della sua cultura. Il tema nietzschiano della dissoluzione, al centro della produzione di Mann, a partire da I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia (1901), domina anche quello che è forse uno dei romanzi più affascinanti del Novecento, La montagna incantata (1924). Naphta, uno degli abitanti di quell’Europa in miniatura che Mann rappresenta genialmente attraverso un sanatorio sulle Alpi, ebreo gesuita che finirà con il suicidarsi, si presenta infatti come un erede del romanticismo e portavoce del pensiero di un Nietzsche già assolutizzato dalla nascente ideologia nazista.
Poetiche della durata
L’originale trattazione del tempo ricollega il romanzo di Mann a due altre opere fondamentali della letteratura del Novecento come Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust e l’Ulisse di James Joyce. Un importante apporto filosofico a questa tematica si deve alla diffusione, all’inizio del secolo, del pensiero del francese Henri Bergson. Vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1928, Bergson distingue il concetto di durata – ininterrotto flusso temporale interiore alla coscienza, identificata con una memoria intesa come libertà, creazione autonoma – e il concetto di tempo spazializzato della scienza, che tende alla quantificazione e riduzione a cosa anche della vita spirituale. Già nel 1905, le teorie di Albert Einstein hanno sottratto tempo e spazio al campo dell’assolutezza, sostenendo la loro relatività rispetto ai sistemi di riferimento e ai mezzi di misurazione dell’osservatore, ma è ovvio che la scientificità della nuova fisica einsteiniana abbia incontrato maggiore reticenza nel campo letterario rispetto ai concetti di durata e memoria di Bergson. Nonostante Proust abbia sempre negato il riferimento alla filosofia bergsoniana, nella memoria che struttura la sua ricerca del tempo, esso viene vissuto essenzialmente come durata, capace di abbracciare in un tutto unico le metamorfosi a cui la fuga temporale sottopone le cose. Egli ha d’altronde seguito alla Sorbona le lezioni del filosofo insieme a molti altri intellettuali europei, come i poeti Thomas S. Eliot e Giuseppe Ungaretti. Quest’ultimo non manifesta mai alcuna reticenza nell’attribuire a Bergson l’origine del proprio Sentimento del tempo – titolo della raccolta del 1933 – e la creazione di una scrittura capace di penetrare nel profondo segreto della memoria e della vita psichica. I versi rastremati e la parola scavata nel silenzio di Ungaretti sono sicuramente debitori al concetto bergsoniano di intuizione, che conduce all’interno di un oggetto, fino a coincidere con la sua unicità e inesprimibilità.
Di ben altra portata è il concetto di intuizione formulato dal filosofo italiano Benedetto Croce nell’ambito della sua estetica, che influenzerà, non senza provocare ritardi rispetto alla produzione europea, la letteratura italiana della prima metà del Novecento. Già in L’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), Croce definisce l’arte come intuizione lirica, forma universale, indipendente dalle tecniche utilizzate nella creazione. L’egemonia dell’idealismo crociano affossa per lungo tempo la possibilità della critica italiana di rivolgersi alla materialità dei testi, attraverso gli strumenti della filologia o della comparatistica, causando un arretramento non meno grave di quello provocato dall’antinomia di Poesia e non poesia (1923) che seziona letteralmente le opere di classici come Dante o Leopardi e causa gravi ritardi nell’assimilazione del valore di rottura delle avanguardie europee.
Letteratura e libertà
Nonostante Croce si sia distinto per il suo impegno nell’antifascismo, ben altri aspetti assume in Francia la figura dell’intellettuale impegnato, in particolare nell’ambito della filosofia esistenzialista di Jean-Paul Sartre. Egli rientra sicuramente nel novero di coloro che hanno scritto tanto di filosofia quanto di letteratura, tanto che dopo la partecipazione al secondo conflitto mondiale è proprio nella prosa che Sartre intravede la possibilità di comunicare al lettore un contenuto esplicito che non sia solo individuabile nella soggettività dello scrittore ma nella realtà tout court con i suoi aspetti sociali e politici. Queste riflessioni vengono affidate al saggio Che cos’è la letteratura? (1947) e all’incompiuta trilogia narrativa Il cammino della libertà, ma la fama di Sartre come romanziere risale al 1938, anno di uscita de La nausea, manifesto del pessimismo esistenziale francese. Nella finzione diaristica del libro, il protagonista Antoine Roquentin, sperimenta una sempre più forte alterazione della percezione, la nausea del titolo, che arriva ad annullare i valori e i significati quotidiani per l’emergere di una dimensione preumana della realtà, intuita davanti alla nodosa radice di un castagno.
L’irrazionalità e la totale insensatezza dell’esistenza hanno per Sartre un valore metafisico, e il romanzo è forse il primo tentativo di narrazione della dissoluzione dell’io ma anche la prima riflessione narrativa sul tema della sguardo, desunto dalla prospettiva fenomenologica di Husserl, suo maestro, e successivamente confluito nel pensiero di Merleau-Ponty. L’esistenzialismo eserciterà un notevole fascino su molte generazioni di scrittori, anche un romanziere italiano come Alberto Moravia risentirà profondamente dell’influsso sartiano nella scrittura del suo romanzo del 1960, La noia e anche prima dell’avvento della peste è la noia a dominare la piccola cittadina algerina in cui Albert Camus ambienta il suo romanzo La peste, pubblicato nel 1947. Insieme all’opera d’esordio, Lo straniero (1942) e al saggio teorico Il mito di Sisifo (1942), anche in questo romanzo Camus affronta il tema dell’assurdità dell’esistenza e del mondo, di fronte alle quali nessuna consolazione filosofica o fideistica ha effetto. Il male, rappresentato da una peste che adombra il dramma dell’occupazione nazista, non può essere spiegato ma deve essere accettato lucidamente e affrontato attraverso impegno collettivo come sostiene nel saggio del 1951, L’uomo in rivolta. Il dolore è sintomo della contraddizione del vivere: in questo ambito tragico si muove lo spagnolo Miguel de Unamuno, interprete del pensiero irrazionalista di Kierkegaard, di Schopenhauer e di Nietzsche, e autore non solo di opere filosofiche come Il sentimento tragico della vita (1913), ma anche di romanzi, racconti e soprattutto di poesie. Si dedica a riflessioni intorno alla letteratura anche un altro importante filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, che, nelle sue Meditazioni sul Chisciotte (1914), indaga la figura scissa del Cavaliere della Mancha, e anticipa alcune riflessioni dell’esistenzialismo, sostenendo che solo grazie alla riappropriazione e alla coincidenza di sé con se stesso è possibile un’esistenza autentica.
L’esistenzialismo di Sartre non è però comprensibile senza prendere in considerazione l’opera da cui ha preso criticamente ispirazione, Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927) del filosofo tedesco Martin Heidegger, controversa quanto mastodontica figura di snodo tra fenomenologia, filosofia dell’esistenza e ontologia ermeneutica, assai influente soprattutto nell’ambito degli studi sulla letteratura. Il contributo più importante di Heidegger riguarda la sua teoria del linguaggio, sviluppata al margine di controversi commenti all’opera poetica di Friedrich Hölderlin, Georg Trakl, Stefan George e Rainer Maria Rilke. Il nesso tra pensiero e poesia si rafforza nelle ultime opere, sino all’affermazione che il pensare è un poetare e il poetare è un pensare (Sentieri interrotti, 1968). Sono stati i poeti a mantenere rapporti più contrastati con il filosofo: ne sono un esempio Paul Celan e Ingeborg Bachmann. Quest’ultima si laurea nel 1948 proprio sulla ricezione critica della filosofia esistenziale di Heidegger; una tesi che è in realtà un feroce attacco al filosofo, il cui tentativo di dire ciò che secondo Wittgenstein, altro grande polo filosofico per la scrittrice austriaca, occorre tacere, viene equiparato alla chiacchiera, quell’inautenticità dell’opinione pubblica contro cui lo stesso Heidegger si è scagliato. In realtà, le raccolte poetiche della poetessa austriaca Il tempo dilazionato (1953) e Invocazione all’Orsa maggiore (1956), si radicano intorno a una parola che tenta di dire l’indicibile e che si fa, heideggerianamente, evento. Lo stesso si può dire del poeta di origine rumena Paul Celan, forse una delle voci più importanti della poesia dell’intero secolo; affascinato dal pensiero di Heidegger, ma anche traumatizzato, per via della sua origine ebraica, dalla tragedia dell’Olocausto, polemizzerà con lui per non essersene andato dalla Germania durante il nazismo.
Se come abbiamo visto, Nietzsche apre il secolo nel segno della crisi, occorre aggiungere al suo almeno altri due nomi, per completare la triade dei cosiddetti maestri del sospetto, Sigmund Freud e Karl Marx. Soprattutto nel secondo dopoguerra si determina una forte ripresa del pensiero del filosofo di Treviri, ma il “marxismo occidentale”, secondo la formula utilizzata da Merleau-Ponty, si contraddistingue per una aperta critica nei confronti del socialismo reale stalinista. Tra le figure di spicco per i contributi di natura estetica è d’obbligo citare l’ungherese György Lukács. Nei suoi famosi Saggi sul realismo (1946) egli elabora una teoria dell’arte fondata sul concetto di mimesis, rispecchiamento della realtà che permetta l’emersione di significati universali. La migliore rappresentazione di tale realismo viene individuata da Lukács nel modello del romanzo borghese ottocentesco ma questo non gli impedisce di trovare anche in autori come Thomas Mann, o nell’italiano Tomasi di Lampedusa, autore del bestseller mondiale Il Gattopardo, efficaci rappresentazioni dell’affermarsi della società borghese. Anche la pubblicazione dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, dalla fine degli anni Quaranta, contribuisce in Italia alla discussione dei temi legati al marxismo, come il concetto di egemonia o il ruolo dell’intellettuale organico nell’antagonismo di classe. All’assenza di una letteratura nazionale e popolare segnalata dallo statista italiano cercherà di porre rimedio il cosiddetto neorealismo, che, nonostante abbia conosciuto i risultati migliori in campo cinematografico, vedrà una forte produzione di opere narrative da parte di autori diversissimi ma accomunati dall’obiettivo di riscoprire le differenze regionali italiane attraverso lo sguardo delle classi sociali disagiate, operai e contadini. Esemplari risultano i romanzi di Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Vasco Pratolini, ma anche le prime prove narrative di Pier Paolo Pasolini. Se Lukács riserva alle avanguardie novecentesce un giudizio assai negativo, in quanto assolutizzanti di un momento storico caratterizzato dallo spaesamento, di parere pressoché opposto appaiono i teorici marxisti della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer, Theodor W. Adorno ed Herbert Marcuse che operano un’integrazione del marxismo con apporti da Nietzsche, Freud ed Hegel. Vicino alle posizioni della Scuola di Francoforte si può considerare anche la monumentale quanto tragica figura di Walter Benjamin, acuto indagatore della modernità artistica e letteraria, persuaso che l’opera d’arte possa condurre a una conoscenza diretta della storia. Nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), egli elabora una teoria desacralizzata dell’oggetto artistico che, piegato ai mezzi tecnici di riproduzione – in particolare la fotografia e il cinema – perde la sua aura di irripetibile atto creativo, per divenire oggetto replicabile del consumo di massa. Egli è inoltre molto amico del poeta e drammaturgo Bertolt Brecht impegnato come lui nello sviluppo di una concezione sociale dell’opera d’arte attraverso il teatro e la poesia.
Linguaggio e letteratura
Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo si sviluppa anche il movimento strutturalista, originatosi sugli studi del linguista svizzero Ferdinand de Saussure, in particolare grazie al suo Corso di linguistica generale (1916). La letteratura si rivela da subito come il campo privilegiato per l’applicazione dei principi dello strutturalismo, e uno dei suoi esponenti di maggiore rilievo, Roland Barthes, la descrive come un sistema di significati e significanti, un campo strutturato di sapere. Barthes si proporrà anche come critico militante a sostegno della sperimentazione del nouveau roman di Robbe-Grillet uno dei principali esponenti dell’école du regard, che non costituisce tanto una scuola quanto un complesso movimento culturale. L’idea di fondo si basa sulla decostruzione da fronti diversi delle strutture narrative tradizionali con l’impiego del monologo interiore, del flusso di coscienza, della descrizione fenomenologica di gesti e oggetti. Nei romanzi di Alain Robbe-Grillet, come Le gomme (1953), ma anche nelle opere successive, vengono proposti momenti di descrizione freddamente oggettiva della realtà eliminando ogni notazione di tipo psicologico, che riconduca all’autore. Estremamente importante nell’ottica strutturalista risulta anche l’apporto del critico letterario e filosofo russo Michail Bachtin, il quale elabora una teoria dialogica e polifonica del linguaggio in contrapposizione con un suo uso assoluto o monologico. Riprendendo l’idea lukácsiana del romanzo come forma piena, capace di rappresentare il mondo moderno, egli individua in Goethe e poi in Dostoevskij i principali innovatori della tradizione romanzesca. Il concetto di carnevalesco entro il quale Bachtin colloca l’opera del grande romanziere russo ha avuto grande fortuna critica nel secondo Novecento e trova nell’opera di uno scrittore come Carlo Emilio Gadda una delle sue manifestazioni più profonde in ambito europeo. Con capolavori quali Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1946-1947) e La cognizione del dolore (1963), il primo affidato a un romanesco con inserti molisani e veneti, il secondo pastiche di lombardismi e ispanismi, Gadda mette in scena quella plurivocità che, a sua insaputa, proprio Bachtin sta teorizzando negli stessi anni; egli permette ai suoi personaggi di parlare liberamente il loro linguaggio, di entrare in rapporto con il linguaggio degli altri senza che predomini una singola voce autoriale. Una figura particolarmente importante nel panorama europeo per i suoi rapporti dapprima con lo strutturalismo (La struttura assente, 1968) e in seguito con la semiotica è rappresentata da Umberto Eco, autore nel 1962 del fortunato volume Opera aperta, che teorizza l’apertura del testo, cioè la presa di coscienza dei possibili livelli e significati che un’opera mette a disposizione del lettore. Memore dei suoi stessi insegnamenti, nel 1980 Eco pubblica il romanzo Il nome della rosa, concepito come un labirinto di generi narrativi, da molti considerato il primo romanzo postmoderno italiano. Estremamente attenta al confronto con lo strutturalismo è anche l’ermeneutica di Paul Ricoeur, che mira alla riconciliazione tra la ricostruzione del senso oggettivo ed esistenziale del significato attraverso un’attenzione tutta tesa verso la struttura simbolica del linguaggio. A questo tipo di ermeneutica rappresentata da Ricoeur e ancor prima dalla dialogicità interpretativa di Hans-Georg Gadamer, si contrappone un’ermeneutica di tipo negativo, il decostruzionismo, nato in ambito americano su sollecitazioni del pensiero del filosofo francese Jacques Derrida, che nelle pagine del suo capitale La scrittura e la differenza (1967), attaccando la tradizione logocentrica del testo, ne sostiene l’inesauribilità, l’impossibilità di razionalizzazione: i significati attribuiti al testo dai lettori hanno pari validità delle intenzioni dell’autore. Ne consegue che la stessa critica letteraria è parimenti scrittura, scomposizione continua del testo che evidenzia come esso sia privo di un significato individuabile a priori e dunque interpretabile all’infinito. In ambito europeo, però, ha incontrato maggior fortuna critica il termine poststrutturalismo, inteso come spostamento critico rispetto alle posizioni dello strutturalismo degli anni Sessanta: l’idea che non esista una relazione solidale tra significato e significante nel segno, o il rapporto tra lingue e parole raddoppiati in scrittura e voce. Oltre a Derrida contributi importanti provengono da Michel Foucault con il saggio del 1966 Le parole e le cose, dagli scritti di Jacques Lacan, Julia Kristeva e Gerard Génette. Una figura di filosofo particolarmente interessante per i suoi rapporti con la letteratura è rappresentata dal filosofo francese Gilles Deleuze, le cui letture di Proust, Beckett, Lawrence, Caroll ma soprattutto di Kafka, hanno profondamente segnato non solo la critica ma la stessa produzione letteraria, soprattutto quella che oggi viene ricondotta al postmoderno.