ROMANI, Lettera ai
È la più ampia e importante dell'epistolario conservatoci di S. Paolo apostolo (v.). Egli vi traccia sistematicamente, con digressioni più apparenti che reali, il suo pensiero nelle linee fondamentali e un vasto piano di apologia del cristianesimo. Lo scritto conserva nondimeno tutta l'attualità di una lettera, riboccante dei più svariati sentimenti dell'apostolo. La discriminazione su cui insisté il Deissmann, tra epistola come composizione dottrinale e letteraria, e lettera come espressione non studiata di sentimenti e pensieri, difficilmente si può applicare al caso, perché Paolo non mostra alcuna preoccupazione letteraria, e supera il genere dell'epistola-trattato con l'esposizione sentita di un apostolo.
Egli la scrisse da Corinto, nell'inverno del 57-58 o nella primavera del 58, alla comunità di Roma, dove non era ancora stato, per prepararvi una sua venuta. L'Urbe dominatrice del mondo, ormai che il Vangelo era stato portato ed aveva messo radici in tutto l'Oriente, da Gerusalemme sino all'Illirico (Romani, XV, 19), lo attirava. Egli aveva da tempo concepito il disegno di recarvisi (XV, 23; Atti, XIX, 21), ma ne era stato impedito. E ne sarà impedito ancora, poiché al presente parte per Gerusalemme a portarvi le oggerte raccolte nelle diverse chiese di Grecia e Macedonia per i poveri della città santa solo nel 60 giungerà a Roma condottovi prigioniero, per il suo appello al tribunale di Cesare.
Nei suoi propositi, quando scriveva la lettera, era di non fissarsi a Roma. V'era già fiorente una comunità cristiana, e altri v'aveva lavorato: e Paolo, il quale aveva spesso esperimentato quali disordini poteva produrre in una comunità l'introdursi di persone estranee autorevoli, ha per sistema di non lavorare nei campi già dissodati. Da Roma sarebbe passato alla conquista di nuove terre al cristianesimo, portandolo all'estremo dell'Occidente, nella Spagna. Se Paolo avesse altri scopi particolari, oltre a questi indicati espressamente, scrivendo una lettera di tale ampiezza e significato, a una comunità non fondata da lui, è difficile determinare: in ogni caso, la sua visita non era imminente o prossima, essendo egli in procinto di recarsi a Gerusalemme, e la preparazione di essa non pare quindi spiegazione sufficiente della lettera. Forse, come egli accenna, la lettera rispondeva al debito ch'egli sentiva d'avere verso tutte le genti (I, 15) e di cui cercava di sdebitarsi al momento come poteva.
Taluno ha sostenuto che la comunità romana fosse pervasa da idee giudaico-cristiane (v. giudeo-cristianesimo), come un po' le altre chiese, e che Paolo pure là si preoccupasse di far prevalere l'idea larga dell'ammissione di tutte le genti al Vangelo senza il tramite e il peso della legge mosaica: è l'idea degli antichi Prologi della lettera (risalenti, secondo provò il De Bruyne, a Marcione), del Frammento Muratoriano e di molti antichi scrittori ecclesiastici: tuttavia non ha valore di tradizione. Nel sec. XIX F. C. Baur riprese tale idea, dando alla lettera uno scopo polemico contro idee e capi ostili alla larghezza di vedute di Paolo nei rapporti del cristianesimo con la legge mosaica e dell'ammissione dei gentili nel cristianesimo a diritti uguali con i Giudei.
La scuola esegetica liberale accolse largamente questa tesi, la quale tuttavia ora è attenuata e viene dai critici accolta con minor favore.
La polemica di S. Paolo, di cui sono esempio le lettere ai Galati e ai Corinzî, sarebbe qui ben tranquilla al confronto. La lettera è piuttosto prova dell'identità di pensiero che nei punti fondamentali avevano i cristiani sia delle comunità fondate da S. Paolo sia di quelle create da altri.
Un'esauriente risposta alla questione presuppone una cognizione delle origini stesse della chiesa di Roma migliore di quella che noi possediamo. Dal tenore della lettera pare che la comunità romana fosse formata in prevalenza di gentili, ma l'elemento giudaico non vi mancava, com'era da attendersi. La fede v'era già antica nel 58, quando Paolo scriveva la sua lettera; la chiesa di Roma era citata nel mondo intero (I, 8) e da parecchi anni Paolo desiderava visitarla (XV, 23). Una tradizione che ha per sé notevoli testimonianze ne attribuisce le origini a Pietro, arrivato nell'Urbe al tempo di Claudio (v. pietro apostolo, santo; roma, p. 654). L'elemento giudaico sarebbe stato allora il primo a costituire la comunità. In II Corinzî (X, 13-16), Paolo accenna a pseudo-apostoli i quali vantano un apostolato più ampio del suo; essi potevano essere stati anche a Roma, immettendovi un po' del loro spirito e quindi un disordine d'idee.
Sulla chiesa di Roma la lettera ci fornisce del resto quanto ci rimane di più particolareggiato di quel periodo. Un capitolo intero è dato da Paolo ai saluti: sembra un'ampiezza quasi ostentata di conoscenze, in una chiesa mai visitata, cosicché alcuni a torto (vedi appresso) sono arrivati a negarne la genuinità. Il trapasso continuo di gente dall'Oriente all'Urbe per commerci, servizî militari e mille altri legami che univano la capitale con le provincie può bene spiegare il gran numero d'amici che Paolo aveva in Roma.
La lettera ci rivela concretamente quali sforzi facesse Paolo per tener uniti i tenui fili del cristianesimo nascente. Da Roma egli doveva avere avuto informazioni recenti. Vi aveva persone a lui strettamente legate: Epeneto, la primizia cristiana dell'Asia; suoi collaboratori, come Ampliato e Stachys; suoi compatrioti, come Andronico, Giunia ed Herodion: e, menzionati prima d'ogni altro, Aquila e Priscilla, i due coniugi che dapprima avevano posto il loro domicilio a Roma, ne erano stati espulsi come tutti gli Ebrei dall'imperatore Claudio nel 49-50, avevano accolto S. Paolo nella loro casa ospitale durante la sua lunga dimora a Corinto e poi ad Efeso, fornendogli aiuto e indubbiamente preparandogli ora la strada dell'Urbe dove, come prima a Corinto, una comunità cristiana si radunava nella loro casa (XVI, 3-5; per le questioni critiche sul capitolo XVI, v. sotto). Tutti costoro, e altri ancora, avevano parlato di Paolo ai cristiani di Roma e ve l'avevano fatto conoscere, e dovevano aver portato a lui notizie sulle condizioni della comunità. Tali le circostanze della lettera: ma, nella sua astrazione dai particolari e nell'esposizione dottrinale, è difficile dedurre contrasti d'idee. Dopo la crisi giudaizzante di Galazia e la lettera ai Galati, in cui il pensiero di S. Paolo esce tumultuosamente a sbalzi, si comprende come un'esposizione delle linee del suo pensiero fosse informata alle idee allora dominanti nel suo animo, anche se con i Romani non aveva ragione d'alcuna polemica. Solo nei capp. XIV-XVI s'accenna a pericoli di dissensi, ma di natura assai limitata e tali da non investire le interpretazioni fondamentali dell'idea cristiana.
Il contenuto e le idee. - Per penetrare il pensiero della lettera occorre afferrare il sistema d'idee dell'apostolo (v. paolo, santo). La lettera comincia con un ampio saluto augurale nella maniera particolare a Paolo, che richiama dall'inizio la missione avuta da Cristo di portare a tutte le genti il Vangelo, ed insieme riassume il significato ed il valore dell'apparizione di Gesù nel mondo.
Lo svolgimento del tema comincia al v. 15, che con i seguenti ne forma la enunciazione: "A Greci ed a barbari, a dotti e indotti io sono debitore; così per quanto dipende da me sono pronto ad annunciare il Vangelo anche a voi di Roma. Perché io non arrossisco del Vangelo. Esso infatti è forza divina e salvezza per ognuno che accoglie la fede, ai Giudei prima ed ai Greci".
Il Vangelo è salvezza per tutti senza distinzione di razze. Per i Giudei, che ebbero da secoli il vero concetto di Dio e l'insegnamento dei profeti, c'è un diritto di precedenza, ma non di esclusività. È "salvezza", perché Gesù Cristo ci riconciliò con Dio espiando col sacrificio di sé i debiti umani e reca con sé una "forza divina" rinnovatrice del mondo.
L'ira di Dio pesa sulle iniquità umane. Paolo in una pagina possente fa una requisitoria vivace delle idee e dei costumi del paganesimo. La Divinità, invisibile in sé, è resa visibile dal creato: e quindi sotto l'aspetto religioso è inescusabile il paganesimo d'aver abbassato il concetto divino, ponendo le creature al posto di Dio. L'abbandono alle nefandezze della carne è l'umiliazione dell'uomo rispondente alle umiliazioni inflitte da esso al concetto della Divinità. Ogni vizio v'è in questo paganesimo, che non solo commette il male ma lo loda, pur conoscendo degno di morte chi compie il delitto (I, 18-32).
Ma l'ebreo che, forte della Legge e d'una coscienza religiosa e morale più elevata, valuta con severità il mondo pagano, erigendosi a suo giudice, non è migliore. Commette anche egli quello che rimprovera al paganesimo. In tal caso né la circoncisione né la discendenza da Abramo possono giustificarlo dinnanzi a Dio, che è padre unico e giudice giusto di tutte le genti. Nessuno, nemmeno uno, è giusto dinnanzi a Dio, e nessuno può gloriarsi della sua vita dinnanzi a lui (II-III, 20).
Alla giustizia divina allora si può sfuggire solo mediante un condono delle colpe umane. Esso è stato ottenuto per la morte di Cristo, il Figlio di Dio incarnato; il sacrificio volontario di lui è espiazione e propiziazione per gli uomini peccatori.
Per sua natura il condono è grazia, non dovuto ad opere proprie, ché altrimenti non sarebbe più grazia, Paolo però pone come esigenza la fede: occorre infatti un minimo per congiungersi spiritualmente a Cristo, cioè credere in lui e nel suo sacrificio (21-31). Abramo stesso, il tipo del giusto per il mondo giudaico, ebbe la giustificazione e le promesse messianiche per la fede, non per le opere proprie (c. V).
All'obiezione che il merito e il demerito sono personali e non trasmissibili, Paolo risponde col richiamo alla Bibbia. Da uno solo, Adamo, derivò ai molti la morte, ed il castigo universale presuppone una trasmissione universale del peccato.
Se da uno a molti è trasmissibile il demerito, tale deve essere anche il merito. È la suprema carità quella del giusto che si offre in espiazione per un delinquente: carità senza esempio, perché a mala pena si trova nel mondo chi voglia esporre la vita per una persona buona (c. V).
Il perdono divino però non giustifica, se non accompagnandosi a un rinnovamento di vita. Il rito della fede, il battesimo, ci immerge misticamente nella morte di Cristo per farci risorgere con lui a una vita di santità; la servitù del peccato cessa per la emancipazione del bene.
L'ideale cristiano rifulge alla mente di Paolo: l'antico uomo è morto, vi è una vita del tutto novella (c. VI). Ciò non solo come frutto della propria volontà e dei proprî sforzi (poiché si cadrebbe allora nel sistema deprecato della Legge), ma per una nuova forza divina che rompe i legami del peccato. Lo "Spirito di Dio", solo, rinnova l'uomo.
La società pagana non fu rinnovata e non era rinnovabile dalla filosofia, come non vi bastò la Legge mosaica, che dava la conoscenza del dovere al mondo ebraico. Gli Ebrei erano in una condizione pnvilegiata, in quanto la Legge che essi avevano rendeva loro noto dove fosse il peccato. Se i pagani avevano nella propria coscienza la legge del loro operare, la Legge mosaica dava agli Ebrei una cognizione più perfetta di ciò ch'era proibito.
Non basta però conoscere il male per evitarlo ed il bene per compierlo. Una migliore conoscenza delle colpe aumenta la colpevolezza: una proibizione è per l'uomo un incitamento ad infrangerla. D'altronde la legge non è ministra di perdono o di vita, ma di condanna a morte per chi la infrange.
La conoscenza del retto operare, che dovrebbe bastare pei l'uomo ragionevole, non basta nella realtà. Il peccato domina in noi, nella nostra carne. È in noi il desiderio del bene acuito dalla Legge che è santa e spirituale, ma c'è un'altra legge nelle nostre membra che ci avvince e ci trascina al male. Vi sono in noi due persone, l'io spirituale e l'io carnale: questo prevale quasi fossimo venduti al peccato (VII, 5-25).
Nel cristianesimo non c'è solo una legge dello spirito e una interpretazione spirituale della Legge, ma la forza rinnovatrice dello Spirito di Dio. Lo Spirito che noi abbiamo in grazia di Cristo ci dona vittoria nella lotta: esso è inoltre garanzia della nostra resurrezione fisica al termine della storia umana. Lo Spirito ci suggerisce come pregare e trattenerci con Dio: per lui noi siamo creature nuove, uomini nuovi creati da Dio; per lui sentiamo questa confidenza di chiamarci figli di Dio e quindi eredi di Cristo. Il creato stesso, cui Paolo dona persona, attende impaziente il rivelarsi della gloria della nostra filiazione. Anch'esso assoggettato per violenza alle vanità ed al male, aspetta gemendo la propria liberazione: come l'uomo redento prega il raggiungimento della propria speranza con gemiti interiori che lo Spirito suggerisce. Lo svolgimento termina con un inno alato al legame indissolubile dell'amore di Cristo, cui non potranno sciogliere "né la morte né la vita, né Angeli né Principati né Virtù, né il futuro, né la forza, né l'altezza o il profondo, né altra creatura mai".
Questo canto trionfale d'amore è spezzato dal dolore di Paolo per l'incredulità d'Israele, cioè del popolo ch'è suo e di Cristo. Egli s'attarda nello scrutare gl'ininvestigabili disegni divini per cui il popolo "della promessa messianica" viene escluso dalla promessa. Gli eventi dei popoli non sfuggono all'eterna conoscenza di Dio, come non esorbitano dalla sua volontà: ma questa per vie misteriose non toglie la colpa, e quindi la libertà umana. L'Israele della promessa non è l'Israele della carne, ma quello che segue lo Spirito: quello che ebbe e che ha fede in Dio. Il Vangelo, respinto dagli Ebrei, si predicò con maggior ardore alle genti ottenendovi largo accoglimento. I gentili furono come un ramo d'olivo selvatico innestato sulla "radice santa" rappresentata da Israele, mentre il tronco è abbattuto. Sorride però all'apostolo il giorno in cui anche Israele si convertirà. Dio racchiuse tutti nell'incredulità per avere di tutti pietà (c. IX-XI).
Seguono quattro capi di mirabili esortazioni morali, cui preparava del resto il contenuto della lettera (c: XII-XV). Fra gl'insegnamenti morali, sviluppata in modo speciale è l'obbedienza all'autorità civile. "Non c'è potere fuori che da Dio", e quel potere è un mistero divino per il bene dei sudditi. Riconosciuta come "ordinata da Dio" è l'autorità di Roma, non menzionata espressamente ma chiaramente indicata (XIII,1). La pienezza della legge è l'amore (XIII, 10). Conchiude un capo intero di saluti (c. XVI).
Dottrine particolari. - In margine a questo schema generale, nella parte dottrinale si affollano questioni particolari: ad esempio sul significato della circoncisione e della legge mosaica, che è quanto dire del singolare fenomeno religioso ebraico nell'economia provvidenziale del mondo: sull'interpretazione delle origini della decadenza religiosa e morale dell'umanità e dei disegni divini nel suo apparente abbandono (I, 18-28; XI). Vi è cioè, nelle affioranti questioni di scuola e tendenze, un'ampia visuale di filosofia, naturalmente religiosa, della storia umana, che si apre su abissi insondabili nella ricerca della predestinazione divina dei popoli.
I capitoli IX-XI sono tra i più difficili dell'epistolario di Paolo: per una retta intelligenza non bisogna dimenticare che si tratta dei disegni di Dio, non sugl'individui, ma sui popoli; ciò in relazione al problema postosi dall'apostolo, perché mai il popolo d'Israele nel suo complesso si escludeva dalle benedizioni messianiche con la reiezione di Cristo.
La decadenza morale dell'umanità è riallacciata secondo la Bibbia alla colpa del primo uomo, Adamo. La disobbedienza di Adamo non solo apportò nell'uomo la morte e il peccato, di cui la morte è pena, ma lasciò in lui un germe di male, per cui dominò nella carne dell'uomo il peccato. La lotta penosa dell'uomo che sente in sé quasi due leggi opposte, dello spirito e della carne, e il dominio prepotente di questa, è disordine prodotto da quel primo disobbedire alla legge. La tesi, nelle sue grandi linee, è fondamentale per il dogma cristiano della redenzione (v.), concepita non solo come una soddisfazione alla giustizia divina, ma come restaurazione dell'uomo nelle condizioni primigenie.
Tale restaurazione, non completa nel tempo presente, in quanto rimangono la morte e la violenza della concupiscenza, è sovrabbondante nell'ordine spirituale e nella partecipazione all'eredità di Cristo. La morte, che Cristo stesso subì, fu vinta dalla sua resurrezione, alla quale i credenti parteciperanno; e le passioni umane sono neutralizzate e superate dallo Spirito di Dio effuso nei cuori.
La penetrazione psicologica dell'individuo è profonda e descritta con la massima vivacità ed energia, e altrettanto profondo è il giudizio sulle condizioni morali e religiose umane: quelle pagine hanno avuto larghissima influenza sulla vita spirituale dei secoli cristiani. La teologia del cristianesimo è fondata in notevole parte sul contenuto della lettera.
Origine delle più vivaci discussioni sono state talune espressioni della lettera riguardo ai rapporti tra grazia (v.) e libero arbitrio, alla natura del peccato originale ed ai suoi effetti nell'uomo irredento, al concetto della predestinazione.
Una tesi sul cui significato si divisero protestanti e cattolici è quella della giustificazione per la fede. Le parole di S. Paolo suonano così: "Pensiamo che l'uomo sia giustificato per la fede, senza le opere della Legge" (III, 28; cfr. Gal., II, 16), che completano le frasi precedenti: "perché per le opere della Legge non è giustificato alcun vivente dinnanzi a Lui (Dio)". Su tali concetti v. grazia; lutero; paolo, santo; predestinazione.
Questioni critiche. - L'autenticità della lettera è oggi universalmente riconosciuta, benché nel passato qualcuno l'abbia negata in tutto o in parte. La negarono l'Evanson e B. Bauer nella prima metà del secolo scorso; il Van Manen ritenne che la lettera fosse interpolata, e il testo vero sarebbe quello di Marcione, che i Padri ecclesiastici contemporanei o immediatamente seguenti accusarono di essere mutilato. Tali voci sono rimaste però isolate, per l'unanimità delle testimonianze antiche a favore della genuinita. Alcune singolarità della tradizione testuale hanno piuttosto occasionato qualche dubbio sulla genuinità della dossologia finale (XVI, 25-27) e sugl'interi due ultimi capi. La dossologia finale nei principali manoscritti unciali, nelle versioni Volgata, Pescitta, copta, ecc. è collocata alla fine del c. XVI, mentre molti corsivi ed alcuni Padri antichi la collocano alla fine del c. XIV.S. Girolamo afferma che la dossologia esisteva in plerísque codicibus; donde si deduce che in alcuni codici del suo tempo mancava completamente.
D'altra parte Origene accusa Marcione d'aver tagliato dalla lettera quanto segue le parole "Tutto ciò che non è dalla fede è peccato" (XIV, 23) e Tertulliano (Adv. Marcionem, V, 14) pone le parole "tribunale di Cristo" (XIV, 10) alla chiusura della lettera. Quindi nei codici marcioniti, e forse in altri, i due ultimi capitoli non esistevano. Da tali incertezze del testo F.C. Baur giunse a negare la genuinità di questi, mentre il Renan preferì considerare la lettera come una circolare destinata a diverse comunità, distinguendo dal blocco diretto ai Romani alcuni capitoli diretti agli Efesini, ai Tessalonicesi ed altri a chiesa ignota. I più si limitarono a congetturare che fosse parte d'una copia diretta ad Efeso la lista delle persone salutate, XVI,1-21; sembrò infatti strano che Paolo avesse tante conoscenze a Roma, dove non era mai stato; d'altronde Aquila e Priscilla alcuni mesi avanti la data della lettera erano ad Efeso (I Cor., XVI, 19), dove si trovavano ancora dopo il 63, secondo II Tim., IV, 19; un codice, il Bornerianus, omette in I, 7, 15 il nome di Roma. L'idea più corrente è tuttavia ancora l'antica. Paolo poteva avere ottime ragioni, presentandosi per lettera a una comunità nuova, di ricordare tutte le conoscenze che vi aveva: quanto ad Aquila e Priscilla erano, come un po' tutti i Giudei del tempo, in movimento frequente se non continuo. Essi lasciarono profondo ricordo a Roma, se S. Prisca sia da identificarsi con la Priscilla menzionata da S. Paolo. In nessuna parte v'è indicazione di Efeso nei manoscritti: e l'omissione del nome di Roma nel codice Bornerianus si riscontra nei capitoli che tutti ammettono diretti all'Urbe. È comprensibile come alcuni copisti, specialmente in manoscritti destinati alla lettura liturgica, abbiano tralasciato i due capitoli finali, i quali si riducevano in gran parte a complimenti che non erano più d'attualità: di qui anche il fenomeno dello spostamento della dossologia, che si volle conservare in ogni modo come chiusura della lettera.
Bibl.: Primo commento alla lettera fu quello d'Origene, di cui conosciamo pochi frammenti greci e una versione riassuntiva latina di Rufino. Tra i Greci notevoli sono le omelie di S. Giovanni Crisostomo. Nella latinità ebbero la maggior influenza i commenti del cosiddetto Ambrosiastro, e di Pelagio, pubblicato questo in Migne (Patr. Lat., XXX, coll. 645-718) e riconosciuto ora di lui, benché rimaneggiato. Per la ricostruzione del testo primitivo v. M. Souter, The Commentary of Pelagius on the Epistles of Paulus, Londra 1907. S. Agostino non vi dedicò che poche pagine. Nel Medioevo S. Tommaso d'Aquino commentò, con le altre epistole di S. Paolo, anche quella ai Romani, come lavoro preparatorio alla Summa Theologica. Nella Riforma la lettera fu base di discussioni frequenti. Per le origini del pensiero di Lutero, notevoli le sue lezioni del 1515-16 (cfr. G. Ficker, Luthers Vorlesung über den Römerbrief, 1515-16, I: Die Glosse; II: Scholien, 2ª ed., Lipsia 1923). Notevoli ancora, tra quelli dei riformatori, sono i commenti di Melantone e di Calvino. Dei numerosi commentarî recenti sono a notarsi: B. Weiss, Der Brief and die Römer, 8ª ed., Gottinga 1891; R. Cornely, Epistola and Romanos, Parigi 1896; W. Sanda e A. C. Headlan, The Epistle to the Romans, 5ª ed., Edimburgo 1905; K. Barth, Der Römberbrief, 2ª ed., Monaco 1923; Th. Zahn, Der Brief des Paulus an die Römer, 3ª ed., Lipsia 1925; O. Bardenhewer, Der Römerbriefe des hl. Paulus, Friburgo 1926; M. J. Lagrange, Épître aux Romains, Parigi 1931; H. Lietzmann, An die Römer, 4ª ed., Tubinga 1933. - Su punti particolari: Fr. W. Maier, Israel in der Heilgeschichte nach Rom. IX-XI, Münster 1929; R. Schumacher, Die beiden letzten Kapitel des Römerbriefes, ivi 1929; E. La Piana, La lettera ai Romani e la primitiva comunità romana, in Ricerche religiose, I (1925), pp. 210-226, 305-326.