DIOGNETO, Lettera a
È uno dei più antichi e suggestivi scritti dell'antichità cristiana, "la cosa più scintillante che sia stata scritta in greco dai cristiani" (Norden). Più che un'apologia vera e propria può considerarsi come il ponte di passaggio fra la letteratura subapostolica e quella apologetica del sec. II (v. apostolici, padri; apologetica). Ai Padri Apostolici si ricollega soprattutto per l'intensita dell'esperienza religiosa che essa rivela; dagli apologisti si distacca per l'assenza completa di un'impostazione intellettualistica dell'apologia.
Lo scritto è in forma di lettera diretta a un tal Diogneto, da alcuni identificato con lo stoico che fu uno dei maestri di Marco Aurelio; si è pensato anche con una certa audacia che Διόγνητος ("generato da Giove") sia, anziché un nome proprio, l'attributo di qualche imperatore (Adriano?) cui l'apologia sarebbe stata indirizzata. L'argomento dello scritto è enunciato dall'autore (cap. I) in un piano cui si mantiene in seguito sostanzialmente fedele: egli intende esporre "in quale divinità i cristiani ripongano la loro fiducia e come, dirigendo a essa il loro culto, tutti concordemente tengano a vile il mondo, sfidino la morte, non reputino dei quelli che sono ritenuti tali dagli Elleni, né rispettino la superstizione giudaica; quale vincolo di affetto li leghi vicendevolmente e per quale ragione infine un simile nuovo genere di uomini e una tal foggia di vita siano apparsi al mondo ora e non prima". La parte più notevole della lettera è però l'illustrazione che l'autore fa (cap. V-VI) dell'esperienza e della vita cristiana dilungandosi a illustrare in una pagina mirabile il perfetto parallelismo fra la funzione dell'anima nel corpo e quella dei cristiani nel mondo. Con il capo X la lettera potrebbe dirsi conclusa sull'esortazione rivolta a Diogneto di abbracciare la nuova fede: i due capitoli finali (X-XI) sono difatti dai critici concordemente (tranne il Kihn) ritenuti spurî.
La lettera ci è stata trasmessa in un solo manoscritto di Strasburgo, del 1300 circa, distrutto nel 1870; tracce di essa sono completamente assenti nella letteratura cristiana, ciò che complica il problema della paternità e della data di composizione della lettera, dal manoscritto attribuita infondatamente a Giustino e come tale pubblicata dal suo primo editore Enrico Stefano. Molte, quindi, le ipotesi, spesso assurde (si è pensato persino a una falsificazione del sec. XVI): per l'autore si sono fatti i nomi di Apollo, Clemente Romano, Aristide, Quadrato, Marcione, Apelle; per la data, si è sceso fino in epoca post-costantiniana senza tener conto che nella lettera vi sono indubbî accenni a una persecuzione (è questo anzi l'unico termine ad quem che abbiamo per datarla). Le ipotesi più legittime tendono a riferire la lettera a uno scrittore di tendenze marcatamente paoline, vissuto nella prima metà del secondo secolo. Circa l'autore degli ultimi due capitoli l'ipotesi più probabile è che essi siano opera di Ippolito Romano.
Ediz.: Oltre l'editio princeps dello Stefano (Parigi 1592) e le raccolte dei Padri Apostolici, vedi le due edizioni curate da J.C. Th. Otto: nell'edizione delle opere di Giustino (II, Jena 1843) e nel Corpus Apologetarum (III, 3ª ed., Jena 1879 pp. 158-211); quelle curate da K. Lake (in The Apostolic Fathers, testo e trad. inglese, Londra 1917); E. Buonaiuti (testo e trad. italiana, Roma 1921); J. Geffcken (testo e trad. latina, Heidelberg 1928).
Bibl.: Oltre quella citata da O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchlichen Litteratur, I, 2ª ed., Friburgo in B. 1913, pp. 316-325; e da E. Buonaiuti, nella prefazione all'ed. cit., v.: J. Geffcken, Der Brief and Diognetos, in Zeitschrift für Kirchengesch., I (1924), pp. 348-350 e l'introduzione all'ed. citata.