Vedi LEPTIS MAGNA dell'anno: 1961 - 1995
LEPTIS MAGNA (v. vol. iv, p. 572)
Con l'inizio degli anni Sessanta può considerarsi chiusa la seconda, intensa stagione della storia degli scavi di L., protrattasi per un decennio sotto la direzione di E. Vergara Caffarelli (1951-1961). I criteri che hanno presieduto all'indagine sul terreno sono ancora quelli di prima della guerra: scavo estensivo, sterro delle arterie principali ed esplorazione sistematica degli edifici pubblici più rappresentativi. Vennero liberati dalla sabbia il tratto O del decumano, la strada che da questo conduce al teatro e il suo prolungamento fino all'altezza della parte posteriore dei due templi maggiori del Foro Vecchio. Lungo il decumano furono portate alla luce le strutture del c.d. Tempio anonimo e del tetrapilo di Marco Aurelio. Lavori di restauro vennero condotti a Porta Oea: dalle dediche frammentarie si apprende che l'originario fornice monumentale venne dedicato ad Antonino Pio e ai suoi figli adottivi; statue di Marco Aurelio e Lucio Vero dovevano coronarne l'attico. Notevoli sono i resti della decorazione architettonica: oltre all'egida con la testa di Medusa e al frammento con la Vittoria, una serie di rilievi con girali di acanto abitato di eccellente fattura, alcuni dei quali furono reimpiegati nei portali della Moschea di Sidi Fergani, non distante da Leptis.
Indagini interessarono anche l'edificio pubblico all'angolo tra la strada principale e il decumano massimo (priva di fondamento ne è l'identificazione come sede - schola - di un collegium)·, caratterizzato dalla presenza all'interno di numerosissime basi di statue, può risalire ai primi decenni del II sec. d.C. Scavi di notevole estensione sono stati effettuati lungo la strada litoranea e il quartiere lungo la costa a O del Foro Vecchio dove, oltre all'edificio templare a corte sul mare, furono messi in luce un grande complesso termale e il Santuario di Serapide. Fu inoltre intrapreso sotto la direzione di A. Di Vita, insieme allo sterro del vicino circo, lo scavo dell'anfiteatro, successivamente portato a termine dalla locale Soprintendenza, che ne ha curato il restauro. Si tratta di scavi rimasti sostanzialmente inediti: missioni italiane attendono oggi allo studio e alla pubblicazione di alcuni di questi complessi. Inediti sono anche i saggi condotti negli anni Cinquanta nell'area della Curia che avrebbero potuto fornire indicazioni sugli strati preromani della città; da essi proviene l'importante iscrizione neopunica, databile entro la prima metà del I sec. a.C., attestante una diade divina costituita dal «signore» Šadrafa e da Milk'aštart, «patroni di Leptis». Nel panorama di quegli anni costituiscono un'eccezione le indagini condotte tra il 1952 e il 1958 da R. Bartoccini nel porto, a prosecuzione dello scavo intrapreso nel 1924, e nell'area del Foro Nuovo, i cui risultati furono resi noti con sollecitudine.
Per la nuova attenzione prestata agli insediamenti tardi, di norma rimossi al fine di liberare gli edifici da strutture non pertinenti ai loro impianti originarî, un radicale cambiamento di rotta nell'indirizzo della ricerca sul terreno è rappresentato dallo scavo stratigrafico del Tempio Flavio, presso la banchina O del porto, intrapreso fin dal 1964.
L'incessante incremento urbanistico della vicina cittadina di Ḥoms, situata a poco più di 2 km a O di L., e l'installazione di moderne attrezzature nel circondario rurale hanno condotto la Soprintendenza a concentrare gli sforzi in interventi di emergenza e nel salvataggio delle opere antiche al di fuori dell'area di scavo già protetta, lungo la costa (ville marittime) e nell'immediato entroterra: ininterrottamente dagli anni Sessanta è venuto alla luce un cospicuo numero di sepolture ipogee, con i corredi funerarî intatti, nella quasi totalità ancora inedite.
Le fasi più antiche dell'insediamento. - Agli inizî degli anni Sessanta sondaggi effettuati da una missione americana presso l'angolo NE del Foro Vecchio hanno portato alla luce, a 4 m di profondità sotto la massicciata romana, resti di un edificio in pietra parallelo alla costa: l'associazione con ceramica databile al 650-500 a.C. aveva condotto alla conclusione che L. sarebbe stata impiantata come colonia «fenicia» alla fine del VII sec. a.C. (e di colonizzazione fenicia parlano anche le fonti letterarie ed epigrafiche). La presenza nei corredi della fase arcaica della necropoli sotto il teatro di ceramica di tradizione tardo-corinzia e di fabbrica italo-corinzia, attestante relazioni commerciali con l'Etruria, indurrebbe tuttavia a porre la datazione del più antico abitato stabile alla foce dello wādī Lebda non anteriormente alla fine del VI sec. a.C.; non è comunque escluso che già sullo scorcio del secolo precedente fosse stato impiantato uno scalo a frequenza stagionale. Certo è che L., posta allo sbocco a mare di un'antica via di comunicazione con l'interno, sia da mettere in relazione con gli interessi commerciali cartaginesi. Alla fine del VI sec. la trasformazione dell'insediamento in struttura abitativa organizzata potrebbe anche venir letta come «risposta» di Cartagine alla minaccia che aveva rappresentato il tentativo di Dorieo di fondare una colonia spartana presso il Cinyps. Dalla fine del VI al III sec. a.C. si estendono i complessi ipogei della necropoli, a più camere scavate nella roccia servite da un pozzo di accesso; il rito è a inumazione. Preponderante nei corredi della prima metà del V sec. è la presenza di ceramica attica a vernice nera; anche nelle sepolture dalla seconda metà del IV fino alla prima metà del III sec. a.C. è abbondante la ceramica di importazione (e di imitazione) attica. L'assenza di esportazioni dalla Magna Grecia (i soli vasi provenienti dall'Italia sono le coppe «à petites estampilles» di produzione laziale) confermerebbe che in questa epoca è ancora la ceramica attica a detenere il primato dell'importazione.
La città prima di Roma e le tradizioni puniche. - Si devono ad A. Di Vita le più approfondite indagini sulla conservazione del retaggio culturale punico ben addentro l'età imperiale: lingua, istituzioni cittadine (in primo luogo la magistratura dei sufeti che perdura anche dopo che la città ricevette sotto Vespasiano lo statuto municipale), culto di Tanit, preminenza della diade formata da Šadrafa e Milk'aštart, dii patrii della città, ai quali è molto probabile che siano stati originariamente dedicati i due templi maggiori del Foro Vecchio. Tale persistenza si manifesta anche nel protrarsi dell'uso dell'unità di misura punica: molti sono infatti gli edifici in cui, pur dimensionati secondo il piede romano, i blocchi di pietra risultano tagliati sul cubito punico di cm 51,6. Alla tradizione punica è stato pure riferito il «cortile» del Tempio di Augusto e Roma e l'impianto del tempio a corte sul mare. La spiegazione che è stata data di questo conservatorismo è convincente: entrata come gli altri empori della Tripolitania dopo Zama nell'orbita amministrativa del lontano regno numidico, L. non conobbe, neanche dopo Thapsos, deduzioni di veterani o di contingenti civili di cittadini romani. La persistenza delle tradizioni puniche vuol al contempo dire, nel campo dell'architettura, presenza di una forte componente ellenistica. Ancora a Di Vita va il merito di aver messo in luce quanto la cultura architettonica e figurativa dell'ultima Cartagine punica fosse tributaria della civiltà ellenistica, e pertanto quanto marcata sia anche nella regione degli empòria tripolitani la componente ellenistica: mediata da Cartagine o, forse più verosimilmente, pervenuta direttamente da Alessandria. Anche quando è possibile rintracciare immediati confronti in Sicilia e Magna Grecia (p.es. mercato a thòloi centrali di Morgantina che, risalendo alla metà del II sec. a.C., rappresenta l'esempio più antico di questo tipo; capitelli ionici di Solunto), invece che di modelli «diretti» è più opportuno parlare di un'ampia koinè della pratica architettonica ellenistica comune a queste regioni come all'Africa punica. Dopo la conquista romana del 241 a.C. i contatti del mondo cartaginese con l'Italia meridionale e la Sicilia devono infatti essersi, se non annullati, almeno drasticamente ridotti.
Su modelli ellenistici venne attuato l'impianto urbanistico per strigas della città, la cui programmazione è stata fatta risalire fra il II e i primi decenni del I sec. a.C.: la disposizione, di tradizione ippodamea (a confronto è stato richiamato l'impianto urbano di Alessandria), consisteva in una serie di arterie parallele incrociate da un numero minore di grandi platèiai, formanti stretti e allungati lotti rettangolari, disposti con il lato corto sull'asse stradale principale. Di questo impianto regolare l'area del Foro Vecchio costituisce parte integrante: coevi a questa più antica pianificazione urbana sarebbero i due templi maggiori sul lato NO (essi o i loro antecedenti), estesi ciascuno per la lunghezza di un isolato, originariamente dedicati alle divinità poliadi della L. punica. Desunta da modelli ellenistici è anche la primitiva stoà doppia contigua a SO alla facciata principale del mercato, edificata in calcare di Ra's el-Ḥammām quando, sotto Tiberio, si provvide alla pavimentazione della città.
Lo sviluppo urbanistico di L. in età romana. - Tema centrale nella ricerca di J. B. Ward Perkins e di A. Di Vita è la definizione del progressivo ampliamento della città romana dal primitivo nucleo punico e della sua pianificazione urbanistica tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. Contraria all'opinione largamente diffusa, che l'espansione programmata di L. sia avvenuta solo nella prima età augustea è la tesi di Di Vita, secondo cui già alla fine del II sec. a.C. si può parlare di una pianificazione urbanistica; ben più antica dell'età augustea andrebbe pertanto ritenuta l'originaria sistemazione monumentale del Foro Vecchio. Da riportare a epoca augustea sarebbero solo la ricostruzione del tempio al centro del lato NO, in origine dedicato a Milk'aštart, destinato ora ad accogliere il culto di Roma e Augusto (al 14-19 d.C. data la sistemazione statuaria), e la conseguente realizzazione del piccolo edificio all'angolo Ν del foro, in cui sarebbe stato ospitato quello di Milk'aštart/Ercole. A questo tempio, la cui seriorità rispetto ai due maggiori è già dichiarata dalla eccentricità della fronte rispetto all'area del foro, è stata riferita l'iscrizione in lettere di bronzo di Cn. Calpurnius Piso (IRT, 520) incisa sull'antistante lastricato: essa avrebbe inteso ricordare che il proconsole aveva provveduto, nei primi anni dell'era volgare, all'inaugurazione del nuovo edificio.
Se il Foro Vecchio costituì, nella progressiva espansione che già in età tiberiana portò l'abitato di L., con l'erezione della porta Augusta Salutaris, al margine della grande arteria Cartagine-Alessandria, la più antica cerniera monumentale (tra i vecchi quartieri lungo il mare e il primo impianto per strigas dei nuovi isolati costruiti fino all'altezza del mercato), una successiva cerniera, realizzata sul volgere dell'era volgare, deve essere individuata all'altezza dell'area compresa tra il mercato (iscrizione dell'8 a.C.), il teatro (terminato nell'1-2 d.C.) e il Calcidico (11-12 d.C.). È infatti fuor di dubbio che alla fronte monumentale del Calcidico spettasse la funzione di mascherare il cambiamento di inclinazione degli assi dei due lotti successivi di insulae attestati sulla via principale nel loro punto di congiunzione. L'ulteriore espansione urbana deve aver progredito verso O, fino a raggiungere l'arco di Antonino Pio e poi quello di M. Aurelio.
Al tema dell'espansione urbanistica va evidentemente ricondotto anche quello delle distruzioni (e ricostruzioni) causate da terremoti: sulla base dell'individuazione di tre sismi particolarmente violenti, Di Vita propone un'articolazione cronologica della storia urbanistica ed edilizia della città: 1) terremoto risalente alla tarda età neroniana o alla prima età flavia: importanti rimaneggiamenti avrebbero interessato il mercato, mentre nel Foro Vecchio si sarebbe liberato uno spazio per la (ri)costruzione del Tempio della Magna Mater; reimpiego di blocchi di costruzioni giulio-claudie andate distrutte in monumenti flavi, come la Curia e l'edificio inaugurato in prossimità del mercato da L. Nonius Asprenas (IRΤ, 346 e 625); 2) terremoto del 306-310 d.C., cui viene rapportata la caduta in rovina, che le fonti epigrafiche danno ai primi anni del regno di Costantino, di molti edifici pubblici: la basilica vetus e la tripartita porticus intorno al Foro Vecchio (IRT, 467), il quadriportico del mercato (IRT, 468), la stoà dinanzi alla fronte SO del mercato, il Serapeo, la c.d. schola all'incrocio del decumano con la via principale, l'anfiteatro; successiva al terremoto la costruzione con blocchi di recupero della cinta muraria; 3) terremoto e maremoto del 21 luglio 365, cataclisma che gli autori antichi definiscono di portata «universale»: la rottura della diga dello wādī Lebda avrebbe avuto come conseguenza una violenta inondazione (tracce nel Tempio Flavio e nel Serapeo). Come è stato osservato, è tuttavia anche possibile che attorno alla data di questo sisma (la cui ampiezza è comunque fuori discussione) siano stati accorpati dalla cronachistica tardoantica, in considerazione di particolari condizioni storico-politiche, una serie di eventi relativi anche ad anni a questo prossimi.
L'alluvione del 1987 e quella dell'anno successivo hanno portato alla luce strutture pertinenti agli argini dell'alveo dello wādī Lebda e a banchine portuali, oltre a resti di installazioni idrauliche tra il corso d'acqua e la via colonnata (prese per il pescaggio dell'acqua), di cui è attualmente in corso lo studio (A. Di Vita). È infatti ormai certo che, anche dopo la costruzione della poderosa diga a monte della città che costringeva le acque dello wādī a deviare in un canale artificiale risalente, al più tardi, a età adrianea (le grandi terme risultano infatti edificate su un terreno in precedenza periodicamente inondato), un corso d'acqua, a regime ridotto, continuava a scendere verso la città; la diga pertanto, più che destinata a una deviazione totale delle acque, sarà stata costruita per regolamentarne il deflusso. La pubblicazione dei risultati di questa indagine porterà finalmente luce sul complesso problema della canalizzazione dello wādī e della sistemazione del «porto-canale» di età tardo-claudia o neroniana.
Fenomeno legato alla crescita della città è quello dell'importazione del marmo, di cui la Tripolitania è sprovvista. L'uso del calcare travertinoso grigio, estratto dalle cave di Ra's el-Ḥammām (attivate verosimilmente negli anni finali del I sec. a.C.), si interruppe sotto Adriano a causa della massiccia introduzione di marmi di importazione (nelle grandi terme resti di blocchi di pavonazzetto e di giallo antico recano date consolari di età adrianea). All'impiego estensivo del nuovo materiale si collega la pratica della «marmorizzazione» di moltissimi edifici pubblici già esistenti, rimodernati nel II secolo. Al pari del marmo, di importazione può definirsi anche lo stile della scultura architettonica: opera di marmorarii educati nei grandi centri di distribuzione e lavorazione del marmo di area egea, derivata da modelli dell'architettura ufficiale in voga in Asia Minore e, nel livello artigianale, conforme al tipo di produzione standardizzata di età imperiale. Il preponderante approvvigionamento di blocchi dalle cave del Proconneso e il ruolo di primo piano svolto da Nicomedia nel processo produttivo e distributivo del marmo che, dall'estrazione e dal trasporto del materiale, va al reclutamento e all'organizzazione delle maestranze, magistralmente indagato da Ward Perkins, hanno condotto a rivedere l'ipotesi di un'origine caria dei maestri scalpellini attivi nei cantieri severiani (quasi assente d'altronde il marmo di Afrodisiade stando ai risultati delle analisi isotopiche). Il fatto non stupisce se si pensa che le cave proconnesie erano sotto diretto controllo imperiale, come promossa dai Severi e finanziata da Roma era la realizzazione dell'ingente programma architettonico. Dal carico di grossi blocchi di marmo grezzi trasportati su una nave affondata nelle vicinanze del porto di Misurata trae conferma la lavorazione sul posto di tutti i partiti architettonici, mentre l'importazione di manufatti già lavorati dovette limitarsi ai fusti di colonne. Anche se eseguita in loco, certamente «di importazione» è la produzione scultorea leptitana della prima età imperiale (soprattutto statue ideali, ritratti e statue iconiche) a partire dai cicli dinastici di età giulio-claudia, di cui l'inquadramento «di bottega» è strettamente dipendente dalle modalità di approvvigionamento del marmo. È evidente che già in età relativamente precoce (ne fanno fede i ritratti di privati) fossero presenti a L. botteghe di scultori operanti sul posto; ma ciò non esclude che, nel caso di commissioni speciali, si ricevesse da fuori il prodotto già lavorato. Questo vale soprattutto per le statue dei primi cicli dinastici, anche in aspetto di aeroliti, per eccellenti specialità di bottega, riportabili a una produzione definita geograficamente (rilievo con Dioniso e le Horai al museo di Tripoli, uscito da una bottega ateniese; Diana Efesia dall'anfiteatro), e per determinate copie di nobilia opera: è il caso di una testa colossale di Atena, replica del tipo «Medici», da pochi anni venuta in luce dietro le mura bizantine lungo il lato NO del Foro Vecchio, di cui può considerarsi certa la provenienza da un'officina attica attiva verosimilmente in età adrianea che provvedeva il mercato esterno di copie della grande statuaria greca.
L'età araba. - Un modesto insediamento risalente alla prima età araba è venuto alla luce dallo scavo del Tempio Flavio: sulle rovine dell'edificio si impiantò al tempo della dinastia aghlabita (IX-X sec.) un quartiere di ceramisti. È possibile che la zona artigianale installatasi nel bacino insabbiato del porto, messa in luce dall'inondazione del 1987, sia anch'essa da riportare a età islamica.
Complessi singoli. - Teatro. - A circa cinquant’anni dal completamento dei lavori di restauro è uscita per l'impegno dell'allora sovrintendente G. Caputo la pubblicazione dello scavo, del restauro e dell'ingente lavoro di anastilosi del monumento, protrattisi, con l'interruzione della guerra, dal 1937 al 1951. Nonostante le successive aggiunte e modificazioni, il teatro conserva l'originaria struttura augustea, inclusi i sedili di calcare e il portico alla sommità della cavea lungo cui correva l'iscrizione con il nome e la titolatura dell'imperatore. Il progetto iniziale doveva prevedere anche la costruzione del piccolo tempio tetrastilo sulla sommità della cavea, dedicato a Cerere Augusta nel 35-36 d.C. Si è voluta riportare la particolarità del tamburo a superficie piena della parte inferiore del teatro alla tradizione dei monumenti funerari circolari numidici, quali il Medracen e la Tomba della Cristiana; è comunque possibile che il metodo di costruzione, imputabile forse alla mancanza di esperienza nella realizzazione di sostruzioni voltate, si rifaccia al theatrum terra exaggeratum comune nell'Italia repubblicana, che nella penisola perdurò fino all'epoca flavia, mentre in alcune Provincie occidentali è attestato ancora nel II secolo.
È dubbio se l'impianto planimetrico della frontescena, caratterizzata dalle tre profonde esedre curve con protiri tetrastili a inquadramento delle porte, possa ancora risalire al progetto augusteo: quello che è certo è che gli ordini di colonne della frontescena, originariamente di calcare, furono sostituiti da colonne di marmo al tempo del rinnovamento del teatro, completato negli ultimi anni di Antonino Pio (IRT, 534). Attestati nella lunga iscrizione inaugurale di età antoniniana rimontata come architrave del più basso dei tre ordini della frontescena termini tecnici quali proscaenium (la frontescena nel suo complesso) e lacuna, già riferito da Caputo alla cavea. Dalla nuova lettura del tratto di iscrizione al di sopra del protiro della porta regia, molto lacunoso, sembra invece ricavarsi che con lacunae vadano intese le nicchie con gli ornamenta proscaenii, cioè i tetrastili marmorei aventi funzione di protiro delle esedre.
All'epoca del rinnovamento sotto Antonino Pio vanno inoltre riferiti la trasformazione in nicchie e il rivestimento marmoreo delle esedre della fronte del pulpito (riadattate per ospitare una serie di piccole sculture), forse la sostituzione delle originarie colonne del portico in summa cavea con quelle attuali di cipollino e la decorazione marmorea del muro di fondo della porticus post scaenam risalente alla tarda età tiberiana. Di stucco dipinto è la pavimentazione più antica conservatasi dell'emiciclo dell'orchestra a imitazione di un rivestimento a tarsie marmoree: ne sono stati individuati dodici strati, con composizioni geometriche differenti una dall'altra, a testimonianza delle frequenti ridipinture intervenute prima che, verosimilmente sotto Antonino Pio, fosse realizzata una copertura in lastre di marmo. Sul dorso di sette lastre del balteo dell'orchestra furono graffiti, in epoca posteriore a quella della loro messa in opera (92 d.C.), due busti, oltre a tralci d'edera e di miglio (è verosimile il richiamo a sodalità anfiteatrali). Nei due busti si è voluto riconoscere la raffigurazione della Dea Roma e l'immagine barbata di Giuliano l'Apostata. Si può tuttavia sollevare il dubbio che non si tratti, piuttosto, di divinità planetarie: Marte in aspetto giovanile e Giove con l'attributo del globo.
Testimonianze epigrafiche dimostrano che i centotrenta- tre pezzi di scultura provenienti dal teatro, per la maggior parte databili tra il II sec. e l'età dei Severi, non rappresentano che una parte dell'arredo statuario originario. Della statua di Tyche collocata nel tempietto in summa cavea è da verificare la ripetuta assimilazione a Livia. Una serie di ritratti imperiali maggiori del vero doveva essere collocata nella frontescena. In una statua femminile seduta, affiancata dal figlioletto in aspetto di erote, senza nessuna stringente ragione iconografica si è voluta riconoscere un'immagine dell'imperatrice Sabina in veste di Cerere e di Venere. Sono andati perduti i due grandi cicli scultorei severiani a ornamento della cavea. Appartengono al primo quattro basi con dediche a Settimio Severo, Giulia Domna, Caracalla e Geta. Del secondo ciclo restano undici basi che le curie leptitane dedicarono a membri della famiglia di Settimio Severo: in alcuni casi una curia elevò una statua, in altri una statua venne innalzata da due o anche tre curie. L'ipotesi di una relazione topografica tra statua e posti destinati alla curia dedicante non sembra sostenuta dalla posizione di caduta delle basi, che piuttosto ne indicherebbe il crollo dal portico sulla sommità della cavea.
Un abitato si installò nel teatro nella prima metà del V sec.: occupato da ricoveri precari, sembra che il monumento sia in qualche modo sopravvissuto fino al momento della riconquista giustinianea, allorquando la maggior parte della città, esclusa dalla cinta muraria, velocemente venne inghiottita dalla sabbia.
Calcidico. - La chiave per l'interpretazione del complesso è fornita dall'iscrizione monumentale tre volte ripetuta sull'architrave lungo il prospetto dell'edificio sulla strada principale. Le iscrizioni laterali attestano che Iddibal Caphada Aemilius, Himilis filius, costruì a sue spese calchidicum et porticus et portam et viam, mentre nel tratto centrale, in corrispondenza del sacello, viene ricordata la loro dedica al numen di Augusto da parte dei XV viri sacrorum (IRT, 324). Si conserva traccia delle basi del colonnato originario lungo la fronte della costruzione (11-12 d.C.), prima della sostituzione con colonne di cipollino di ordine corinzio; alle estremità Ν e S erano pilastri angolari con semicolonne su basi cuoriformi, molto prossime a quelle del tempio Nord nel Foro Vecchio. Alla parete di fondo del tempietto, dedicato verosimilmente al Numen di Augusto, sono addossate due basi, su una delle quali è probabile che fosse collocata la statua di Augusto di cui è conservato il ritratto del tipo «Azio». Con il termine «calcidico» si deve intendere una struttura porticata con funzione di vestibolo, che precedeva edifici di vario carattere, collegata a essi ma al contempo autonoma, costruita a completamento e rettifica di uno spazio: il portico con al centro il tempietto avrà pertanto imposto una facciata monumentale al corso della strada. Su tre lati della piazza, dietro il vestibolo, è stato restituito il porticato (porticus duplex) menzionato nell'iscrizione, con colonne di arenaria e capitelli ionici nell'ordine centrale, tuscanici all'esterno. Di Vita ha avanzato la proposta di identificare nel braccio SE del portico un criptoportico a due navate, trasformato in una cisterna nel IV sec. io più tardi.
Terme di Adriano. - È da abbassare di dieci anni la tradizionale cronologia del completamento dei lavori: sulla base della revisione della datazione del proconsolato di P. Valerius Priscus l'iscrizione dedicatoria (IRT, 361) va infatti riportata al 137 d.C. Testimonianza fondamentale per i rifacimenti di età commodiana l'iscrizione frammentaria in cui viene ricordato un insieme di lavori di radicale ristrutturazione offerti da un notabile locale nella cella frigidarii e nel vasto corridoio perimetrale che la circonda (crypta), oltre al restauro e all'accrescimento del numero delle statue esposte nelle sale non riscaldate (IRT, 396). Il termine crypta va inteso nell'accezione di ambulatio tecta: si tratta di un dispositivo caratteristico delle terme leptitane che in maniera originale varia il modello delle grandi terme urbane.
Tempio anonimo sul decumano. - In mezzo a una corte circondata su tre lati da un porticato a colonne sorge l'edificio templare, addossato alla parete di fondo del recinto e preceduto da un altare. Il tempio è di tipo italico, su alto podio, con scalinata; nella cella quattro pilastri. Dal decumano si accedeva alla corte per mezzo di una bassa e lunga gradinata; sulla fronte del recinto, in calcare, si aprivano tre porte con prospetto a colonne. Il complesso risale all'età degli Antonini. Pianta del tempio e recinto porticato di modesta estensione appartengono a una tipologia altrimenti attestata in Africa, e ben documentata in Tripolitania. La presenza alle estremità dei bracci laterali del porticato di esedre absidate apparenta strettamente l'edificio al Tempio di Ercole e a quello «della divinità ignota» a Sabratha (v.), entrambi di II sec. d.C. Nella concezione d'insieme la disposizione del complesso mostra affinità con quella del Serapeo.
Tetrapilo di Marco Aurelio. - Fu edificato in marmo proconnesio al limite occidentale del decumano massimo, c.a 200 m a O di quello di Antonino Pio, in un'area nel corso del I sec. d.C. destinata a necropoli. L'iscrizione con dedica a Marco Aurelio, conservata in due esemplari (doveva essere ripetuta sui due lati della strada), è incisa su blocchi di marmo che costituivano l'architrave dell'arco. Data al tempo del proconsolato di Gaio Settimio Severo (174 d.C.), parente dell'imperatore, quivi menzionato come legato propretore. Della struttura rimangono le basi dei quattro piedritti, mentre della decorazione del coronamento (dall'iscrizione sappiamo che l'arco doveva presentarsi adorno di statue) pressoché nulla è conservato.
Santuario a corte sul mare. - L'edificio consiste in un vasto cortile circondato su tre lati da un portico a colonne, con facciata monumentale sul lato del mare; al centro del lato opposto alla facciata si apre, affiancato da due vani minori, un ambiente di culto. Le pareti di quest'aula erano articolate in nicchie, destinate a ospitare statue. Tre portali, chiusi in alto da una piattabanda, si aprivano sulla facciata a pilastri, che presentava un partito di finte porte con gli stipiti profondamente sagomati. Si accedeva al cortile da due corridoi, comunicanti tramite porte con la via litoranea. È accettata la datazione dell'edificio in età traianea, mentre da accantonare ne è l'identificazione con la Basilica Ulpia menzionata in un'iscrizione del IV sec. d.C. (IRT, 543). Affinità di pianta sono state indicate nel Tempio di Apollo a Bulla Regia (del 34-35 d.C.), in quello di Sbeitla (Sufetula) poi trasformato nella chiesa di Servus, in quello di Saturno a Thugga (195 d.C.): in tutti troverebbe impiego l'antica forma del santuario a corte di tipo orientale, trasmessa al mondo punico, consistente in un recinto sacro sub divo su un lato del quale si apre il piccolo santuario interno, sovente articolato in tre sacelli. È già stata rilevata infine l'analogia della pianta con l'edificio all'angolo SO del Foro Vecchio, datato al 152-153 d.C. (IRT, 370), di cui molto dubbia è l'identificazione come sacello di Antonino Pio: l'attributo Aug[ustus/a] attestato nell'iscrizione può infatti ben riferirsi a una divinità.
Terme di epoca tarda sul mare. - Diverse fasi caratterizzano il complesso di costruzioni sorte in quest'area: per grandiosità di scala la più notevole è quella relativa all'edificio termale tardo,, abbandonato prima che fosse portato a compimento. A esso spettano le imponenti strutture aggiunte sui lati E e O di un preesistente impianto termale, in parte riutilizzato. Di questo rimangono gli ambienti riscaldati (tepidarium e calidarium) (B); il frigidarium venne demolito quando fu costruito l'edificio esagonale. Conservato anche l’apodyterium (C): la pertinenza delle colonne all'impianto primitivo pare esclusa dal loro collegamento con pilastri che incorporano basi riutilizzate. L'edificio «a pianta stellare» del complesso termale tardo (A), composto da un esagono esterno con pianta radiale all'interno, coperto da una grande volta in conglomerato con ricorsi di mattoni, avrebbe dovuto svolgere la funzione di calidarium: era inteso ospitare al centro l'ipocausto e vasche di acqua calda nei recessi. Lo scavo ha raggiunto il piano di spicco delle mura dell'esagono, ben al di sotto dell'originario livello pavimentale, con la conseguenza che le due porte di collegamento con il blocco Β risultano ora sospese nel vuoto a c.a 3 m di altezza. Come collegamento ai praefurnia vanno intesi i sei passaggi aperti nella parte bassa dei muri, originariamente sotto il livello pavimentale. Il nuovo frigidarium (D) consiste in un salone rettangolare a tre navate, con copertura a volte. Piscine erano collocate ai quattro angoli e al centro del lato O; manca la natatio. Nella muratura risultano reimpiegati materiali da costruzione prelevati da edifici caduti in rovina, oltre a numerose iscrizioni. Il fatto che alcuni frammenti di iscrizioni si colleghino ad altri reimpiegati nella costruzione di Porta Oea suggerirebbe che il rifacimento dell'impianto termale e la cinta muraria di IV sec. siano pressoché coevi. Il termine cronologico più alto per l'avvio dei lavori potrebbe corrispondere agli anni posteriori al sisma del 306-310 d.C.; l'abbandono della costruzione sarebbe invece da imputare ai disastrosi effetti causati dal terremoto del 365 d.C.
Santuario di Serapide. - Il complesso occupa la parte anteriore dell'isolato all'incrocio delle due strade che provengono dall'abside NO della basilica con quella che dal teatro conduce al mare. Dedicato a Serapide e ai Sỳnnaoi Theòi, come oggi lo si vede pare risalire all'età di Antonino Pio; sotto le attuali strutture sono stati rinvenuti resti di un precedente luogo di culto. Il piccolo tempio sorge all'interno di una corte rettangolare con due ali porticate sui lati lunghi. Sopraelevato su alto podio con scalinata d'accesso, risulta inquadrato da avancorpi; la cella era preceduta da un pronao con quattro colonne. Ancora in situ l'altare, in asse con la scalinata del tempio. L'interno della cella era rivestito di marmi colorati; sono conservati tratti della pavimentazione in opus sectile. Una statua di Serapide seduto con a fianco Cerbero, derivata dalla celeberrima creazione di Bryaxis per il Serapeo di Alessandria, costituiva l'immagine di culto: in marmo nero, aveva le parti nude del corpo e la testa a inserimento in marmo bianco. Integre altre sei statue tra cui una Iside-Tyche con modio sulla testa e cornucopia, un Serapide stante, in marmo bianco, con scettro circondato da serpente, un imperatore loricato (Marco Aurelio), una statua iconica femminile dell'età di Marco Aurelio di eccezionale finezza di lavorazione. Spiccano inoltre due teste femminili con capigliatura di riporto e occhi a inserimento di pasta vitrea, verosimilmente importate dall'Egitto. Numerose sono le iscrizioni sacre, tutte, tranne quella più antica in latino, redatte in greco: questo dato e l'onomastica dei donatori provano che il santuario rappresentò il punto d'incontro della comunità grecofona, e in particolare egiziana, risiedente a Leptis. Il fatto che la quasi totalità dei devoti nominati nelle iscrizioni porti il gentilizio Aurelius (da collegare alla concessione della cittadinanza romana sotto Caracalla) fornisce un'importante indicazione della vitalità del santuario in età severiana. Sono stati rintracciati segni di danni causati dal sisma del 306-310; ripristinato, l'edificio venne abbandonato dopo le distruzioni arrecate dal terremoto del 365 (A. Di Vita).
Complesso severiano di foro e basilica. - Acquisite sono, dopo i contributi di J. B. Ward Perkins, la provenienza dell'architetto dall'area occidentale dell'Asia Minore, e l'assunzione a modello del Foro di Traiano e della Basilica Ulpia. L'ingente opera è un esempio di architettura «cosmopolita», basata in parte su prototipi urbani, in parte su modelli asiatici: è stato p.es. osservato che il tempio della gens Septimia sembra riprodurre la metà anteriore di uno dei grandi templi peripteri dell'Asia Minore, con doppio colonnato nel pronao, sul tipo di quello di Adriano a Cizico, cui rimandano anche i piedistalli scolpiti. Novità di rilievo costituisce invece la restituzione dell'originario sviluppo del complesso avanzata da A. Di Vita: tutta la vasta area a NE della basilica sarebbe stata anch'essa destinata a foro, senza tuttavia che il progetto fosse mai portato a termine. Equivalenti nelle dimensioni e contrapposti, i due fori avrebbero formato le ali di un complesso imperniato sulla basilica le cui absidi, con all'esterno le grandi iscrizioni commemoranti l'opera di costruzione, avrebbero costituito i punti focali delle facciate lunghe. La corrispondenza del colonnato addossato alla parete esterna NE della basilica con quello che, sul Foro Nuovo, decora la fronte del lato a vani trapezoidali ed esedra mediana, ha indotto a ritenere che il prospetto a colonne, fuori scala come esso si presenta rispetto all'attuale passaggio, fosse stato originariamente concepito per affacciarsi su un lato del secondo foro. Ragioni economiche sarebbero responsabili dell'abbandono del grandioso progetto: solo allora vennero realizzati il muro a grandi blocchi regolari, che sul passaggio fronteggiò la facciata E della basilica per far da quinta al cantiere già abbandonato, e la chiusura del prospetto dell'area sulla Via Colonnata. All'ipotesi sono state sollevate obiezioni da J. B. Ward Perkins, peraltro al momento non insormontabili: l'omogeneità del tipo di muratura del recinto perimetrale del complesso di foro e basilica proverebbe che essi costituiscono, con la sottostante platea di fondazione, un insieme unitario che esclude l'integrazione dell'area a NE della basilica e, soprattutto, la difficoltà di inserire l'architrave spezzato al di sopra della cornice dorica del muro esterno della basilica documenterebbe che si è in presenza di ima soluzione non prevista all'origine, risalente a quando i progetti per l'area a NE del passaggio vennero abbandonati e le tre porte lungo il lato della strada furono bloccate.
Arco severiano e preesistente tetrapilo. - È stata riconosciuta da Di Vita l'esistenza già nei primi decenni del II sec. d.C. di un tetrapilo al crocevia tra la grande arteria Oea-Alessandria (allora divenuta «decumano massimo») e la via in Mediterraneum con funzione, probabilmente, di propilo monumentale alla città: riutilizzato sotto i Severi, solo allora ricevette un paramento marmoreo. Il nucleo dell'arco è costituito da blocchi di calcare grigio di Ra's el-Ḥammām, non più impiegato in costruzioni di età severiana. Numerosi e consistenti sono gli ulteriori argomenti a favore dell'esistenza di questo primitivo tetrapilo: dalla tecnica di lavorazione all'individuazione della linea di un fuori terra antecedente alla risistemazione severiana, all'impiego del braccio punico quale unità di misura della struttura di calcare, a differenza del rivestimento marmoreo che è in piedi romani. Da respingere invece l'ipotesi della pertinenza all'arco dell'iscrizione monumentale rinvenuta subito a N, di cui si è potuta ricomporre solo la parte sinistra con la menzione di ima coppia di «divi»: la divinizzazione di Settimio Severo e Giulia Domna comporterebbe infatti un'inaccettabile cronologia posteriore almeno al 218 d.C. Le divergenze tra i progetti di restituzione dell'arco concernono il ripristino della decorazione architettonica del corpo principale, mentre pressoché concorde risulta quello degli avancorpi posti a inquadrare i fornici e culminanti negli spicchi a cuspide che, al di sopra dell'architrave, recherebbero un fregio con girali di acanto. Convincente è la collocazione dei pannelli figurati nell'attico, dubbia invece la proposta di porvi al di sopra il fregio con amorini che reggono ghirlande. Sia la restituzione inglese che quella di Catanuso collocano sopra l'epistilio del corpo principale il fregio con eroti e ghirlande; Ioppolo e Stucchi ritagliano tra i timpani uno spazio privilegiato, il primo destinandolo ai fregi figurati, il secondo all'ipotetica iscrizione. La preminenza dell'asse E-O cui vanno attribuiti i fregi figurati con la processione risulta sottolineata da particolari decorativi, quali la sostituzione dei fiori di abaco con aquile su alcuni capitelli pertinenti a questi due lati. Sulla tematica dei rilievi si può ribadire quanto scritto da V. M. Strocka: essi non illustrerebbero «realisticamente», alla maniera per così dire di ima narrazione annalistica, determinati avvenimenti «storici» puntualizzabili nel tempo, ma tenderebbero a ricondurli a tipi generali, che possano servire da allegoria alla propaganda imperiale rifacendosi a codificate formule di rappresentazione. Ciò evidentemente non esclude che siano presenti particolari «realistici», né riferimenti a determinate situazioni geografiche. Etichettabile con la formula Gloria (o Virtus) Augustorum la processione trionfale del fregio di NO (da tenere comunque in considerazione la possibilità che essa abbia tratto ispirazione dai Decennali celebrati nel 202 d.C.), mentre nel fregio di SE, con scena simile, si illustra come il trionfo della Virtus domus divinae sia da imputare alla protezione delle divinità che prendono parte al corteo trionfale. La concordia Augustorum è tradotta sul fregio di SO nell'immagine emblematica della dextrarum iunctio. Alla pietas della domus divina è infine riservato il fregio di NE, con illustrazione di un sacrificio solenne. Si è sempre ripetuto che la costruzione di questo arco commemorativo sarebbe stata decretata in occasione della presunta visita di Settimio Severo alla sua città natale (202-203 d.C.): certo è solo che i rilievi sono stati eseguiti dopo il 205 (uccisione di Plauziano di cui infatti non compare il ritratto) e prima del 209 (elevazione di Geta al rango di Augusto).
Tempio Flavio. - La fronte monumentale del complesso prospettava sulla banchina del lato O del porto, a meno di 80 m a SE della Curia. I sette superstiti blocchi dell'iscrizione (tre erano già venuti in luce nel 1925: IRT, 348) recano la dedica a Domiziano vivente e ai divi Vespasiano e Tito; la titolatura di Domiziano consente di riportarne la datazione al 93-94 d.C. Crollato l'elevato del tempio, si conservano all'interno dell'alto podio ampi vani rettangolari paralleli interpretati come favissae, separati al centro da un passaggio. Al di sopra del podio si elevavano due templi con scalinata di accesso: aventi fronte monumentale a E, tetrastili, di ordine corinzio, inquadrati da ali porticate di ordine ionico. Divisa in due, per adattarsi alla fronte dei templi gemini, ma con testo continuo, è la grande iscrizione dedicatoria, incisa su due righe, che correva al di sopra dell'architrave. Tutti gli elementi architettonici sono scolpiti nel calcare grigio di Ra's el-Ḥammām. Alla fase tarda di vita del complesso appartengono due insediamenti, posteriori al terremoto del 365 d.C. Il più antico è un quartiere urbanisticamente organizzato, relativamente esteso, a carattere abitativo-artigianale, in cui vennero riutilizzati blocchi ed elementi architettonici crollati. Successivo alla distruzione causata da un terremoto è anche quello più recente, di gran lunga meno esteso e contraddistinto da fabbricati assai modesti: scomparve dopo il V sec. per effetto, ancora una volta, di un evento sismico.
Porto. - Dalle recenti indagini sottomarine è emerso che due moli prolungavano gli elementi attualmente esistenti: proteso verso NE e lungo 250 m quello che si staccava dal braccio E all'altezza del tempio dorico, su cui doveva sorgere un edificio. I due moli avrebbero definito, all'accesso al bacino del porto, una sorta di canale, in grado di offrire alle imbarcazioni migliori condizioni di riparo. Nel 1972 presso la punta del piccolo porto della vicina Ḥoms sono state rinvenute, sotto le basi di colonna del peristilio di una grande villa di età imperiale, vestigia della fronte di un molo antico. L'uso del calcare di Ra's el-Ḥammām limitato ai blocchi di ormeggio delle banchine riporterebbe alla tarda età ellenistica. Dal molo a L. distano 2,7 km, corrispondenti esattamente ai 15 stadi che lo Stadiasmus maris magni pone tra la città e il capo Hermaion: alle imbarcazioni dirette a L. viene segnalato come approdo, mancando la città di un porto, l'ormeggio alla punta di Ḥorns; l'approdo, specifica il compilatore, «è per piccole navi da trasporto». Optando per una cronologia ancora di età augustea della fonte da cui dipende il documento nautico, Di Vita riporta la situazione descritta all'età ellenistica, quando la città, priva ancora di un porto adeguatamente attrezzato, si sarebbe appoggiata all’hòrmos alla punta di Horns che, lontano dal corso dello wādī Lebda, avrebbe presentato il vantaggio di non essere interessato dagli effetti delle improvvise piene stagionali del corso d'acqua; l'approdo sarebbe anzi rimasto il maggiore porto della zona fino alla costruzione, in età neroniana, di quello alla foce dello wādī Lebda.
Anfiteatro. - Funzionale e innovativo dal punto di vista urbanistico è il collegamento di anfiteatro e circo, anche se la loro progettazione come complesso unitario pare contraddetta dalla più recente cronologia del circo, almeno nella sua attuale sistemazione. L'anfiteatro, interamente scavato a imbuto in una collina di arenaria, aveva una capacità di c.a 16.000 spettatori; la titolatura di Nerone data al 56 d.C. l'iscrizione dedicatoria, posta sulla facciata interna del fornice O di accesso all'arena. Alle estremità dell'asse E-O si aprono, in corrispondenza delle due grandi gallerie voltate, gli ingressi principali; della primitiva fronte monumentale del fornice O rimangono colossali rocchi di colonna e capitelli in calcare. A questi ingressi conducevano da N, lungo i fianchi dell'anfiteatro, due passaggi tagliati nella collina, di raccordo con il circo. Molto ben conservato è l'ampio passaggio O; a S di esso un largo vano ricavato nella roccia, forse una sala di riunione per gladiatori, presenta le pareti articolate in cinque nicchie. All'estremità S del passaggio orientale si apre un vano in cui erano custoditi gli animali. La cavea comprendeva tre maeniana con sedici cunei ciascuno; le file più basse di gradini erano accessibili da otto vomitoria. Contrassegni di cava punici appaiono incisi su molte delle lastre di calcare grigio con cui sono rivestite le gradinate. È molto probabile che la summa cavea fosse coronata da un portico colonnato. Alcune modifiche sarebbero consecutive all'installazione del circo: il grande viadotto a un solo arco di accesso alla summa cavea dal lato verso la città e, forse, il tunnel tagliato nella collina e non ancora scavato che, provenendo da occidente, sboccava presso il fornice O di accesso all'arena. All'età degli Antonini e a quella dei Severi, cui sono da riportare le ulteriori trasformazioni (tra le più importanti il rifacimento in opera quadrata del grande ambulacro circolare e dei vomitoria e il rivestimento del podio con lastre di marmo), vanno anche assegnati i rilievi marmorei sistemati in nicchie nel grande ambulacro sotto la cavea e nel fornice O (grifi, Diana cacciatrice, Apollo, Marte, Vittoria). Al centro dell'emiciclo S della summa cavea sorgeva un sacello preceduto da un avancorpo a esedra di cui è stata ricostruita, grazie alle incisioni originarie presenti su alcune lastre pavimentali, la forma mistilinea: l'impiego del calcare di Ra's el-Ḥammām ha indotto a riferirne la costruzione a un momento di poco successivo all'inaugurazione dell'anfiteatro. La statua di culto del sacello è stata identificata con il simulacro di Artemide Efesia rinvenuto nel 1912 sulla vicina altura di Sidi Barku, oggi al museo di Tripoli. Se Artemide, nella sua qualità di dea cacciatrice e di protettrice dei venatores, è ben adatta alla destinazione dell'edificio, non così sembrerebbe all'apparenza la scelta di Artemide Efesia, la cui accezione primaria è quella di grande madre anatolica della fertilità (dal sacello proviene anche un frammento di statuetta marmorea di Afrodite da Afrodisiade). Bisogna tuttavia ricordare che in un'iscrizione bilingue di Aquileia con dedica ad Artemide Efesia da parte di un decurione della colonia originario di Efeso è la menzione di un collegio di venatores «Nemesìakoi» devoti alla dea (REG, LXXIV, 1961, p. 265 s., n. 847). Alla metà del V sec. d.C. tutto l'edificio venne fortificato e, come il teatro, abitato.
Circo. - Le dimensioni dell'arena (c.a 450 x 70 m) fanno dell'edificio uno dei più grandi costruiti nelle Provincie prima della Tetrarchia; la capienza è stimata tra i 20.000 e i 22-23.000 spettatori. La posizione è certamente dettata dall'esistenza del contiguo anfiteatro: la gradinata meridionale fu tagliata nella roccia dal limite del blocco dell'anfiteatro, mentre a Ν per sostenere i sedili vennero costruite poderose sostruzioni. Dalla titolatura di M. Aurelio e L. Vero contenuta nella lunga iscrizione dedicatoria, collocata al di sopra delle porte dei carceres sul lato verso l'arena, si apprende che l'edificio venne completato nel 162 d.C. La circolazione interna degli spettatori dal circo all'anfiteatro e viceversa avveniva attraverso gallerie scavate a due differenti livelli e, per chi proveniva dalla summa cavea dell'anfiteatro, mediante entrate addizionali poste sul lato S delle gradinate del circo. Lungo questo lato era collocato, sull'asse della linea di arrivo delle quadrighe, il tribunal. Alla sommità delle undici file di sedili correva una galleria colonnata; il centro della curva orientale era occupato da un arco monumentale a un solo fornice, su imitazione di quello di Tito nel Circo Massimo. La spina comprendeva una successione di cinque vasche d'acqua, con l'aggiunta di un piccolo bacino ospitante una struttura rettangolare. Alla sua estremità si innalzavano le due metae; ognuno dei tre coni era sormontato da un coronamento a forma di pigna. Nell'assetto generale e nella decorazione della spina il modello seguito è evidentemente quello del Circo Massimo. Divergente per contro la sistemazione dei dodici carceres: invece di essere divisi in due gruppi di sei da un'entrata monumentale, i box risultano tra loro contigui. Lo slittamento verso S di tutta la fila dei carceres, dovuto all'eliminazione dell'entrata centrale, creava un vuoto di c.a 20 m all'angolo NO dell'arena: l'insolita disposizione aveva il vantaggio di assicurare a tutti i contendenti, a scapito della simmetria dell'impianto, uguali opportunità di gara, sopprimendo gli scomparti del settore Ν posti nella posizione più sfavorevole. Dal lato verso l'arena la facciata dei carceres presentava un rivestimento di marmo. Non chiara è l'originaria sistemazione del piano superiore: alcuni indizî sembrano suggerire l'esistenza della loggia dell'editor. Di fronte ai pilastri degli scomparti erano collocate erme marmoree. Il testo dell'iscrizione dedicatoria è incompleto: ci si è chiesto se in esso fosse celebrato il completamento dell'opera di costruzione o piuttosto contenuto il ricordo di consistenti lavori di ingrandimento e restauro che avrebbero interessato la zona dei carceres. In questo caso un circo più piccolo sarebbe stato costruito qui già in precedenza, esteso verso O e monumentalizzato all'epoca degli Antonini. L'edificio rimase in uso fino allo scorcio del IV secolo.
Chiesa del Foro Vecchio. - Già riferito al V sec. d.C., l'edificio, costruito sulle strutture di un tempio di età traianea, è stato datato all'epoca della riconquista bizantina. L'intercolumnio mediano, più ampio degli altri, veniva a definire una sorta di transetto incrociante la navata centrale; molto probabilmente la copertura dello spazio centrale era a volta a crociera soprelevata. I resti di ima scala sul lato NO fanno supporre l'esistenza di gallerie al di sopra delle navate laterali. Il tipo della chiesa con crociera centrale e transetto integrato, nartece e gallerie, connotato dal notevole sviluppo dell'elevato, è conosciuto in area orientale in costruzioni di fine V-VI sec. di ascendenza costantinopolitana. Planimetria ed elevato desunti da modelli importati si coniugano con più antiche caratteristiche provinciali attestate in chiese del resto dell'Africa, come l'uso, nella divisione delle tre navate, di doppie colonne su cui ricadono le arcate.
Necropoli. - I recenti rinvenimenti di sepolture ipogee nel circondario della città confermano il quadro già noto: le tombe, conformemente alla tradizione punica, sono di solito costituite da una o più camere, spesso servite da un pozzo di accesso. In numerosi casi nelle pareti della camera appaiono scavate nicchie per ospitare le urne cinerarie; offerte, oltre a contenitori litici, venivano sistemate sulle banchine lungo i lati della camera. Di ascendenza punica è anche l'usanza di reimpiegare le anfore come recipienti rituali, destinandole in genere a contenere i residui non antropici del rogo funebre. L'arco cronologico di costruzione e utilizzo di queste sepolture si estende dal I sec. a.C. al III sec. d.C. In età augustea la pratica dell'inumazione cede il posto al rituale dell'incinerazione. Generalizzato fino all'ultimo quarto del I sec. d.C. è l'uso di urne di pietra a cassetta, di forma parallelepipeda, prive di decorazione: le iscrizioni, quando presenti, sono quasi sempre in neopunico. A partire dall'età flavia alle cassette si affiancano urne a vaso in calcare, spesso strigliate; le iscrizioni sono in latino. Pressoché sconosciuto è l'uso della deposizione in sarcofagi di marmo: si è conservato solo un frammento di coperchio di importazione, riferibile alla metà del III sec. d.C. Data l'eccezionale consistenza quantitativa dei corredi di ceramiche fini da mensa di importazione appare probabile che in occasione dei funerali venissero consacrati al defunto interi servizi. Per il decoro in stucco a imitazione architettonica della camera funeraria si distingue una tomba rinvenuta in località Qasr Gelda, c.a 2,5 km a S della città: le pareti sono scandite da una successione di lesene con capitellini sorreggenti l'architrave; le nicchie sono sormontate da archetti alternati a frontoncini. Altissima risulta la qualità formale delle urne a vaso realizzate in fine calcare grigio locale, ognuna delle quali reca inciso il nome del defunto: dalla presenza del gentilizio Flavius si può stabilire che la. tomba sia appartenuta a una famiglia punica che ottenne il diritto di cittadinanza romana al tempo del proconsolato africano di Vespasiano (63-64 d.C.). Nella tomba, in uso al più tardi fino alla prima età antoniniana, è attestato l'impiego di sepolture in sarcofagi di piombo; di gesso sono tre busti-ritratto.
Ville marittime. - In località Silin, c.a 15 km a O di L., lungo un tratto di costa di 7 km è stata rilevata la presenza di ben sette ville. Si tratta di estesi impianti edificati su promontori rocciosi, distribuiti a poca distanza uno dall'altro in prossimità dello sbocco a mare di corsi d'acqua, panoramicamente situati con la facciata principale rivolta a N, non di rado edificati su terrazzamenti articolati a varî livelli. Planimetricamente presentano un andamento parallelo alla costa, con uno sviluppo in senso E-O dei corpi di fabbrica; costante è la distribuzione degli ambienti residenziali su lunghi corridoi, portici o criptoportici. Gli impianti originari sono costruiti con muratura a telaio, formata da pilastri di arenaria cavata dai banchi rocciosi su cui le ville stesse si impiantano. La villa dell’«Odèon Marittimo» presenta la particolarità che nella cava di arenaria fu ricavato un piccolo odèon aperto sul mare. Un'architettura scenografica ancora di tradizione ellenistica si ritrova nella villa del «Piccolo Circo», articolata su terrazze a picco sul mare, con belvedere centrale a pianta ellittica. Di congiunzione tra le terme e un padiglione costruito nella zona più alta del promontorio il «piccolo circo»: area sistemata a verde e destinata a passeggiate. Analoga per tipo abitativo, distribuzione e funzione degli ambienti, ma ben più spettacolare per la magnificenza della decorazione musiva e lo stato di conservazione delle strutture, è la villa messa in luce a partire dal 1974 in prossimità dello sbocco a mare dello wādī Yala. A rappresentanza era destinato il settore occidentale: sull'atrio si affacciano il tablinum e l’oecus-triclinium; articolato in tre bracci porticati intorno a un'area sistemata a verde è il peristilio a mare su cui, al centro del lato S, prospetta una grande sala, avente funzione di triclinio estivo. Dal peristilio si raggiunge l'ampia sala della biblioteca. Nel settore S della villa era sistemato il viridarium. Al complesso termale è collegata l'area orientale includente, in una fase più avanzata rispetto all'impianto originario, un vasto spazio organizzato a giardino; prospiciente a esso è l’oecus. All'interno della struttura cilindrica delle terme gli ambienti si dispongono intorno all'ottagono del frigidarium. Eccezionali per finezza di esecuzione, impaginato e originalità di alcune delle composizioni sono i mosaici pavimentali. Una competizione di quadrighe nel circo decora il pannello rettangolare del tablinum, mentre nel cubicolo padronale affacciatesi sul peristilio è una scena di anfiteatro; l'allegoria dell'avvento dell'aurea aetas con la personificazione del Tempo e le Stagioni è ospitata nella sala di rappresentanza attigua al tablinum (v. S 1971-1994, vol. I, tav. a p. 123). Decora il pavimento dell’oecus-triclinium affacciatesi sull'atrio il supplizio di Licurgo. In una delle due diaetae è un quadro di genere (nereide sul dorso di un centauro marino); nel pavimento geometrico della biblioteca eroti e Psychai e una vasta selezione di maschere sceniche. Formidabile per estensione, varietà e ricchezza del repertorio dei motivi geometrici è il tappeto del peristilio, articolato in una successione di riquadri e bordato lungo i bracci minori da un fregio nilotico. La messa in opera del nucleo originario dei pavimenti musivi della villa è da porre tra il 140 e, al più tardi, il 160 d.C.
Costruite in un arco cronologico relativamente limitato, tra la fine del I sec. e la metà del II sec. d.C., queste ville erano destinate a essere abitate permanentemente, e come tali attrezzate: abitazioni suburbane ma di carattere «cittadino». L'emergenza dell'impianto termale, la considerevole estensione delle aree sistemate a giardino e la varietà degli ambienti destinati all’otium possono dare un'idea della grandiosità e del lusso abitativo della classe dirigente locale. I modelli vanno riconosciuti nelle sontuose ville marittime fiorite in Italia, a partire dall'età tardo-repubblicana, lungo il litorale laziale e campano. Il rinvenimento di impianti rustici (per lo più frantoi e strutture pertinenti a fattorie) prova il collegamento della villa con l'organizzazione agricola dell'immediato entroterra. La presenza inoltre di sicuri approdi per piccole imbarcazioni garantiva un facile collegamento con i maggiori porti della costa.
Nel 1972 nelle vicinanze del porto vecchio di Ḥoms, a poco più di 50 m dal mare, furono rinvenuti i resti di una grandiosa villa risalente all'età di Antonino Pio: scavi di emergenza hanno messo in luce una parte dei vani di rappresentanza, l'insieme termale assai esteso e un settore del peristilio che si protendeva verso la linea di costa.
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Foro Vecchio: A. Di Vita, Shadrapa e Milk'ashtart dèi patri di Leptis ..., cit.; G. Di Vita Evrard, IRΤ 520, le proconsulat de Cn. Calpumius Piso et l'insertion de Lepcis Magna dans la provincia Africa, in L'Afrique dans l'Occident romain..., cit., pp. 315-331.
Curia: J. Ch. Balty, Curia ordinis. Recherches d'architecture et d'urbanisme antiques sur les curies provinciales du monde romain, Bruxelles 1991, pp. 39-42.
Teatro: G. Caputo, Pavimento di conistra dipinto, in Dioniso, XX, 1957, pp. 30-34; id., Graffiti figurati al teatro di Leptis Magna: Dea Roma e busto di Giuliano l'Apostata, ibid., XLV, 1971-1974, pp. 193-200, tavv. Χ-ΧΙΙΙ; id., Il teatro augusteo di Leptis Magna. Scavo e restauro (1937-1951), Roma 1987; A. Di Vita, L'iscrizione sulla frontescena del teatro di Leptis Magna, in AnnMacerata, XXII-XXIII, 1989-1990, pp. 827-832; id., Il teatro, di Leptis Magna: una rilettura, in JRomA, III, 1990, pp. 133-146; F. Β. Sear, The Theatre at Leptis Magna and the Development of Roman Theatre Design, ibid., pp. 376-382; E. Joly, S. Garraffo, A. Mandruzzato, Materiali minori dallo scavo del teatro di Leptis Magna, in QuadALibia, XV, 1992, pp. 25-233.
Necropoli sotto il teatro: E. De Miro, G. Fiorentini, Leptis Magna. La necropoli greco-punica sotto il teatro, in QuadALibia, IX, 1977, pp. 5-76; J. P. Morel, Les vases à vernis noir et à figures rouges d'Afrique avant la deuxième guerre punique et le problème des exportations de Grande-Grèce, in AntAfr, XV, 1980, pp. 29-33.
Calcidico: G. Caputo, Spigolature architettoniche leptitane, III. Esempi di sensibilità decorativa, in LibyaAnt, V, 1968, p. 70 ss., tav. XLV ss.; A. Di Vita, in Les cryptoportiques dans l'architecture romaine, Rome 1972, Roma 1973, p. 431 s.; F. Schippa, Il Calcidico di Leptis Magna. Considerazioni preliminari, in AnnPerugia, XIX, n.s. V, 1981-1982, pp. 221-249. - Sull'individuazione del tipo architettonico: F. Zevi, Il Calcidico della «Curia Iulia», in RendLinc, XXVI, 1971, pp. 239-245.
Stoà doppia sul lato SO del mercato: A. Di Vita, Architettura e società nelle città di Tripolitania fra Massinissa e Augusto: qualche nota, in Architecture et société de l'archaïsme grec à la fin de la République romaine, Rome 1980, Parigi- Roma 1983, pp. 365-367, figg. 13-14.
Terme di Adriano: J. C. Fant, IRT 794b and the Building History of the Hadrianic Baths at Leptis Magna, in ZPE, LXXV, 1988, pp. 291-294, tav. IX, b; G. Di Vita Evrard, Lepcis Magna: contribution à la terminologie des thermes, in Les thermes romains. Actes de la table ronde, Rome 1988, Roma 1991, pp. 135-42.
Edificio pubblico all'angolo con il decumano massimo: E. Vergara Caffarelli, G. Caputo, op. cit., p. 102 s., figg. 168, 245.
Tempio anonimo sul decumano: E. Vergara Caffarelli, G. Caputo, op. cit., p. 103 s, fig. 244.
Arco di Marco Aurelio: G. Di Vita Evrard, Un «nouveau» proconsul d'Afrique parent de Septime Sévère: Caius Septimius Severus, in MEFRA, LXXV, 1963, pp. 389-414; G. Ioppolo, Introduzione all'indagine stratigrafica presso l'arco di Marco Aurelio a Leptis Magna (Saggi del 1959 e del 1964), in LibyaAnt, VI-VII, 1969-1970, pp. 231-236, tav. LVIII.
Santuario a corte sul mare: E. Vergara Caffarelli, G. Caputo, op. cit., p. no, figg. 168-169, 245; G. Caputo, Spigolature architettoniche leptitane, II. Tradizione ellenistica ed innovazione architettonica romana, in LibyaAnt, III-IV, 1966- 1967, pp. 29-32, tavv. V-VII; A. Di Vita, Leggendo «Topografia e archeologia..., cit., p. 174 s.
Terme di epoca tarda sul mare: R. G. Goodchild, The Unfinished «Imperial» Baths of Lepcis Magna, in LibyaAnt, II, 1965, pp. 15-27, tavv. Il-VIII.
Serapeo: E. Vergara Caffarelli, G. Caputo, op. cit., p. 89 s.; M. Floriani Squarciapino, op. cit., pp. 116-118, tav. LXXXVIII; A. Di Vita, Gli Emporia di Tripolitania ..., cit., p. 566; id., Sismi, urbanistica e cronologia assoluta ..., cit., p. 441 s., figg. 11-12, p. 464, fig. 30.
Complesso severiano: R. Bartoccini, Il foro severiano di Leptis Magna. Campagna di scavo 1958, in QuadALibia, IV, 1961, pp. 105-126; A. Di Vita, Il progetto originario del «forum novum Severianum» a Leptis Magna, in 150-JahrFeier Deutsches Archäologisches Institut ..., cit., pp. 84-106, tavv. XIII-XVIIID, tavv. a colori Ι-ΙΙ; S. Stucchi, Intorno al «motivo centrale» nelle absidi della basilica severiana di Leptis Magna, in Saggi in onore di G. De Angelis d'Ossat, Roma 1987, pp. 63-66; id., in Da Batto Aristotele a Ibn el-'As. Introduzione alla mostra (cat.), Roma 1987, p. 71 s. (identificazione dell'area recintata a NE della basilica come caravanserraglio; G. D. B. Jones, R. Kronenburg, The Severan Buildings at Lepcis Magna, in LibSt, XIX, 1988, pp. 43-53.
Piazzale del ninfeo maggiore: G. Caputo, Spigolature architettoniche leptitane, I..., cit., pp. 11-13, tav. Ι.
Arco severiano: G. Ioppolo, Appunto sull'anastilosi dell'arco di Settimio Severo a Leptis, in LibyaAnt, V, 1968, pp. 79-81; id., Una nuova iscrizione monumentale presso l'arco dei Severi a Leptis Magna, ibid., pp. 83-91; S. Stucchi, Cantiere dell'arco severiano di Leptis Magna, ibid., VI, 1971, pp. 123-125; A. Di Vita, La ricostruzione dell'arco dei Severi a Leptis Magna in un disegno di C. Catanuso ed esistenza e significato di un tetrapilo preseveriano, ibid., VII, 1975, pp. 3-26; S. Stucchi, Notiziario: cantiere esterno dell'Arco Severiano a Leptis Magna, ibid., VIII, 1976, pp. 478-492; A. Di Vita, Ancora del tetrapilo precedente l'arco dei Severi a Leptis Magna: una messa a punto, ibid., IX, 1977, pp. 135-143; S. Stucchi, Di un pre-arco insussistente, in Divagazioni archeologiche, II, Roma 1981, pp. 129-199, tavv. XXXVII-LVI; id., L'arc sévérien de Leptis Magna. Les critères de la restauration, in Le moulage. Actes du Colloque International, Paris 1987, Parigi 1988, pp. 91-95; L. Bacchielli, L'arco severiano di «LeptisMagna»: storia e programma del restauro, in A. Mastino (ed.), L'Africa romana. Atti del IX Convegno di Studio, Nuoro 1991, Sassari 1992, pp. 763-770. - Sui rilievi: V. M. Strocka, Beobachtungen an den Attikareliefs des seherischen Quadrifrons von Lepcis Magna, in AntAfr, VI, 1972, pp. 147-172; M. C. Parra, A proposito di un rilievo con statua di Silvano (Leptis Magna), in MEFRA, XC, 1978, pp. 807-828 (pannello con il sacrificio); F. Ghedini, Il pannello nord-ovest dell'arco dei Severi a Leptis Magna: una proposta di lettura, in RIA, VIII, 1984, pp. 68-87; ead., Giulia Domna tra Oriente e Occidente. Le fonti archeologiche, Roma 1984, pp. 55-110, figg. 2-11; El. La Rocca, I rilievi minori dell'arco di Settimio Severo a Leptis Magna: una proposta di ricostruzione, in Prospettiva, 43, 1985, pp. 2-11.
Tempio Flavio: F. Magi, G. Scichilone, E. Fiandra, Missione archeologica della Università di Perugia a Leptis Magna (Libia), in AnnPerugia, III, 1965- 1966, pp. 669-688, tavv. XIV-XXX; F. Magi, Missione archeologica dell'Università di Perugia a Leptis Magna (Libia), ibid., VI, 1968-1969, pp. 345-355, tavv. XI-XV; G. Dareggi, Rapporto preliminare sulla ceramica rinvenuta durante le due campagne di scavo del 1966 e la campagna del 1968, ibid., pp. 357-374, tavv. XVI-XXV; E. Fiandra, Missione archeologica della Università di Perugia a Leptis Magna (Libia). Quarta e quinta campagna di scavo, ibid., pp. 375-394, tavv. XXVI-LXVI; ead., I ruderi del tempio flavio di Leptis Magna, 1. Vicende dal IV al IX secolo d.C., in LibyaAnt, XI-XII, 1974-1975, pp. 147-150, tavv. XLII-XLVI; A. M. Dolciotti, P. Fenoli, Attività archeologica italo-libica a Leptis Magna in funzione della formazione professionale per il restauro e la conservazione, in La presenza culturale italiana nei paesi arabi: storia e prospettive, Sorrento 1982, Roma 1984, pp. 329-332; G. Dareggi, Un témoignage monumental du culte impérial de l'époque de Domitien à Leptis Magna, in Histoire et archéologie de l'Afrique du Nord. Actes du Ve Coll. Int., Avignon 1990, Parigi 1992, pp. 103-115.
Porto: E. Salza Prina Ricotti, I porti della zona di Leptis Magna, in RendPont- Acc, XLV, 1972-73, p. 84 ss.; A. Di Vita, Un passo dello «Stadiasmos tes mega- les thalasses» ed il porto ellenistico di Leptis Magna, in Mélanges de philosophie, de littérature et d'histoire ancienne offerts à P. Boyancé, Roma 1974, pp. 229-249; E. Galdieri, Qualche osservazione nuova sul porto di Leptis Magna, in Bollettino del Centro di studi per la storia dell'architettura, XXIV, 1976, pp. 43-48; A. Laronde, Le port de Leptis Magna, in CRAI, 1988, pp. 337-353.
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