LEPANTO (in greco Naúpaktos; A.T., 82-83)
Città e porto della Grecia, nel nomós di Etolia e Acarnania, posta sulla costa settentrionale dello stretto che separa il Golfo di Corinto da quello di Patrasso, alla destra della foce del Mornos, al piede del M. Rigani. La città, che è molto decaduta dalla sua antica importanza, contava nel 1928 solo 4210 ab. Conserva le mura veneziane e la cittadella, che, con il piccolo porto difeso da due torri, le conferiscono un aspetto pittoresco.
La battaglia di Lepanto. - La battaglia combattuta (7 ottobre 1571) nel Golfo di Lepanto tra le forze delle principali potenze navali cattoliche del Mediterraneo occidentale da un lato e quelle raccolte dai Turchi nei loro dominî europei, asiatici e africani, è indubbiamente la più grande battaglia della marina a remi, non solo di tutto il sec. XVI, ma di tutto l periodo remico dal Medioevo in poi: e ciò non soltanto per il numero delle galee che l'uno e l'altro avversario pose in campo, ma per l'effetto navale che essa produsse, anche se lo scopo immediato che i collegati cattolici avrebbero dovuto proporsi, cioè la liberazione di Cipro, non fu ra ggiunto.
Per comprendere infatti tutta l'importanza morale della vittoria conseguita presso le isole Curzolari nel golfo di Lepanto nell'ottobre del 1571, occorre pensare che dal giorno in cui Maometto II aveva conquistato Costantinopoli e distrutto l'impero bizantino, la potenza terrestre e navale dei Turchi era sempre venuta crescendo, e tutti gli sforzi, per verità poco tenaci, delle potenze cristiane per infrenarla erano falliti. Le armate navali di Venezia e di Spagna non avevano potuto impedire il dilagare dei Turchi nel Mediterraneo: Negroponte e gran parte della Morea erano state strappate a Venezia, l'Asia Minore, l'Egitto erano stati conquistati, la navigazione per il Mar Nero chiusa; gli stati barbareschi erano diventati vassalli del sultano di Costantinopoli; le coste dell'Italia, le isole tirrene saccheggiate e devastate; l'alleanza di Francesco I e di Enrico II di Francia coi Turchi e coi sovrani barbareschi aveva segnato il colmo dell'oppressione del Mediterraneo.
Alcune disgraziate battaglie navali, alcuni errori della politica di Carlo V avevano depresso gli animi (Prevesa, Le Gerbe) e diffuso la persuasione che i Turchi fossero invincibili. Due fatti vennero a ridare agli Occidentali la fiducia in loro stessi, a mostrare che i Turchi non erano invincibili: il fallito assedio di Malta (1565) e la totale sconfitta turca a Lepanto.
L'occasione per questa nuova lega di Venezia con la Spagna e col pontefice Pio V, alla cui voce incitatrice risposero anche quasi tutti i principi italiani, fu data dall'assedio (1570), posto dall'armata turca alle fortezze dell'isola di Cipro, da circa un secolo possesso veneziano. All'invocazione d'aiuto fatta da Venezia, le cui forze navali non erano in grado da sole di resistere all'urto nemico, rispose il papa Pio V, che si adoperò perché anche Filippo II di Spagna inviasse aiuti navali. Quantunque avverso a Venezia, il re di Spagna, persuaso che l'acquisto di Cipro a opera dei Turchi avrebbe aggravato anche la condizione della Spagna nel Mediterraneo, acconsentì che l'armata spagnola d'Italia (Sicilia, Napoli, Sardegna, mercenarî genovesi) prendesse parte alla campagna agli ordini di Gian Andrea Doria, nipote del grande Andrea. Ma Gian Andrea giunse tardi al convegno di Corfù, sicché Veneziani e Pontifici rimasero inattivi ad aspettarlo, dando così tempo ai Turchi di conquistare Nicosia e d'assediare Famagosta.
La campagna del 1570, completamente sterile, lasciò un gravissimo strascico di polemiche, di accuse, di apologie. Veneziani e Spagnoli si palleggiarono la responsabilità dell'insuccesso; e fu merito grandissimo di Pio V l'avere con grande insistenza e calore ottenuto che nel maggio del 1571 fosse conclusa la "Sacra Lega" tra la Spagna, la Santa Sede e Venezia, a cui si associarono il duca di Savoia, Emanuele Filiberto, il duca di Parma, l'Ordine di Malta, il granduca di Toscana, la repubblica di Genova, il duca di Urbino, il duca di Parma.
Capitano generale fu il figlio adulterino dell'imperatore Carlo V, don Giovanni d'Austria, sotto i cui ordini stettero Marcantonio Colonna comandante dei Pontifici, Sebastiano Veniero, capitano generale dei Veneziani, Andrea Provana, ammiraglio del duca di Savoia, Gian Andrea Doria, capo delle forze ausiliarie dei Genovesi, il priore Giustiniani dell'Ordine di Malta, Ettore Spinola, capitano generale della repubblica di Genova.
Le forze cristiane erano imponenti; secondo i documenti più autorevoli, 14 galee di Spagna, 31 galee del vicereame di Napoli, 10 galee di Sicilia, 11 galee di G. Andrea, 13 galee di appaltatori genovesi al soldo di Spagna costituivano l'armata fornita da Filippo II, Venezia aveva potuto riunire 105 galee e alcune galeazze (a vela); 12 galee aveva fornito il papa, prendendole in affitto dal granduca di Toscana, 3 il duca di Savoia, 3 l'Ordine di Malta; v'erano poi altre navi minori, da carico, che seguivano l'armata. In totale, secondo scriveva don Giovanni al re suo fratello, 208 galee, 6 galeazze, 24 navi con a bordo un complesso di circa 26.000 combattenti, tra cui il fiore della nobiltà di Sicilia, di Napoli, degli stati italiani di terra ferma, che non potendo fornire navi, aveva preso imbarco su quelle degli alleati, come venturieri; Alessandro Farnese di Parma, Francesco Maria della Rovere di Urbino, Paolo Giordano Orsini, Ottavio e Sigismondo Gonzaga: in totale circa 3000 gentiluomini, alcuni dei quali assoldati, altri volontarî.
Superate molte difficoltà, derivanti dalle reciproche diffidenze tra Spagnoli e Veneziani e dal desiderio di Filippo II che l'armata fosse impiegata per conquistare Tunisi (e non per liberare Cipro), don Giovanni partì da Messina alla fine di settembre verso il Levante per incontrare l'armata turca, forte di circa 160 galee, secondo le informazioni ricevute, oltre a numerosissime navi a vela, con a bordo i celebri giannizzeri; a queste forze si erano poi aggiunte numerose galeotte del famigerato Ulūg‛-Alì (tuccialli), signore di Algeri.
I Turchi avevano corso l'Adriatico mentre le loro forze terrestri stringevano Famagosta e costringevano M. Antonio Bragadin a capitolare (18 agosto); poi, saputa la riunione delle forze cristiane (che però egli credeva molto inferiori per numero alle sue), Alì pascià, comandante supremo, si era ritirato nel golfo di Lepanto, donde al mattino del 6 ottobre uscì per incontrare il nemico all'imboccatura del golfo presso le Curzolari. Dall'una e dall'altra parte furono prese le posizioni di combattimento, già precedentemente stabilite.
L'armata cristiana si distese in linea di fronte, abbastanza incurvata, avendo dinnanzi a sé le galeazze, che, munite di potentissime e numerose artiglierie, dovevano sostenere il primo urto e rompere col loro fuoco la linea nemica; e avendo alle spalle uno stuolo di galee del marchese di S. Croce come riserva e destinate a fat passare combattenti sulle galee in linea in caso di bisogno.
L'estrema ala sinistra rasentava quasi il lido della Grecia, per impedire l'aggiramento nemico; essa era agli ordini del provveditore veneziano Agostino Barbarigo; l'ala destra era invece in mare aperto agli ordini di Gian Andrea Doria e senza protezione.
Per evitare sospetti di diserzione le galee delle potenze alleate erano state distribuite con un criterio speciale, intrammezzando le spagnole alle veneziane, alle pontificie e a quelle di Malta, di Genova e dei venturieri genovesi; ma al centro si erano poste le tre capitane, quella di don Giovanni aveva alla sua destra quella del Colonna e poi quelle del duca di Savoia e di Malta e alla sinistra quelle di Venezia e di Genova.
I Turchi, uscendo dal golfo di Lepanto, erano anch'essi in formazione frontale, incurvata, avendo al centro la capitana generale su cui alzava la bandiera Meḥemet Alì; alla sinistra quella di Meḥemet Shōrāq (lo Scirocco dei cronisti italiani) e all'estrema destra quella di ‛Ulū-Alì.
La battaglia, incominciata nel pomeriggio, ebbe diversi aspetti: al centro, dopo essere passata con qualche danno attraverso l'ostacolo delle galeazze, l'armata turca venne a contatto diretto col centro cristiano; le galee delle due parti s'investirono, tentando reciprocamente gli equipaggi e le fanterie imbarcate di penetrare a bordo delle galee che avevano di fronte. Manovre speciali non vi furono; ma solo furibondi attacchi, che durarono sino al tramonto; quando, dopo fierissima resistenza, la capitana turca fu conquistata dai cristiani e il comandante supremo cadde ucciso.
Sull'ala sinistra cristiana, a cui era preposto Agostino Barbarigo, le cose dapprima volsero a sfavore dei collegati, perché, tentando un aggiramento, Meḥemet Shōrāq poté "spuntare" la linea, assalendo così di fronte e a tergo le galee che costituivano la linea estrema. Ma il Barbarigo con rapida mossa volse le prore contro il nemico e arrestò l'aggiramento, aiutato in questa manovra da una galeazza che abilmente venne a cannoneggiare i nemici a tiro cortissimo.
In questa fase della battaglia fu ferito mortalmente il Barbarigo, e ucciso il provveditore Canale; a centinaia caddero i combattenti delle due parti. Infine riuscì al provveditore Contarini di conquistare la galea di Shōrāq, che fu preso. Ciò diede all'ala destra turca il segnale della ritirata, che si compì in disordine, con cattura di molti legni.
Le cose andarono diversamente sull'ala destra dei cristiani, perché Gian Andrea Doria, per timore di un aggiramento di Uluǵ-Alì (altri dicono per evitare il combattimento), si allargò molto in mare seguito da un certo numero di navi genovesi e veneziane, determinando così una grave rottura della linea. Piombando repentinamente in quell'intervallo i Turchi poterono conquistare parecchie galee, tra cui la capitana di Malta, due del papa, una del duca di Savoia. Accorse finalmente Gian Andrea Doria con una conversione; accorse la riserva del Santa Croce; fu turata la falla, furono ricuperate alcune delle galee perdute: ‛Ulūǵ-Alì, vedendo ormai rotto il centro e l'ala destra, si allontanò a voga arrancata dal campo di battaglia.
Immensa fu la vittoria: presi 117 legni nemici, 50 affondati o bruciati; uccisi circa 8000 Turchi, I0.000 prigionieri, liberati moltissimi cristiani, che i Turchi avevano a bordo come schiavi addetti alla manovra dei remi. Tra i morti il capitano generale, i pascià di Lesbo, di Scio, di Rodi, di Negroponte e lo stesso Shōrāq, deceduto per ferite due giorni dopo la battaglia. Le perdite cristiane furono di circa 7500 uomini, tra cui il Barbarigo, uno stuolo di sopracomiti (capitani di galee) veneziani e moltissimi gentiluomini, cavalieri di Malta e di Santo Stefano, e venturieri; il numero dei feriti fu notevole. Ma quel nobile sangue ebbe effetti grandissimi: fu distrutta la leggenda dell'invincibilità dei Turchi, fu stroncato il pericolo di un ulteriore dominio turco nel Mediterraneo; fu segnato l'inizio della decadenza marittima degli Ottomani. Quanto agli effetti materiali, la stagione avanzata e le perdite sofferte sconsigliarono un immediato sfruttamento della vittoria e la campagna ripresa nel 1572, per gravi dissensi tra Veneziani e Pontifici da un lato e don Giovanni d'Austria dall'altro, rimase tronca a mezzo. Cipro non fu ricuperata; Venezia, diffidente, fece pace coi Turchi, rinunziando all'isola: tra Venezia e la Spagna si scavò un solco profondo che non fu più colmato.
Bibl.: A. Gugliemotti, M. A. Colonna alla batt. di Lepanto, Firenze 1862; id., Storia della marina pontificia, Roma 1886 segg.; C. Manfroni, Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto, Roma 1897, pp. 437-451; P. Molmenti, Seb. Veniero e la batt. di Lepanto, Firenze 1899; G. Tomassetti, I Romani a Lepanto, in Cosmos illust., 1904, pp. 78-92; L. Serrano, La liga de Lepanto, II, Madrid 1918; L. von Pastor, Storia dei papi (vers.ital.), VIII, Roma 1924; G. A. Quarti, La battaglia di Lepanto nei canti popol., Milano 1930; A. Dragonetti de Torres, La lega di Lepanto, ecc., Torino 1931; A. Salimei, Gli Italiani a Lepanto, Roma 1931.