MEDICI, Leopoldo
de’. – Nacque a Firenze il 6 nov. 1617, ultimogenito di Cosimo II granduca di Toscana e di Maria Maddalena d’Austria.
Rimasto orfano di padre ad appena tre anni, la sua prima educazione fu curata dalla madre e dalla nonna Cristina di Lorena; fu affidato quindi allo scolopio Iacopo Soldani e a Famiano Michelini, entrambi allievi di Galileo Galilei, dai quali ricevette un’istruzione più accurata e libera rispetto a quella dei fratelli cadetti maggiori, Giovan Carlo, Francesco, Mattias.
Durante il granducato del fratello, Ferdinando II, oltre a svolgere funzioni di consigliere in materia economica e diplomatica, il M. partecipò alla gestione ristretta e collegiale del potere avviata da Cosimo II e che Ferdinando proseguì, concentrando l’amministrazione dello Stato nelle mani dei familiari più stretti. Il M. ebbe un importante ruolo di governo: ricoprì più volte la luogotenenza presiedendo il Magistrato supremo e il Consiglio dei duecento, trattò con i ministri, subentrò al fratello Mattias nel governatorato di Siena dal 1636 al 1641 e di nuovo nel 1643-44.
Il M. si allontanò di rado dalla Toscana: fu a Parma nel 1639 in visita alla sorella Margherita, moglie del duca Odoardo Farnese, e nell’occasione si spinse fino a Venezia; nel 1646 accompagnò a Innsbruck l’altra sorella, Anna, che andava in sposa all’arciduca Ferdinando Carlo d’Asburgo; nel 1650, in compagnia del fratello Mattias, si recò a Roma in occasione del giubileo. Con i fratelli Giovan Carlo e Mattias fu promotore di spettacoli a Firenze: nel 1661 diresse quelli per le nozze del principe Cosimo e di Margherita Luisa d’Orléans, alla cui organizzazione partecipò il fratello, il cardinale Giovan Carlo.
La figura del M. grandeggia soprattutto in ambito culturale, in cui si distinse per l’attività di mecenate, collezionista e studioso. Nel 1638 patrocinò la riapertura dell’Accademia Platonica, destinata a non avere seguito, e svolse un ruolo di primo piano nell’Accademia della Crusca, di cui fu protettore. Vi fu ascritto il 17 apr. 1641 con il nome di Assonnato, mutato in Adorno nel giugno 1643 e ancora, nel 1651-52, in quello definitivo di Candido. La presenza accademica del M. non si limitò al mero ruolo mecenatizio. Fu reggente delle adunanze generali del 1650 e del 1663 e consolo della colonia di Pisa nel 1651. Per la terza impressione del Vocabolario, pubblicata nel 1691, dopo la sua morte, fu lui a proporre di includere la terminologia tecnica ed ebbe l’incarico di preparare le voci concernenti le arti. Il suo cospicuo contributo emerge dalle carte custodite nell’Archivio dell’Accademia: in particolare, elaborò un inedito sistema di inchiesta presso i fornitori di Palazzo, mediante il quale raccolse un’ingente quantità di vocaboli legati ai mestieri.
In Accademia il M. fece sentire la sua voce quando i cruscanti non riuscirono a portare a termine in tempi ragionevoli i lavori per l’Etimologico toscano, che avrebbe dovuto affiancare il Vocabolario. Mentre gli accademici si attardavano nell’impresa, principiata subito dopo la pubblicazione dell’opera maggiore nel 1612, l’erudito francese Gilles Ménage diede alle stampe il trattato sulle Origini della lingua italiana (Parigi 1669). I cruscanti erano al corrente sin dal 1657 degli studi di Ménage e avevano tentato invano di farlo recedere dal suo disegno. Alessandro Segni, inviato a Parigi nel 1666, aveva cercato di persuaderlo a far confluire le sue ricerche nell’Etimologico, all’interno del quale sarebbe stata conservata l’integrità del suo contributo. Viste le lungaggini con cui procedevano i lavori in Crusca, Ménage si risolse a pubblicare la sua opera, pur mostrandosi rispettoso dell’autorità dell’Accademia. I cruscanti reagirono con dispetto e si attirarono l’ironia del M., che rimproverò loro lo scarso impegno e il poco zelo impiegato, nonostante la sua protezione li avesse messi nelle condizioni ideali per lavorare.
Particolarmente intenso fu l’impegno del M. nel rivendicare al suo casato l’eredità scientifica galileiana. Fu parte attiva nel promuovere e allestire la prima raccolta delle Opere di Galileo (editi, inediti, opere dei suoi oppositori), pubblicata a Bologna nel 1655-56. Insoddisfatto dell’opera, monca dei testi colpiti dalla censura ecclesiastica (la Lettera a Cristina di Svezia e il Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo), già dal 1656 offrì sostegno al progetto di Vincenzio Viviani di pubblicare una raccolta latino-volgare di tutte le opere del maestro, compreso lo scritto sulla longitudine recentemente acquisito. A tale scopo, quando era già cardinale, il M. avviò trattative private con i gesuiti del Collegio romano per provare a ottenere al Dialogo la revoca della condanna, ma le trattative, proseguite da Viviani dopo la sua morte, ebbero esito negativo. Neppure vide la luce, pertanto, la Vita di Galileo che sarebbe dovuta comparire in testa all’opera, alla quale Viviani aveva atteso fin dalla morte del maestro per volontà proprio del Medici.
Nel 1657 il M. promosse l’Accademia del Cimento, che dal 19 giugno cominciò a tenere con una certa regolarità un diario di esperienze. L’Accademia non fu un’istituzione formalizzata e strutturata secondo programmi e statuti, ma un’adunanza informale di scienziati e tecnici aggregata dal M. a sua totale discrezione, da lui finanziata e itinerante con la corte. Non ebbe luoghi e cadenze precise per le adunanze: il M. comunicava il giorno e il sito di volta in volta, a Firenze in palazzo Pitti, ma anche ad Artimino o a Pisa, quando era costretto a spostarvisi. Accademia di corte, il Cimento fu usato dal M. come luogo di intrattenimento per gli ospiti, «efficace strumento di “pubbliche relazioni”» (Galluzzi, 1981, p. 795), tramite per autorevoli contatti con istituzioni consimili all’estero, mezzo per realizzare un’opera, i Saggi di naturali esperienze (Firenze 1666), vero obiettivo dell’iniziativa.
L’Accademia fu per il M. il più potente strumento di un preciso programma di politica culturale che aveva il fine di «riprendere pubblicamente, dopo la condanna di Galileo, una strategia e un’offensiva antitradizionaliste in campo scientifico […]; rilanciare l’idea di una strettissima correlazione tra tradizione scientifica galileiana e protezione medicea, senza correre il rischio di aprire con la Chiesa un contenzioso che il piccolo e debole Stato toscano non era in grado di sostenere» (ibid., p. 794). Le preoccupazioni legate alla censura orientarono in maniera decisiva la fisionomia dell’Accademia e il suo programma. Come garanzia di pluralismo, infatti, il M. invitò a prendere parte all’adunanza sia gli scienziati attivi in Toscana che apparivano i più autorevoli e diretti «discepoli» di Galileo – Giovanni Alfonso Borelli, Antonio Oliva, Vincenzio Viviani, più tardi Carlo Roberto Dati e Francesco Redi – sia elementi di esplicite simpatie tradizionaliste – come Alessandro Marsili e Carlo Rinaldini. Gli uni e gli altri furono chiamati a realizzare un programma che – bandite le scottanti questioni cosmologiche, l’analisi geometrico-matematica dei fenomeni fisici, le discussioni sui principî costitutivi della materia – nel metodo riprendeva il legato galileiano meno pericoloso per l’aristotelismo, il richiamo alle «sensate esperienze», allo scopo di dimostrare per via di prova sperimentale l’insostenibilità di alcune teorie tradizionali, soprattutto aristoteliche.
Malgrado questa «ideologia dell’esperimento» scevra da ogni intento interpretativo, la verifica sperimentale di significativi gruppi di fenomeni o effetti fisici – il vuoto, la natura del caldo e del freddo e le alterazioni da essi introdotte nei fluidi, nei metalli e in altri materiali, le cause dell’«agghiacciamento» – provocò tra novatori e tradizionalisti violente discussioni sui principî. Discussioni che il carteggio degli accademici documenta con chiarezza ma che risultano del tutto cancellati nella redazione definitiva dei Saggi per la volontà del M. di presentare il Cimento come un’adunanza resa concorde dalla sua sovrumana virtù di principe. Il M. non riuscì sempre a comporre gelosie e controversie, che portarono di fatto alla chiusura dell’Accademia con la pubblicazione dei Saggi di naturali esperienze fatti nell’Accademia del Cimento, raccolti dal segretario L. Magalotti e fatti stampare dal M. nel 1667 (Londra 1684, traduzione inglese di R. Walter), dopo che i maggiori esponenti si erano allontanati dal consesso. L’ultima adunanza dei soci si tenne il 5 marzo 1667 senza un atto formale di cessazione, così come non c’era mai stata una vera cerimonia di apertura; perciò, nelle intenzioni del M., l’Accademia non si doveva considerare estinta.
Negli anni intensi del Cimento il M. fu direttamente impegnato negli esperimenti, si interessò al dibattito sul sistema di Saturno, si adoperò affinché G.A. Borelli fosse autorizzato a pubblicare le Theoricae Mediceorum planetarum (Firenze 1666), carteggiò con Melchisédech Thévenot sulle proprietà dell’argento vivo, discusse con Christiaan Huygens sull’applicazione del pendolo all’orologio, rivendicando la priorità dell’idea a Galilei, partecipò, in stretto rapporto con F. Redi, alla ricerca sulla generazione degli insetti delle galle, che fece registrare una clamorosa spaccatura in seno all’Accademia.
Se attraverso il Cimento l’azione del M. fu di sostanziale impulso alla libertà di ricerca, egli non mostrò eguale determinazione nel difendere la libertà intellettuale dinanzi alle polemiche che negli anni Sessanta agitarono l’Università pisana, di cui era stato nominato responsabile.
Alla fine degli anni Sessanta, all’interno dell’ateneo pisano si aprì un serrato confronto tra i lettori di fede aristotelica – G.A. Moniglia, L. Terenzi e G. Maffei – e i medici e filosofi naturali aderenti al cosiddetto «circolo pisano» – A. Marchetti, L. Bellini, C. Fracassati, G. Del Papa, ma anche D. Rossetti – tutti idealmente allievi di Borelli e difensori, sulla carta ed ex cathedra, di una filosofia atomista fisica ispirata a Gassendi. Nell’estate 1670 i filosofi «democritici», primo tra tutti Borelli, si appellarono al M., in veste di difensore della libertas philosophandi; nell’ottobre Marchetti gli indirizzò le Risposte de’ filosofi ingenui e spassionati, falsamente detti democritici, alle obiezioni e calunnie de’ peripatetici, rimaste manoscritte; Rossetti compose il Polista fedele. I due studiosi respingevano le accuse di ateismo prodotte dai peripatetici proponendo un recupero della filosofia naturale atomista (Democrito, Epicureo, Lucrezio) filtrata però in modo da escluderne le connotazioni metafisiche suscettibili di entrare in conflitto con il dogma cattolico.
In questo contesto si inserisce la vicenda della versione del De rerum natura di Lucrezio, a cui Marchetti aveva lavorato dal 1664 e che tentò di dare alle stampe. Marchetti aveva trovato un protettore e giudice in Carlo Roberto Dati e confidava anche nel sostegno del M., che lo aveva incoraggiato a intraprendere la traduzione dell’opera. Nell’agosto 1667 inviò a Dati la traduzione dei primi tre libri, sollecitando il giudizio dell’erudito, anche per valutare l’impatto sull’ambiente fiorentino vicino al Medici. Il giudizio, però, tardò ad arrivare e Marchetti tentò di coinvolgere il bibliotecario granducale A. Magliabechi, ma senza risultati. Il M. non solo fece mancare il suo appoggio, ma negò a Marchetti l’assenso alla pubblicazione del Lucrezio volgare, che egli stesso aveva incoraggiato, e lasciò che le autorità bandissero definitivamente dall’Università di Pisa l’insegnamento «a la galileista».
La posizione ufficiale assunta dal M. in queste circostanze non esauriva d’altra parte la sua personale posizione in materia, a testimonianza di un comportamento pesantemente condizionato dalla censura. Nel 1668, all’indomani della chiusura del Cimento, egli offrì protezione e appoggio finanziario a Michelangelo Ricci e Francesco Nazari per la fondazione del primo Giornale de’ letterati di Roma, edito da N.A. Tinassi. Nato per mettere il pubblico romano al passo con la cultura europea e ricalcato sul modello del Journal des sçavans e delle Philosophical Transactions, il Giornale aveva tra le sue linee editoriali proprio quella di «cristianizzare Democrito» e sostituirlo all’aristotelismo come fondamento ufficiale della dottrina cattolica. Che il M. non fosse estraneo a questo indirizzo di politica culturale lo dimostra il fatto che il Giornale cessò le sue pubblicazioni subito dopo la sua morte (Gardair, pp. 70 s.), essendo venuta meno un’influente protezione, proprio nel momento in cui l’Inquisizione imponeva un più stretto controllo sulle pubblicazioni che sostenevano apertamente il corpuscolarismo (Favino, p. 131).
L’epilogo del Cimento, anche se non ufficiale, coincise e fu in buona parte un effetto di un passaggio decisivo nella vita del Medici. Alla morte del vecchio cardinale Carlo, il 17 giugno 1666, la famiglia era rimasta senza autorevoli rappresentanti nel Collegio cardinalizio: il fratello di Ferdinando II e del M., il cardinale Giovan Carlo, era morto nel 1663; l’altro fratello, Mattias, era cagionevole di salute e morì l’11 ott. 1667. Dunque il M. dovette vestire la porpora e il 12 dic. 1667 fu creato cardinale da Clemente IX nella prima creazione cardinalizia del suo pontificato; il 9 apr. 1668 ricevette il titolo diaconale dei Ss. Cosma e Damiano, mutato il 14 maggio 1670 in quello di S. Maria in Cosmedin.
Da cardinale il M. tese a concentrare su di sé la gestione degli affari ecclesiastici del Granducato, anche in materia di Inquisizione, con una condotta più severa che nel periodo precedente. Tra le varie funzioni che assunse in Curia fu quella di membro della congregazione dell’Indice.
A questo proposito esiste una ricca documentazione, consistente nella corrispondenza tra il M. e A. Magliabechi. Di grande rilievo è l’In Indicem librorum prohibitorum fr. Vincentii Fani animadversiones Ant. Magliabechii, Romae editum iussu Clementis X P.M., senza data. Consiste di appunti dedicati al rilevamento degli errori materiali e bibliografici contenuti nell’Index librorum prohibitorum Alexandri VII P.M. iussu editus, pubblicato per cura del segretario della congregazione dell’Indice, Vincenzo Fano nel 1665 e, in edizione aggiornata, nel 1670. Magliabechi raccoglieva appunti e li spediva man mano al M. con i suoi rilievi, esprimendo il dissenso per metodi censori, che spesso erano basati su una conoscenza superficiale del testo, e su confusioni tali da far incorrere nel divieto libri che non avevano nulla a che fare con la religione, mentre rimanevano indenni opere contrarie alla dottrina cattolica.
Nel lungo conclave del 1669-70, che portò al soglio il cardinale Emilio Altieri, con il nome di Clemente X, il M. dispiegò tutta la sua abilità di sapiente manipolatore. Come esponente del partito filospagnolo svolse una decisiva mediazione tra il partito guidato da Fabio Chigi e quello che si riuniva attorno ad Antonio Barberini; il risultato fu la larga convergenza sulla candidatura di Altieri. Intanto con l’avvento nel Granducato, il 23 maggio 1670, di Cosimo III, nipote del M., la situazione culturale subì un cambiamento. Cosimo si mostrò da subito vicino agli aristotelici e nemico dei novatori, tanto che nel 1691 nello Studio pisano fu sospeso ufficialmente l’insegnamento della fisica galileiana, che di fatto era stato interrotto già venti anni prima. Il M. non si mise in aperto contrasto con il granduca e assunse posizioni prudenti: prese le distanze dal fronte dei novatori, ma in parte si trattò di un atteggiamento ufficiale che non rispecchiava fino in fondo la realtà. Da tempo vigeva la distinzione tra ricerca e insegnamento e già un Borelli o un Rinaldini, sotto il governo di Ferdinando II e la guida del M. come responsabile dello Studio pisano, erano stati lasciati liberi nelle proprie ricerche, mentre nel loro insegnamento avevano dovuto sottomettersi ai rigidi statuti universitari.
Nel dicembre 1674 il M. abbracciò il sacerdozio, celebrando la sua prima messa il giorno 21 a Firenze in S. Trinita, chiesa officiata dai vallombrosani, della cui Congregazione egli era protettore. Da quel momento, celebrò almeno tre giorni la settimana.
Il M. morì a Firenze il 10 nov. 1675 e fu sepolto il giorno seguente nella basilica di S. Lorenzo.
Di carattere riflessivo e ponderato, il M. rimase fedele per tutta la vita alla propria indole che lo portava a trattare in modo scrupoloso ogni impegno o negozio cui si dedicasse. Dalla corrispondenza con i familiari emerge l’immagine di un uomo non alieno da svaghi e passatempi – la caccia, la musica, le feste e il gioco –, ma che si dedicava a tutto ciò con equilibrio e sobrietà.
Gli interessi culturali del M. si estesero ad altri ambiti oltre a quello delle scienze. Fu cultore della musica, della letteratura, della pittura, della numismatica e del teatro. Sui suoi componimenti poetici, per la maggior parte conservati manoscritti nell’Archivio di Stato di Firenze (Miscellanea Medicea, f. 3, ins. 1: Poesie proprie del ser.mo card. Leopoldo), chiedeva giudizi critici a Carlo Roberto Dati e a Lorenzo Panciatichi, i quali non di rado intervenivano correggendo i versi del loro protettore (ibid., cc. 25-28, 35).
Per tutta l’esistenza coltivò un’istancabile e illuminata attività collezionistica servendosi di specialisti (Marco Boschini, G.P. Bellori, Cornelio Malvasia, Ciro Ferri, Pietro Berrettini detto Pietro da Cortona, Baldassarre Franceschini detto il Volterrano) e di dilettanti sia italiani sia stranieri, nonché di vari corrispondenti (Giovanni Filippo Marucelli, Pieter Blaeu, Paolo Del Sera, Francesco Feroni). Non tralasciò alcuna possibilità che gli permettesse di entrare in possesso di libri e di opere pittoriche rare od originali e i suoi contatti furono occasione per creare relazioni culturali con altri Paesi. La dimora olandese di Blaeu, per esempio, fu utilizzata come punto di riferimento e di accoglienza dei fiorentini inviati dal M. e dalla corte medicea nelle Province Unite: vi trovarono ospitalità Francesco Riccardi e Alessandro Segni, in seguito Lorenzo Magalotti e Paolo Falconieri. Il M. si valse sovente della preparazione in campo artistico e della capacità di mediatore di Blaeu per sondare il mercato d’arte olandese e fiammingo. Fu Blaeu che attirò l’attenzione del M. sul pittore Willem van de Velde il Vecchio, facendo arricchire la collezione medicea di alcuni lavori dell’artista. Nel 1671 il M. inviò ad Amsterdam il suo bibliotecario personale, il canonico L. Panciatichi, per rintracciare un autoritratto di Palma il Vecchio, oggi conservato nel corridoio vasariano degli Uffizi.
Un ruolo del tutto particolare nel collezionismo del M. ebbe Filippo Baldinucci per l’acquisizione di stampe e per la sistemazione della collezione d’opere d’arte. Baldinucci cominciò a collaborare con il M. intorno al 1665; non si limitò alle perizie, impegnandosi in una laboriosa classificazione, sulla base della quale venivano avviate indagini esplorative col fine di arricchire la collezione di nuovi artisti. Per le monete e le medaglie il M. si servì della consulenza di esperti quali Pietro Ficton, Francesco Gottifredi, Francesco Cameli e Leonardo Agostini; segnalazioni e perizie gli venivano anche da Annibale Ranuzzi e Ferdinando Cospi.
Per ciò che riguarda la libreria privata, nel 1666 il M. nominò Panciatichi bibliotecario personale, ma il compito di arricchire la sua collezione spettava a Magliabechi, responsabile degli acquisti di libri per tutte le raccolte medicee, a cominciare da quella dei granduchi Ferdinando II e Cosimo III, anche se ufficialmente i bibliotecari furono rispettivamente Francesco Rondinelli, fino alla morte nel 1665, e Alessandro Segni. La prima testimonianza di acquisti librari da parte del M. risale al 1638, per tramite del residente toscano a Parigi Ferdinando Bardi. Secondo la testimonianza di Magliabechi, la biblioteca del M. si qualificava, insieme con quella del granduca, come «la più copiosa per quantità, la più universale per la varietà e la più insigne per la qualità de’ libri che qua si ha» (lettera ad A. Aprosio, Firenze, Bibl. nazionale, Magl., X.63, cc. 1v-2r) anche se, aggiungeva, il M. metteva liberalmente a disposizione i suoi libri senza preoccuparsi di riaverli. Alla sua morte il M. lasciò i suoi libri in usufrutto al nipote Francesco Maria, con l’obbligo di non smembrare la raccolta, destinata a passare nelle mani del granduca regnante alla sua morte. Attualmente si trova, per la maggior parte, nel Fondo Magliabechiano della Biblioteca nazionale di Firenze e, in minima parte, nella Biblioteca universitaria di Pisa.
Il M. fu generoso verso poeti e letterati. Molte sono le opere pubblicate per suo interessamento: per esempio quelle del friulano Ciro di Pers, che lo considerò suo protettore; oppure quelle di Famiano Michelini, suo precettore, al quale finanziò la pubblicazione del Trattato della direzione de’ fiumi (Firenze 1664); infine concedette una pensione al letterato Pietro Petri. Compose e diresse egli stesso la rappresentazione di commedie a palazzo Pitti, come attestano lettere dei familiari. Fu protettore del sodalizio degli Adamisti, dei Cimentati, degli Infuocati al teatro del Cocomero e forse degli Imperfetti, ma principalmente del sodalizio degli Affinati, per i quali intorno al 1650 fece edificare un teatrino al primo piano di palazzo Medici in via Larga. Tra le commedie recitate dagli Affinati ve ne sono alcune di Pietro Susini, accademico apatista e prolifico commediografo, nonché aiutante di camera dello stesso Medici. Il M., più che impresario diretto, sostituì negli incarichi i fratelli Giovan Carlo e Mattias quando essi, avviato uno spettacolo, si trovavano impediti dal portarlo a termine perché impegnati in affari di Stato. Così, nel febbraio 1666, quando Mattias si trovava a Pisa, fu il M. a portare a termine l’allestimento di una commedia (Don Massimiliano), in onore di Massimiliano di Baviera e rappresentata al teatro del Cocomero. Il teatro degli Affinati fu smantellato intorno al 1660, quando palazzo Medici fu venduto al marchese Gabriello Riccardi, già residente granducale presso la S. Sede, e si trasferì, con l’Accademia, presso il Casino di S. Marco, dove furono allestiti altri spettacoli, e da quel momento gli affiliati si appellarono Accademici del Casino. Protettore degli Affiliati e del Casino di S. Marco, così come di quella degli Imperfetti dopo la morte del M., divenne il nipote Francesco Maria, anch’egli appassionato di teatro e di opera musicale.
Fonti e Bibl.: Firenze, Arch. dell’Accademia della Crusca, Carte card. Leopoldo, classi I-V; Diario, cod. 24; Miscellanee sec. XVII-XVIII; Carte Medici de’, card. Leopoldo, scatola 2; Osservazioni e spogli, codd. III-V; Spogli e annotazioni, cod. IX; Spogli e osservazioni, cod. XIV; Carte Segni, cc. 9-10; Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, Serie III, 14; 93, d; 199, b; 205, a; Depositeria generale, Parte antica, c. 614; Guardaroba medicea, 741, 799, 826; Istituto dei nobili, cc. 15-17, 19 s., 26; Manoscritti, cc. 136-138; Mediceo del principato, cc. 5174, 5184, 5256, 5287, 5308, 5311, 5355 s., 5374 s., 5377, 5379, 5392-5394, 5420, 5460, 5489, 5496, 5498 s., 5500-5575a-b, 6108, 6145, 6608; Miscellanea Medicea, ff. 3, inss. 1-3; 5, inss. 2-3; 9, ins. 74; 14, ins. 14; 31, ins. 8; 34, ins. 37; 40, ins. 22; 45, ins. 1; 48, inss. 7, 30; 55, inss. 4, 6; 62, ins. 2; 63, ins. 1; 94, inss. 5, 6, 24; 97, ins. 21; 99, ins. 35; 106, ins. 30; 125, ins. 1; 165, ins. 50; 195, ins. 4; 368; 376; 439, 442, 444 (Diario di etichetta); Carteggi d’artisti, 3-21; Firenze, Biblioteca Marucelliana, Redi, 7, cc. 45-70, 96-99, 106-153; Biblioteca Medicea Laurenziana, Acquisti e doni, 473: Memoria de’ trattamenti che usa il…principe L. di Toscana con ambasciatori…memorie del sen. Lorenzo Strozzi, maestro di camera del principe card. L.; 656: Lettere ad A. Marchetti; Ibid., Biblioteca Moreniana, Autografi (Raccolta Frullani), 1235-1237; Ibid., Biblioteca nazionale, Zibaldone baldinucciano, Mss., II, III, 110; Autografi Palatini, Lettere autografe, I, nn. 40, 43 s., 49-71, 73 s., 110-115, 121-145; II, nn. 2-5, 12, 14 s., 17-19, 21 s., 24-43, 45-48, 58, 61, 63 s., 67, 70, 78 s., 83; III, nn. 1-161; IV, nn. 1-39, 50-63, 65-72, 76-100, 102-105, 108-121, 124-128, 130-179, 190-191; V, nn. 34-50, 52, 68-110, 114-120, 132-137, 139-165, 184; VII, nn. 50, 56-60, 65, 68 s., 76 s., 80; Autografi Palatini Magliabechi, Lettere, 1-19; Baldovinetti, 127, 252, 256-258; Carteggi vari, 52, nn. 92-94; 59, n. 144; 447, n. 56; 498, n. 4; Magl., VIII.632, 718; VIII s. I, t. 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A. Mirto