SORMANI, Leonardo
– Non si conosce la data di nascita di questo scultore, la cui personalità artistica è stata oggetto di un singolare fraintendimento delle fonti antiche.
Nella vita di Leone Leoni, Giorgio Vasari parla di un «Lionardo Milanese», autore di un S. Pietro e di un S. Paolo eseguiti per la cappella del cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano in S. Pietro in Montorio a Roma (Vasari, 1568, II, 2006, p. 845). Più tardi, Giovanni Baglione dedica una vita a un «Lionardo da Serzana scultore», noto soprattutto come ‘restauratore’ di marmi antichi, e autore del sepolcro di Niccolò IV in S. Maria Maggiore a Roma, dell’effigie tombale di Pio V e delle statue dei Ss. Pietro e Paolo nella cappella del Presepio di S. Maria Maggiore, e del Mosè all’Acqua Felice a Termini. Il biografo, tuttavia, omette i due Santi Ricci (Baglione, 1642, p. 90). Tale differenziazione dei cataloghi ha generato un sostanziale sdoppiamento d’identità nelle fonti più tarde, che distinguono tra il baglioniano «Lionardo da Sarzana scultore» e un «Leonardo Sormani», alias il «Leonardo Milanese» vasariano. A quest’ultimo Giovan Vincenzo Verzellino (1673, 1974, p. 119) e Raffaele Soprani (1674, p. 55) riferiscono ancora il S. Paolo Ricci, la base della statua equestre del Marco Aurelio in Campidoglio, la vasca della fontana di piazza della Rotonda presso il Pantheon, e una Venere commissionata dal cardinale di Montepulciano.
Un’attenta rilettura di documenti noti ha recentemente ricucito l’equivoco. Secondo un rogito carrarese del 1529, un certo Berto di Sante da Spicciano affidò per cinque anni il figlio Leonardo allo scultore Pace Antonio Sormano da Osteno «episcopatus Mediolanensis, habitante Savona», per imparare «artem marmoris quadratariam et muratoris et architecturae» (Campori, 1873, p. 364). Tale rapporto di discepolato risulta rinnovato due anni dopo (ibid.). Un documento del 1561 ricorda la divisione dei beni del «quondam domini Paxantonii de Hosteno» tra il «providus vir Leonardo Sormanus Savonensis marmorum sculptorum» e i fratelli Giovan Antonio, Battista e Giovan Andrea Sormani (ibid.). Si è dedotto che Leonardo di Berto da Spicciano, affiliato alla bottega di Pace Antonio Sormani – uno scultore e architetto di origine comasca operante soprattutto a Savona – dovette venir adottato da costui, forse a causa della precoce scomparsa del genitore. Presto acquisì il cognome del maestro – secondo un costume piuttosto frequente all’epoca – e il diritto a una partecipazione del patrimonio della famiglia alla morte del Sormani senior (Picci, 2007, pp. 20 s.). Assumendo che nel 1529 Leonardo avesse compiuto gli otto-dieci anni necessari all’apprendistato, si dovrà porne la data di nascita verso il 1520. L’origine palesemente lombarda del cognome Sormani o Sormano (piccola località in provincia di Como) spiega il soprannome vasariano di «Lionardo Milanese»; mentre la presunta nascita presso Spicciano, all’epoca appartenente alla diocesi di Luni-Sarzana, giustifica il baglioniano «Leonardo da Sarzana», ricordato anche in alcuni documenti romani.
Nel 1550 Sormani era a Roma, dove avrebbe trascorso gran parte dei quattro decenni successivi. Un documento del 14 maggio di quell’anno attesta il suo primo incarico per la decorazione in stucchi del cortile maggiore di palazzo Capodiferro, al cui cantiere presero parte Giulio Mazzoni, lo spagnolo Diego de Fiandra e il fiorentino Tommaso del Bosco. Alla mano del duo Sormani - Del Bosco si sono riferite la facciata nord-est del palazzo, il fregio dell’attico, le due statue di Giove e Giunone, dallo «stile archeologico, piuttosto compatto, asciutto ed un po’ secco nella definizione dei volumi», e il Nettuno sulla facciata nord-ovest (Cannatà, 1991, pp. 88, 91).
Fu tuttavia attraverso il restauro dell’antico, attività assai usuale fra gli scultori lombardi ai primi passi nell’Urbe, che Sormani riuscì a ritagliarsi una certa visibilità tra i collezionisti dell’epoca. Alcuni documenti degli anni 1551-55 elencano un gruppo di marmi che lo scultore «acconciò» per il pontefice Giulio III del Monte nella sua villa Giulia, sotto la supervisione di Bartolomeo Ammannati. Tra gli altri, spiccano un busto di Ottaviano Augusto con la testa in bronzo, una coppia stante di Marte e Venere (Falk, 1971, p. 162, doc. 635), un «Hercole venuto da Civita Lavinia» (Lanuvio) e una Venere con Cupido (ibid., doc. 653), quest’ultima di recente riconosciuta in una stampa del 1558 di Gabriel Simeoni (Davis, 2014, p. 281). La notorietà che lo scultore acquisì presto gli valse una particolare menzione di Ulisse Aldrovandi (1556, 2009), il quale nel 1556 descrisse meticolosamente ben ventidue marmi antichi custoditi «in casa di maestro Lionardo scultore presso l’Arco Camillo» (pp. 112 s.). Baglione, invece, annovera Sormani tra gli «ingegni» che «hanno poi studiato d’impiegare le lor forze [...] al restauramento di quelle statue [...] e ritornarle al vecchio splendore; e certamente per loro si sono mantenute le idee dell’antica scultura» (Baglione, 1642, p. 90).
Subito dopo il completamento dei lavori in villa Giulia, Sormani entrò in contatto con Daniele Ricciarelli da Volterra. L’occasione d’incontro dovette essere propiziata nel 1556 dal cantiere per l’allestimento marmoreo del portale di Castel Sant’Angelo, per il quale Ricciarelli eseguì un S. Michele Arcangelo (Vasari, 1568, II, 2006, p. 682; Pugliatti, 1984, p. 167 nota 454) e Sormani un S. Paolo (Bertolotti, 1884, p. 99). Entrambe le opere non sono più rintracciabili.
Su progetto e supervisione di Daniele, Sormani eseguì il S. Pietro e il S. Paolo per la cappella del cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano in S. Pietro in Montorio. Assegnate alla mano del sarzanese già da Vasari, l’attribuzione è oscillata a lungo nelle fonti successive. Verzellino, Soprani e Filippo Baldinucci, in particolare, riferiscono a Sormani il solo S. Paolo, «che s’appoggia sulla curvata spada per la gravezza del peso che sostiene» (Verzellino, 1673, 1974, p. 119). Il rinvenimento a Darmstadt di un ‘cartonetto’, cioè un disegno preparatorio per il S. Pietro Ricci (Barolsky, 1979, p. 104), ha rafforzato l’attribuzione di quest’opera, di più pregiata fattura, al solo Ricciarelli (Pugliatti, 1984, pp. 178-181). Non vi è ragione, in verità, di dubitare della testimonianza di Vasari, amico di Daniele, e ben informato sulle maestranze operanti nella cappella Ricci, la quale era stata progettata dal volterrano proprio su modello di quella ideata dall’aretino pochi anni addietro per i Del Monte, nella medesima chiesa.
I lavori della cappella Ricci si estesero all’intero decennio 1556-66, con significative interruzioni negli anni 1556-57 (soggiorno di Ricciarelli a Carrara), 1561-62 (lavori di Ricciarelli presso la Sala Regia in Vaticano) e 1564-66 (progetto per il monumento equestre di Enrico II, copertura delle nudità del Giudizio Universale di Michelangelo, morte dell’artista). La dedizione di Daniele alle opere che in quegli anni assorbirono i suoi principali interessi – particolarmente il busto bronzeo per la tomba di Michelangelo a S. Croce e il progetto per la statua equestre di Enrico II (Donati, 2010, pp. 302 s.) – dovettero favorire la delega dei S. Pietro e S. Paolo Ricci a Sormani (Treves, 2001, p. 43). La datazione delle due statue sembra potersi restringere al lasso 1562-68. Verso il 1561-62, infatti, Sormani, «sculptore in alma urbae Romae habitatore», è documentato a Carrara per la scelta di marmi (Campori, 1873, p. 364), forse proprio in vece di Ricciarelli, impegnato nella Sala Regia vaticana; nel 1568 «Lionardo Milanese» riceveva da Ricci un pagamento senza causale, verosimilmente a saldo dei lavori conclusi quell’anno stesso (Pugliatti, 1984, p. 179, nota 571).
L’attività di Sormani a servizio di Ricci dovette proseguire oltre i lavori presso la cappella di S. Pietro in Montorio. Almeno uno dei pagamenti senza causale del 1556, 1558 e 1570, rintracciati presso l’archivio Ricci-Parracciani (ibid.), potrebbe riferirsi alla commissione di una «bellissima Venere fatta d’ordine del cardinale di Montepulciano, nella quale così al vivo espresse Leonardo gl’effetti dell’animo, che fu da tutti giudicata impareggiabile, e meritò d’esser mandata in dono al monarca delle Spagne, dal quale fu fatta riporre fra le scolture de’ più esquisiti maestri» (Soprani, 1674, p. 55). Tale Venere giunse effettivamente in Spagna nel 1561 e fu recapitata al sovrano Filippo II tramite gli scultori Giovan Battista Bononome e Giovan Antonio Sormano, fratello (adottivo) di Leonardo; i due risultano «escultores de su Majestad» nel 1566 (Deswarte-Rosa, 1990, p. 54). L’opera non è stata identificata.
Alla morte del Volterrano il ligure dovette avvicinarsi alla bottega dei Della Porta, con i quali avrebbe collaborato a più riprese negli anni a venire. Un progetto per la tomba del pontefice Pio IV, conservato presso il Victoria and Albert Museum di Londra e di recente restituito a Gugliemo Della Porta, reca significativamente in calce la firma «Leonardo da Sarzane Scult.re» (Schmidt, 2009). Un altro disegno custodito presso il medesimo museo, tratto dalla sepoltura di Paolo III Farnese, capolavoro di Della Porta, è stato invece attribuito a Sormani (Gramberg, 1984, p. 280, fig. 17).
I legami artistici con il maestro di Porlezza, tuttavia, sono rintracciabili soprattutto nei ritratti scolpiti dal sarzanese. L’effigie del cardinale Rodolfo Pio da Carpi nella cappella Orsini-Caetani a Trinità dei Monti costituisce una delle opere più raffinate del catalogo di Sormani, il cui «scalpello si fa finissimo nella bordatura del piviale, nell’indice proteso della mano destra, nella definizione dei lineamenti» (Ioele, 2012, p. 159).
L’accento naturalistico che connota l’effigie del vegliardo, raffigurato con una folta e morbidissima barba, la testa rivolta verso il riguardante, gli occhi intensamente espressivi, sembra non poter prescindere da modelli dellaportiani come i ritratti funerari di Carlo e Federico Cesi in S. Maria Maggiore e di Odoardo Cicada in S. Maria del Popolo.
La tomba del cardinale Pio, collezionista di grande cultura e intimo amico del cardinale di Montepulciano – al quale nel 1560 inviava un gruppo di busti antichi, Alessandro Magno, Annibale, Socrate e Cesare, che sarebbero stati spediti successivamente in dono al re Filippo II (Deswarte-Rosa, 1990, p. 53, nota 7) – fu commissionata nel 1567 (Lanciani, 1907). Una tarda quietanza del 22 dicembre 1601 attesta il completamento dei lavori d’arredo del sacello a opera di Giovan Battista Della Porta (Ioele, 2016, p. 199), alla cui bottega si dovrà forse riferire anche la sepoltura gemella con busto di Cecilia Orsini (1575 circa), zia di Rodolfo Pio.
Al 1567 risale anche la commissione a Sormani di un monumento funebre dedicato «alla buona memoria del cardinale di Missina» (Antonio Cancellaro?), da eseguirsi su modello di quello del cardinale Roberto Nobili in S. Pietro in Montorio (Pugliatti, 1984, p. 180, nota 507). L’opera non è più rintracciabile.
L’esecuzione dei marmi per la sepoltura di Niccolò IV in S. Maria Maggiore, raffiguranti il Pontefice, la Giustizia e la Fede, cade nella prima metà degli anni Settanta. L’opera fu commissionata dal cardinale Felice Peretti Montalto (futuro papa Sisto V) a seguito del rinvenimento dei resti del pontefice francescano, durante il rifacimento del pavimento della basilica liberiana nel 1572. Ottenuto il permesso di erigere la tomba presso l’altare maggiore nel gennaio del 1573, i lavori ebbero inizio quasi subito. Le guide antiche attribuiscono concordemente il progetto del monumento a Domenico Fontana, architetto di fiducia di Peretti (Baglione, 1639, 1990, p. 187). Un contratto del 25 marzo 1573 riferisce la messa in opera, con la scelta dei materiali e la misura degli elementi architettonici e delle statue, ad Alessandro Cioli, «magister Florentinus scarpellinus in Urbe artifex». Nel documento si fa riferimento anche a una pianta e a un disegno con alcuni elementi da definire; erano già previste inoltre le statue della Religione e della Giustizia, «con gli ornamenti et attitudine a beneplacito di detto illustrissimo cardinale». Cioli si impegnava a «dar finita l’opera di tutto punto, murata e collocata» nel giugno 1574; entro la fine di quell’anno dovettero essere collocate anche le statue di Sormani (Cannata, 1993, p. 403). La critica si è rivelata piuttosto severa nei confronti del ligure, «scalpellino ordinario e facilone, che mostra tutta la sua povertà nella statua seduta del pontefice, nella veste di carta spiegazzata sotto il manto di grosso cuoio, negli occhi spaventati, nelle grosse labbra imbronciate, nelle borse del modellato duro e gonfio, nel gesto impacciato della mano a spatola» (Venturi, 1935, p. 588).
L’innegabile debolezza formale delle figure per la sepoltura – dal 1746 traslocata presso il muro sinistro di accesso alla basilica – sembra legarsi più a una scarsa abilità del sarzanese nel disegno di figura che a imperizia tecnica. Le migliori opere su scala monumentale del catalogo dello scultore risultano infatti quasi sempre eseguite su progetto di maestri più dotati nel disegno, come il Ricciarelli negli anni Sessanta, e Prospero Antichi da Brescia negli anni Ottanta.
Fonti e documenti riferiscono alla collaborazione con Antichi un gruppo di opere della stagione sistina (1585-90). Il S. Paolo, commissionato da Peretti per la cappella del Presepio in S. Maria Maggiore nel 1583, fu approntato nel modello in creta dal Bresciano presso «le botteghe delli scultori Panzani a Termini», e completato tra il 1587 e il 1588 da «mastro Leonardo Sormanno, che il detto Bresciano la finì mai, qual era troppo grossa» (Bertolotti, 1884, pp. 103 s.). Identica sorte toccò al S. Pietro, collocato in situ nel 1589. Nella Cappella Sistina Sormani ebbe anche un doppio ruolo di coordinazione delle maestranze e di amministrazione dei pagamenti dovuti per le statue di S. Antonio di Padova, S. Francesco, S. Domenico e S. Pietro martire, rispettivamente eseguite da Pietro Paolo Oliveri, Flaminio Vacca, Giovan Battista Della Porta e Giovan Antonio Paracca di Alessandro, detto il Valsoldo (Lombardi, 1993, p. 391).
Risale agli anni del sodalizio con Antichi l’accidentata messa in opera del Mosè alla fontana dell’Acqua Felice a Termini, «che da Prospero Bresciano fu assai infelicemente condotta». Secondo Baglione (1642), l’opera fu eseguita «maggiore del naturale [...] e la cagione dell’errore fu che lo volse lavorare colcato in terra, dove egli non poteva scorger le vedute e le alterationi de’ siti [...]; et in questa statua perdé egli tutto l’honore che haveasi acquistato per li tempi andati in tante e sì nobile fatiche» (pp. 42 s.). Due pagamenti del gennaio e del settembre 1588 attestano la compartecipazione di Sormani «a buon conto della statua del Moyse», per un totale di 1000 scudi (D’Onofrio, 1986, p. 216): il primo acconto, di 550 scudi, risulta indirizzato a entrambi gli artisti; il secondo, di 450 scudi, al solo Sormani. La ripartizione dei pagamenti sembra corrispondere a quella dei ruoli, che vuole nel Bresciano l’esecutore del modello preparatorio in gesso o in argilla, e in Sormani il traduttore nel marmo, secondo uno schema collaudato. Se i documenti chiamano Sormani a ‘concorso di colpa’ con Antichi per il fallimento del Mosè (Ostrow, 2006, p. 267), il ruolo prammatico di mero esecutore di un progetto altrui tende parzialmente a scagionarlo. La fontana, ideata da Domenico e Giovanni Fontana e inaugurata solennemente nel 1587, fu completata solo tra il 1589 e il 1590 con l’alloggiamento del Mosè (1588), dei rilievi marmorei laterali raffiguranti Giosuè fa attraversare il Giordano agli ebrei (1589), di Flaminio Vacca e Pietro Paolo Olivieri, e Aronne conduce il popolo ebreo assetato (1590), di Giovan Battista Della Porta, cui spetta anche la coppia di putti reggiscudo in apice (D’Onofrio, 1986, pp. 216 s. nota 8).
Allo stesso periodo risale la collaborazione con Tommaso Della Porta il Giovane per il «modello di creta» di ciascuno dei colossi in bronzo dorato dei Ss. Pietro e Paolo, rispettivamente eretti sulle colonne di Traiano e di Marco Aurelio. La duplice commissione, affidata dal pontefice Sisto V in prima istanza allo scultore toscano Costantino de’ Servi nell’autunno del 1585, fu poi riassegnata da Domenico Fontana a un «suo paesano» – presumibilmente Della Porta (Gaye, 1840, p. 473). I due bronzi, fusi da Bastiano Torrigiani, furono stimati da Prospero Bresciano, Pietro Paolo Olivieri e Feliciano Folignati, e innalzati nell’autunno del 1588 (Petraroia - Lombardi, 1993, p. 407).
Sormani dette migliore prova delle sue capacità artistiche nella ritrattistica. L’effigie del pontefice Pio V, al centro del maestoso monumento funebre nella cappella del Presepe in S. Maria Maggiore, costituisce l’opera più nota e riuscita del suo catalogo. Commissionata nel 1586 da Sisto V – che aveva disposto l’erezione della stessa cappella «per riporvi il cadavero di Pio V, con spesa di 25 mila scudi» (Orbaan, 1910, p. 289) – la statua fu alloggiata nel giugno del 1587 (Baglione, 1639, 1990, p. 176 nota 73).
Il pontefice è solennemente seduto sul trono petrino, con la destra levata in atto di benedire, la tiara in capo. Un ampio piviale avvolge le spalle e le ginocchia in massicce pieghe di largo movimento, formanti profonde concavità e zone d’ombra. Un’aria «timida e contenuta» (Pope Hennessy, 1970, p. 90), più legata alla funzione ufficiale del ritratto che al carattere invero deciso e intransigente del pontefice domenicano, connota acutamente il volto senile, «fin troppo lungo e affilato» (Petraroia, 1993, p. 386), dagli occhi incavati, le orbite profonde, gli zigomi sporgenti, la barba a fili lunghi e secchi.
Sormani collaborò con Nicolas Pippi d’Arras, Andrea Brasca e Francesco di Pietrasanta, ai quali spettano i rilievi narrativi della vita del pontefice (p. 387). L’assegnazione al ligure del marmo più importante non solo del monumento funebre, ma anche dell’intera cappella, evidenzia la considerazione di cui egli godeva all’epoca (Pugliatti, 1984, p. 181).
A Sormani è stato attribuito un busto di Pio V, già di proprietà Orfini di Foligno (di cui Pio V era protettore), ceduto dal 1979 al Museo nazionale dell’Umbria a Perugia (Santi, 1985). I preziosi marmi colorati che descrivono il busto – il piviale, recante quattro placche prive di rilievo, è in un fastoso marmo rosso; la fibbia che lo chiude è in giallo antico – rendono l’opera un unicum del catalogo dell’artista e l’avvicinano al modello dei busti policromi di Paolo III Farnese, di Guglielmo Della Porta, oggi conservati nel Museo di Capodimonte a Napoli.
L’accento altamente naturalistico del volto di Pio V, dalle orbite infossate, gli zigomi ossuti, le labbra serrate, ha suggerito una derivazione da una maschera mortuaria del papa, della quale verosimilmente disponeva il committente del busto, il cameriere segreto del pontefice Giustiniano Orfini (Zalabra, 2014, p. 140).
La mano di Sormani va riconosciuta anche nel ritratto funebre di Paolo Odescalchi in S. Girolamo della Carità a Roma (1585 circa), i cui connotati appaiono assai prossimi a quelli del Pio V nella basilica liberiana (Pressouyre, 1984, p. 451).
Un documento privo di data, rinvenuto presso l’Archivio storico Capitolino, ha recentemente restituito allo scultore la statua in trono di Paolo III Farnese, già eretta per il palazzo senatorio in Campidoglio e traslata nel 1876 presso la vicina chiesa di S. Maria in Aracoeli. L’opera è stata datata verso gli anni 1543-49, agli inizi della carriera romana del sarzanese, sulla base di notizie indirette (Farina, 2016, pp. 65-70), ma la molteplicità di consonanze stilistiche con le effigi dell’Odescalchi, in particolare, e di Niccolò IV e di Pio V in Santa Maria Maggiore, ne fanno più verosimilmente un prodotto maturo dei primi anni Ottanta del Cinquecento.
Il busto di Paolo Emilio Cesi, oggi nel Museo di Roma a palazzo Braschi, fu affidato a Sormani nel 1577. Faceva parte di un gruppo di «sei teste di marmo con li petto et peduccio di sotto a la misura» destinate ai «nicchi fatti sopra le porte della sala grande della fabrica di Cantalupo», cioè il palazzo di famiglia (oggi Camuccini) a Cantalupo in Sabina. Da contratto i ritratti avrebbero rappresentato il «cardinale Federigo e […] Sua Signoria illustrissima», cioè il committente Pier Donato Cesi, e il «cardinal Paolo [Emilio Cesi]»; «et l’altre tre restanti farle nel modo che li sarà ordinato da Sua Signoria illustrissima» (Bertolotti, 1884, p. 103; Nocchi, 2015, p. 92, nota 37). La critica ha riconosciuto particolarmente i ritratti di Federico di Angelo Cesi e di Pier Donato Cesi in due busti già esposti presso la Heim Gallery di Londra nel 1978 (Davis, 2014, pp. 278 s.); quello di Paolo Emilio Cesi era stato erroneamente identificato in precedenza come Pio V (Riccoboni, 1942, p. 97).
Nelle tre effigi Cesi, eseguite per indicazione contrattuale su modello del Rodolfo Pio da Carpi, si riconoscono le caratteristiche tipiche della ritrattistica di Sormani, avvezza a cogliere gli accenti fisionomici più realistici, difetti fisici inclusi (Federico Cesi è raffigurato con un bozzo sulla fronte).
L’attività di marmoraro stricto sensu e di restauratore dell’antico accompagnò l’intera carriera romana dello scultore. Nel 1569-70 egli lavorava a un’Amazzone, una Diana e un Polluce destinati al giardino di villa d’Este a Tivoli (Occhipinti, 2009, p. 209). Nel 1570 riceveva 10 scudi per l’esecuzione delle armi pontificie «incise sculptae et supra Portam Dohanae» (Bertolotti, 1884, p. 102). Al 1576 risale il «vaso de pietra mischia affricana che ha fatto per la Piazza della Ritonda» (ibid.), cioè «la vistosa fontana divisata con ottima regola e simmetria» in piazza del Pantheon ricordata dalle fonti (Soprani, 1768). Del 1577-78 è il «piede della taza della fonte del Populo, che lui fa di marmo» (Pecchiai, 1944, pp. 45, 79). Nel 1581 restaurava per Ciriaco Mattei una «Dea della abondatia», cioè una Cerere, «di marmo negro con li vestimenti d’alabastro cotognino», forse destinata alla collezione della villa Celimontana (Nocchi, 2015, p. 92, nota 42). Al 1583 risale una Minerva, già alloggiata nella nicchia al centro della fontana tra i fiumi Tevere e Nilo in piazza del Campidoglio, e sostituita nel 1593 da una Pallade seduta in porfido, di dimensioni notevolmente più piccole; la Minerva di Sormani si conserva tuttora nell’atrio sinistro di accesso al palazzo dei Conservatori (D’Onofrio, 1992, p. 258, nota 22). Degli anni 1589-90 è infine il restauro dei «cavalli e giganti di Monte Cavallo», in collaborazione con Flaminio Vacca e Pietro Paolo Oliveri (Bertolotti, 1884, p. 106).
Non si hanno più notizie dello scultore dopo il 1590.
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