SAVIOLI, Leonardo
SAVIOLI, Leonardo. – Nacque a Firenze il 30 marzo 1917. Il padre, Socrate, era disegnatore meccanico delle ferrovie; la madre, Isabella Angelini, gestiva una modisteria.
Nel 1935 conseguì la maturità classica e si iscrisse alla facoltà di architettura, dove si laureò il 13 febbraio 1941. Giovanni Michelucci fu maestro nella sua formazione e riferimento nelle sue prime esperienze professionali. Subito dopo la laurea, Savioli cominciò a svolgere attività presso l’istituto di urbanistica, prima come assistente volontario e poi, dal 1945, come incaricato della cattedra di urbanistica.
Già dagli esordi s’interessò all’architettura, alla grafica e alla pittura: i tre ambiti si intrecciarono sviluppandosi con esiti diversi nel tempo e furono gli strumenti attraverso i quali diede forma a una produzione sensibile alle istanze culturali e sociali contemporanee, nella quale modernità d’avanguardia e matrici storiche coesistevano.
Tra il 1940 e il 1945, quando visse isolato per alcuni periodi a causa di una malattia, realizzò una serie di disegni con soggetti umani e naturalistici ed elaborò gli studi teorici della ‘Città ideale’ (1943-45). Nel dopoguerra collaborò con Giuseppe Gori e Leonardo Ricci, partecipando ai concorsi per la ricostruzione dei ponti di Firenze e per le zone distrutte intorno al Ponte Vecchio. Per quest’ultimo, il progetto di Savioli, Gori, Ricci ed Emilio Brizzi s’intitolava Firenze sul fiume: la proposta risentiva dei coevi schizzi di Michelucci per le stesse aree ed era caratterizzata dalla separazione tra flussi carrabili e percorsi pedonali, al primo piano, che favorivano la socialità. Con Ricci e Gori partecipò a concorsi di architettura e di urbanistica finalizzati alla ricostruzione di ponti o alla riqualificazione di aree urbane in altre città, compì le sue prime opere tra cui il ponte sul Bisenzio a Signa (1947), e cominciò a lavorare agli allestimenti per le mostre dell’artigianato a Firenze. Questa fase fu segnata dalla vittoria del concorso per il mercato ortofrutticolo di Pescia (1948-56), in collaborazione con Brizzi, Enzo Gori, Giuseppe Gori e Ricci. L’edificio fu premiato nel 1953 all’Esposizione internazionale di architettura di San Paolo del Brasile.
Nel 1949 Savioli cominciò a lavorare con Edoardo Detti e Danilo Santi. I tre realizzarono alcune ville e parteciparono al concorso per la sistemazione urbanistica e architettonica di una zona residenziale a Savona (1949). Con Detti, Savioli condivise anche il lavoro sul piano regolatore di Firenze (1949-51), che si qualificava per la pianificazione a scala territoriale, per la salvaguardia delle colline e per le caratteristiche di piano-programma. Il progetto, approvato come studio, non assunse la validità di piano. La collaborazione con Detti terminò dopo questa esperienza. Più prolifico fu il sodalizio con Santi: per vicinanza di interessi e competenze complementari, i due lavorarono insieme fino alla morte di Savioli.
Il 2 settembre 1950 Savioli sposò Flora Wiechmann, nata a Firenze il 27 maggio 1917 da genitori valdesi, creatrice di gioielli e artista: le affinità formali delle loro opere derivarono da sintonia intellettuale e influenze reciproche.
Tra il 1950 e il 1951 Savioli progettò e fece costruire la loro casa, dove il legame con la tradizione toscana coesiste con l’apertura all’astrazione propria della cultura architettonica internazionale. L’opera porta in nuce temi compositivi esplorati in seguito: l’evidenza della struttura a setti in muratura o a telaio in cemento armato, la copertura piana in aggetto, gli sfalsamenti dei tamponamenti, l’accurato disegno degli infissi, lo spazio interno privo di cesure spaziali.
Con il villaggio S. Francesco a Firenze (1951-58) e il villaggio Belvedere a Pistoia (1957-59) per l’INA-Casa, Savioli si confrontò con il tema della residenza collettiva, dove incluse elementi per favorire la dimensione pubblica e sociale dei quartieri. Intanto proseguiva la carriera universitaria: nel 1952 ottenne l’abilitazione ministeriale, confermata nel 1957.
All’inizio degli anni Sessanta, la produzione grafica di Savioli fu fruttuosa. Dapprima i disegni presentarono una componente naturalistica nei grovigli di corpi umani raccolti in nuclei figurali; poi i soggetti divennero astratti, e maggiore fu l’aderenza con la ricerca architettonica nella composizione di linee e campiture tracciate con gesto seriale e connesse con logica additiva. Attraverso la grafica, Savioli sperimentò una nuova spazialità e l’architettura si arricchì. La pensione Sacchelli (1960-63), il progetto di villa Mamias (1961) a Marina di Pietrasanta e villa Sandroni ad Arezzo (1962-64) furono alcuni esiti: la struttura è in evidenza e controllata fino al dettaglio, le adiacenze e gli innesti dei materiali generano elaborate soluzioni volumetriche, il disegno degli infissi è raffinato. Giulio Carlo Argan colse l’origine della metodologia di progettazione di Savioli nell’esperienza figurativa e visiva, e rilevò lo sviluppo intenzionale dell’immagine attraverso la «serialità non-ripetitiva dei segni» (Argan et al., 1966, p. V). Nella produzione artistica, Savioli interpretò l’informale con un approccio debitore della formazione di architetto; perciò le sue opere, pur nell’astrazione gestuale, conservano una struttura compositiva. In concomitanza della Biennale d’arte, Savioli era solito trasferirsi temporaneamente a Venezia, dove conobbe e divenne amico del pittore Emilio Vedova.
Con il piano di fabbricazione per una serie di edifici in via Torcicoda a Firenze (1961-65), tornò a lavorare su complessi di abitazioni: la plastica si arricchì, l’articolazione dei corpi di fabbrica e dei percorsi si fece più serrata. L’idea rimase su carta, ma molte soluzioni furono riprese nel coevo quartiere popolare di Sorgane, a Firenze (1962-78). Qui Savioli sviluppò otto edifici di tipologie diverse e applicò la variabilità nella serie: alcune ricorrenti soluzioni di dettaglio sono declinate con le modifiche opportune e danno vita a un complesso unitario mai monotono. L’edificio INCIS, insignito del premio IN/ARCH nel 1963, è una macrostruttura in cemento armato dotata di ballatoi che terminano in terrazze di uso pubblico per la socialità e l’incontro delle persone.
Alcune architetture della metà degli anni Sessanta manifestarono la piena maturità del linguaggio di Savioli e l’apertura verso nuovi temi di ricerca. Nella casa per abitazioni in via Piagentina a Firenze (1964-67) le volumetrie si compongono in modo libero e la copertura spicca per la sua forma peculiare. Il vano scale, in angolo e privo di aperture, evoca le case torri e costituisce un riferimento visivo. Savioli e Santi misero a punto un pannello prefabbricato per i tamponamenti, dalla sezione ad angolo smussato. Villa Taddei (1964-65), un’abitazione unifamiliare adagiata sulla collina di Fiesole e interamente realizzata in cemento a vista, rivela l’interesse per le opere brutaliste di Le Corbusier: è un oggetto scultoreo ricco di elementi aggettanti e rientranti e formato per aggregazione di nuclei funzionali. Con villa Bayon a Firenze (1965-72) Savioli realizzò un modello per una struttura urbana aperta: la cellula abitativa, ispirata al purismo lecorbusieriano, si sviluppa sotto la copertura pensata come elemento autonomo e porzione di un’intelaiatura ripetibile. Il cimitero di Montecatini Alto (1966-73), lo studio Savioli al Galluzzo (1968-70) e villa Mattolini (1969-77) a Firenze proseguirono nel solco di questa ricerca formale, i cui presupposti furono corroborati da un ripensamento del rapporto tra l’architettura e l’utente.
Negli anni Sessanta, Savioli realizzò anche i suoi più rilevanti allestimenti per le mostre «L’oggetto moderno in Italia» (1962) e «L’opera di Le Corbusier» (1962-63) a palazzo Strozzi, per l’esposizione dei gioielli della moglie Flora (1963) alla galleria La Strozzina, e per «Firenze ai tempi di Dante» (1965) alla certosa del Galluzzo. Nel 1965 partecipò alla mostra collettiva «La casa abitata», dove gli architetti invitati furono chiamati a proporre ipotesi per un ambiente domestico. Savioli realizzò una casa minima per sposi, costituita con arredi fissi e mobili in cemento e con elementi prefabbricati. L’istallazione, in chiara connessione con la coeva esperienza di villa Bayon, fu presentata come cellula abitativa ripetibile all’interno di una megastruttura urbana della quale Savioli portò in mostra una rappresentazione grafica.
Il ponte Giovanni da Verrazzano (1967-71) e il progetto presentato con Santi, Ricci ed Ezio Bienaimè al concorso per la Fortezza da Basso (1967) a Firenze aprirono una nuova stagione nella quale i temi di lavoro inclusero infrastrutture complesse e ambienti multifunzionali, le tecniche costruttive si estesero all’uso delle strutture in metallo, le relazioni tra lo spazio e l’utente si determinarono nella direzione di una maggiore flessibilità. Nell’esplorare le potenzialità dell’aggregazione e del town design, Savioli guardava al lavoro di Kenzo Tange e di Archigram. Questi interessi di ricerca si riversarono nelle esperienze didattiche. Gli studenti erano stimolati a disegnare lo spazio come opera aperta, come luogo di coinvolgimento dell’utente, con un orizzonte aperto alle arti figurative e alla produzione industriale. Savioli contribuì a produrre il terreno fertile che diede vita ai gruppi dell’avanguardia radicale. Gli allievi del corso di architettura degli interni e arredamento (1966-67) elaborarono un Piper, un locale per il tempo libero; i lavori esposti in una mostra dedicata furono pubblicati su Casabella (1968, n. 326) e infine confluirono nel libro Ipotesi di spazio (1972). L’architetto perseguì simili obiettivi nella proposta presentata al concorso per una struttura per il tempo libero a Cannes (1971) e nel progetto per un complesso residenziale a Pomarance (1971-72), dove i corpi di fabbrica sono imperniati su un polo di attrezzature comuni e sono variamente orientati secondo la topografia. Nel frattempo la carriera accademica procedeva: Savioli fu nominato professore straordinario di disegno dal vero nel 1968 e nel 1970 fu trasferito alla cattedra di arredamento, diventando ordinario nel 1973.
Nei primi anni Settanta continuò a sperimentare sulla struttura metallica, adatta alla flessibilità d’uso e alla costruzione di ampie superfici a pianta libera. I concorsi per gli aeroporti di Genova e di Lamezia Terme (1970-71) offrirono l’occasione per immaginare infrastrutture complesse, ma l’opera manifesto di questa fase fu il nuovo mercato dei fiori di Pescia (1970-81). L’edificio si connota per l’espressività tecnologica dell’involucro metallico, ancorato agli alti piloni e posto a delimitare lo spazio dove passerelle e servizi sono disposti liberamente. I progetti per una piscina a Sesto Fiorentino (1973) e per un palazzo per uffici in viale Belfiore a Firenze (1975) esplorarono simili soluzioni costruttive.
In seguito Savioli continuò a ideare complessi integrati conformati in macrostrutture: piante e alzati a matrice triangolare, già apparsi nella proposta per Cannes, diventarono elemento ricorrente, insieme all’articolazione in numerosi corpi di fabbrica con telai strutturali in evidenza e camminamenti in quota. Ne furono esempi il complesso residenziale a Sermoneta (1976) e il centro direzionale di Firenze (1977), entrambi redatti in collaborazione. Questa ricerca approdò nel quartiere di edilizia sovvenzionata Le Fornaci a Pistoia (1980-82), elaborato con Alberto Breschi, Remo Buti, Paolo Galli, Santi e Walter Saraceni. Savioli seguì l’impostazione preliminare, e poi il cantiere proseguì dopo la sua morte.
Nell’intento di realizzare un brano di città ai margini del tessuto urbano, gli architetti si affidarono alla componente simbolica evocando elementi naturali o architettonici come il monte, il fiume, l’isola e la certosa: ne risultò un complesso formato da un edificio a torre, da un edificio a triangolo e da un edificio con andamento curvilineo, articolati secondo un tracciato di assi e nodi imperniati sul sistema connettivo dei percorsi. La grafica che Savioli produsse negli stessi anni presenta affinità segniche nell’uso di direzionalità parallele e ruotate rispetto a una griglia di riferimento: in queste tavole i tratti si fanno affastellati e rappresentano figure umane piccole e ravvicinate oppure elementi astratti, paralleli e fitti. L’insieme, unitario a un primo sguardo, rivela microcosmi e dettagli nella visione più ravvicinata.
L’opera di Savioli fu esibita in mostre collettive e personali. Per l’esposizione tenuta a Faenza (1982), l’ultima prima della sua morte, Savioli scrisse una nota autobiografica dai toni densi di esistenzialismo, attitudine che lo accompagnò sempre nel corso della vita.
Morì a Firenze l’11 maggio 1982.
Opere. Il nuovo piano regolatore, in Urbanistica, XXII (1953), 12, pp. 81-96; Ipotesi di spazio, Firenze 1972 (con L. Vinca Masini et al.).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Fondo Leonardo Savioli; Firenze, Archivio storico dell’Università degli Studi, Sezione studenti, filza 1380, inserto 32407: Fascicolo carriera universitaria di Leonardo Savioli; Sezione docenti, Fascicolo carriera libero docente di Leonardo Savioli; ibid., f. 3; F. Wiechmann Savioli, Le nostre storie dalle mie memorie, Firenze 1999.
G.C. Argan et al., L. S., Firenze 1966, p. V (poi con note a cura di M. Becattini, Firenze 1974); G.K. Koenig, Architettura in Toscana, Torino 1968; P.C. Santini, I protagonisti: L. S. architetto e grafico, in Ottagono, XI (1976), 41, pp. 36-43; F. Brunetti, L. S. architetto, Bari 1982; L. S. grafico e architetto (catal.), Firenze 1982; La Città ideale nei disegni di L. S., a cura di P. Albisinni, Firenze 1986; L. S.: il segno generatore di forma-spazio, a cura di R. Manno Tolu - L.V. Masini - A. Poli, Città di Castello 1995; M. Nocchi, L. S. Allestire arredare abitare, Firenze 2008; Registrare l’esistenza. La pittura e il disegno di L. S. (catal., Monsummano Terme), a cura di C. Paolini - E. Tolu, Firenze 2010; C. De Falco, L. S. Ipotesi di spazio: dalla «casa abitata» al «frammento di città», Firenze 2012; L. Nieri, Arte e architettura. L’esperienza teorica nell’opera di L. S., Firenze 2012.