MONTALDO, Leonardo.
– Nacque a Genova intorno al 1320 da Paolo; si ignora il nome della madre.
La famiglia era originaria dell’Oltregiogo genovese (forse di Gavi), e si vantava di discendere dai signori del castello di Montaldo presso Arquata Scrivia, vassalli dei marchesi di Gavi. La famiglia era di buon livello sociale: quando si trasferì a Genova, sul finire del Duecento, si specializzò nella pratica del diritto, e alcuni suoi esponenti furono giudici e giureconsulti. Erano infatti dottori sia il nonno del M., Guglielmo, sia il padre Paolo, l’iniziatore delle fortune dei Montaldo. Grazie alla sua amicizia con il primo doge Simone Boccanegra, egli riuscì infatti a emergere all’interno del gruppo di ricchi mercanti e professionisti sul quale si basava il nuovo regime, distinguendosi in una serie di importanti missioni diplomatiche, tanto da ottenere la piena esenzione dai carichi fiscali sia ordinari sia straordinari, che nella Genova di metà Trecento era privilegio solo della famiglia al potere e di pochi altri. I legami con i Boccanegra non impedirono tuttavia che, caduto il doge Simone nel 1344, i Montaldo continuassero a consolidare la loro posizione sociale anche sotto i suoi immediati successori, Giovanni di Murta e Giovanni di Valente.
Il M. appare per la prima volta in un atto del 1344, relativo a una causa riguardante l’abbazia cittadina di S. Siro della quale era giudice il padre. Il ruolo del M. in quella vertenza non è chiaro.
Sotto il dogato di Giovanni di Valente, nel 1351, il M. ebbe l’occasione di rivestire per la prima volta una carica pubblica, quando fu inviato nel Mar Nero come console di Caffa.
La sua carriera professionale non appare del tutto lineare, giacché fu indicato dagli autori ora come speziale, ora come notaio, ora come giureconsulto. Quest’ultima ipotesi appare però la più accreditata, giacché nel 1355 ottenne di essere iscritto al prestigioso collegio dei dottori di Genova. La sua ascesa politica coincise con il ritorno al potere di Simone Boccanegra, nel novembre 1355. Già l’anno successivo egli fu infatti inviato come ambasciatore presso il re Pietro di Castiglia e León e nel 1357 il doge lo nominò vicario ducale, ovvero suo giudice delegato in tutte le questioni riguardanti la sicurezza dello Stato.
In quella carica rimase per un biennio, durante il quale continuò peraltro a compiere anche missioni diplomatiche e militari, come quando nell’aprile 1358 fu inviato in Corsica a sostegno delle comunità contadine del nord dell’isola, minacciate dalle prepotenze dei baroni feudali. Impadronitosi del castello di Cinarca, principale roccaforte baronale, il M. condusse trattative con i principali capi locali che condussero, il 12 ottobre di quell’anno, alla solenne dedizione della Corsica al Comune di Genova fatta in sua presenza nel castello di Calvi. Poco dopo, il doge lo incaricò di una delicata ambasceria presso l’imperatore Carlo IV, dal quale sperava non solo di trovare appoggio nella guerra che lo opponeva all’Aragona per il possesso della Corsica e della Sardegna, ma anche e soprattutto di ottenere il riconoscimento giuridico del proprio potere. L’esito della missione fu buono. Il sovrano conferì infatti a Boccanegra il vicariato imperiale e il titolo onorifico di ammiraglio, mentre il 7 apr. 1359 elevò il M. alla dignità di conte palatino trasmissibile agli eredi, nobilitando ufficialmente la casa dei Montaldo.
Frattanto, nel marzo di quell’anno, il doge gli aveva affidato la conduzione delle complesse trattative di pace con gli ambasciatori del re d’Aragona Pietro IV, che si tenevano ad Asti, con la mediazione del marchese Giovanni (II) di Monferrato. Durante i colloqui, che si conclusero ufficialmente solo nel 1363, i rappresentanti del re cercarono di ammorbidire le resistenze genovesi con denaro ed elargizioni varie. Il M., che guidava la missione, ricevette in dono alcune terre nel Logudoro, in Sardegna, e questo lo mise in cattiva luce presso il sospettoso doge. Nel febbraio 1360 fu richiamato pertanto a Genova e il suo posto fu preso da Gabriele Adorno, destinato a divenire il suo maggiore nemico. La sostituzione non significò nell’immediato la sua disgrazia politica, tanto che pochi mesi dopo fu nominato vicario di Chiavari, e svolse ancora missioni a Firenze e Venezia. La sua fortuna politica sembrava tuttavia ormai segnata, così che la nomina, nel 1362, a podestà di Pera e capitano generale dei domini genovesi in Romania più che il riconoscimento dei suoi meriti fu in realtà un mezzo per allontanarlo da Genova e tarparne le ambizioni politiche.
La situazione che lo attendeva nel Levante era infatti difficile, perché i Turchi erano ovunque all’offensiva e l’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo appariva ormai incapace di frenarne l’avanzata. Il M. però, che era stato inviato a Pera con appena due galee e pochi uomini, seppe guadagnarsi il favore del basileus, con il quale inaugurò una politica di stretta collaborazione che portò a una serie di successi militari, tra i quali la riconquista della città di Sinope. Il suo comportamento e la sua lealtà piacquero all’imperatore che volle fargli dono di numerose reliquie e, bene più prezioso, del santo «Mandylion», un bianco lino sul quale secondo la tradizione era miracolosamente impresso il volto di Gesù, che il M. lasciò alla sua morte alla chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni in Genova, dove è ancora conservato.
Al rientro in patria trovò un clima per lui niente affatto favorevole. Simone Boccanegra era morto nel marzo 1363, forse avvelenato, e gli era succeduto Gabriele Adorno, appoggiato dai nobili e dal potente gruppo di mercanti. Il nuovo doge estromise il M. da ogni incarico ufficiale di governo. Egli per il momento non prese alcuna iniziativa, ma nel 1365, incitato dai Doria e dai Del Carretto a rovesciare il nuovo governo, cercò con le armi di impadronirsi del palazzo ducale e di farsi eleggere doge. Il colpo di mano fallì per un soffio e il M. pagò a caro prezzo l’insuccesso: la sua casa fu saccheggiata e distrutta ed egli costretto a rifugiarsi a Pisa. Ritentò l’impresa l’anno successivo, ma ancora senza esito e questa volta fu obbligato a ritirarsi in esilio ad Asti, allora in mano ai Visconti. Vi restò fino al 1371 quando, nel frattempo deposto Gabriele Adorno e asceso al dogato Domenico Fregoso, fu richiamato a Genova, dove riuscì a riacquistare il suo antico prestigio.
Eletto ufficiale dell’Annona e, nel 1375, membro del consiglio degli Anziani, fu in seguito associato al prestigioso collegio dei Savi, i consulenti giuridici del Comune. In quella posizione si guadagnò fama di uomo retto e prudente, così che quando anche Fregoso fu costretto nel 1378 a cedere il potere a Nicolò Guarco, il nuovo doge continuò a tenerlo in alta stima e, in considerazione della sua esperienza in questioni orientali, nel 1381 lo nominò capo della delegazione inviata a Torino a trattare con i Veneziani la fine della cosiddetta guerra di Tenedo.
Ciò consolidò ulteriormente il suo prestigio personale e la sua ambizione, del resto mai del tutto sopita, così che egli pensò di accrescere il credito di cui godeva presso il popolo minuto, facendosi ascrivere, lui giurista e nobile per concessione imperiale, alla matricola dei notai, i quali costituivano l’elemento più influente del ceto artigiano. La sua fu una mossa assai abile, anche perché fatta al momento opportuno, con il doge Guarco in grande difficoltà a causa dell’opposizione popolare, che lo accusava di favorire nobili e guelfi. Nel marzo 1383 il malcontento sfociò in tumulti e il M. fu scelto, proprio in rappresentanza degli artigiani, a fare parte di un comitato di otto riformatori incaricati di riportare la pace tra le fazioni, assumendone fin da subito la direzione. In questo ruolo riuscì a convincere Guarco a togliere ai nobili ogni incarico pubblico e ad abrogare le nuove gabelle, ma nonostante questi passi concilianti, l’ostilità della plebe nei confronti del doge non cessò, anche perché abilmente manovrata da Antoniotto Adorno, che aspirava a subentrargli. Alla fine, il 5 aprile, dopo aspri scontri per le vie cittadine, Guarco fu costretto a fuggire, lasciando il possesso del palazzo all’Adorno, il quale rivendicò per sé il dogato.
Per cercare di impedire la cosa, il M. e altri capi popolari decisero di opporre all’Adorno un doge che fosse espressione non di quella sola fazione e dopo breve consultazione, scelsero Federico da Pagana, un artigiano che era stato uno dei riformatori eletti il mese precedente.
Questi fu però ben presto costretto dagli uomini di Adorno a rinunciare, così che il M. convocò una nuova riunione di elettori che, adunatasi nella chiesa di S. Siro, il 7 aprile scelsero lui per doge.
Determinante nel decretare il suo successo fu il fatto che egli volle presentarsi come un pacificatore, che avrebbe dovuto riportare l’ordine e la pace e preparare nuove, più tranquille elezioni. Decise infatti di accettare il dogato per soli sei mesi e questo convinse Adorno a deporre le armi e a riconoscere la legittimità della sua elezione.
Il M., da parte sua, inaugurò il suo governo con uno spettacolare gesto di clemenza, ordinando la liberazione di Giacomo di Lusignano che, fatto prigioniero nel 1374 dai Genovesi, era divenuto re di Cipro, sia pure in cattività, per la morte del nipote Pietro II. La libertà non gli fu peraltro concessa gratuitamente, perché il re dovette firmare pesanti condizioni di pace, con le quali riconosceva piena libertà di commercio ai Genovesi, si impegnava a pagare un tributo annuo e a lasciare in loro mani la città di Famagosta.
Sul piano interno, il M. instaurò un governo rigidamente popolare, ma al tempo stesso tolse il bando ai Guarco e attuò una serie di misure fiscali volte a disinnescare il clima di tensione che si era creato durante il dogato del suo predecessore. Ciò valse a restituire a Genova una tranquillità non più provata da anni, e gli fece acquistare un tale consenso tra la popolazione da consentirgli di superare tacitamente il mandato semestrale che si era fissato all’inizio, senza che nessuno contestasse la cosa: del resto, l’infuriare di una terribile epidemia di peste spopolò per mesi la città, bloccando di fatto ogni attività politica.
Il M. si prodigò per cercare di combattere il dilagare del contagio, ma colpito anche lui dal morbo, il 14 giugno 1384 morì dopo tre giorni di agonia.
Fu uno dei pochi tra i cosiddetti dogi perpetui a morire in carica ed ebbe, nonostante il contagio, solenni funerali di Stato tributatigli dal suo successore Antoniotto Adorno. Si sposò due volte; la prima con Caterina Scaletta e poi con Bartolomea Ardimenti. Ebbe numerosi figli, tra cui Antonio, doge tra il 1392 e il 1394, Paolo, Raffaele e Battista, illegittimo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Notai antichi, cart. 649/I, cc. LXXXV-LXXXVII (not. Antonio Foglietta); Genova, Biblioteca civica Berio, M.r., IX.2.24: O. Ganduccio, Origine delle case antiche nobili di Genova, II, c. 309; VIII.2.30: Alberi genealogici di diverse famiglie nobili di Genova, II, p. 11; Gior. Stella - Giov. Stella, Annales Genuenses, a cura di G. Petti Balbi, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVII, 2, pp. 157, 159-161, 183 s., 186-190; A. Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, II, Alessandria 1854, pp. 98, 101-104, 154-160; U. Assereto, Genova e la Corsica, in Giornale storico e letterario della Liguria, I (1900), pp. 279-281; L. Levati, Dogi perpetui di Genova, Genova 1928, pp. 96-109; G. Petti Balbi, Genova e la Corsica nel Trecento, Roma 1976, pp. 30-33; G. Meloni, Genova e l’Aragona nell’età di Pietro il Cerimonioso, III, Padova 1982, pp. 13 s.; G. Petti Balbi, Simon Boccanegra e la Genova del ’300, Genova 1991, pp. 41, 72, 81, 185 s., 190, 198, 216, 222, 274, 291, 309, 323 s., 340, 368-372; E.P. Wardi, Le strategie familiari di un doge di Genova, Torino 1996, pp. 104, 150, 155; G. Petti Balbi, Una lunga carriera, un breve dogato: L. M. doge di Genova tra il 1383 e il 1384, in Id., Governare la città: pratiche sociali e linguaggi politici a Genova in età medievale, Firenze 2008, pp. 311-322.