LOREDAN, Leonardo
Nacque a Venezia il 16 nov. 1436, primogenito di Gerolamo, detto dal Barbaro, della parrocchia di S. Vitale, e di Donata Donà di Natale, nipote dell'arcivescovo di Candia Pietro. Il L. dimostrò sin dall'infanzia "singolare vetustà, congiunta con la bontà e colla nobilissima indole d'ingegno", come testimoniò lo storiografo Andrea Navagero (Da Mosto, 1966, p. 267). Dopo una buona educazione classica si dedicò con un certo successo al commercio in Africa e in Levante, per incrementare le non floride finanze della famiglia. Leggenda racconta che proprio in Africa un indovino predicesse per lui il futuro di principe in patria.
Ebbe un fratello maschio, Pietro (1466-1510), di cattiva salute e di instabile carattere, dedito a studi di alchimia a Padova, dove si era trasferito, e disinteressato alla vita politica. Nel testamento redatto nel febbraio 1474 a Padova dove era podestà, il padre designò il L. esecutore testamentario e unico erede del non ingente patrimonio, e concesse a Pietro un vitalizio annuo di 250 ducati. Nel 1461 il L. sposò Morosina Giustinian di Pancrazio di Marco, del facoltoso ramo di S. Moisè, che morì prima del 1501, e dalla quale ebbe nove figli: il procuratore Lorenzo (1462-1534), Girolamo (1468-1532), l'unico a perpetuare il ramo, Alvise (1472-1521), Vincenzo (morto a Tripoli nel 1499), Bernardo (1481-1519), Donata, sposa di Giacomo Gussoni da S. Vitale, Maria, sposa di Giovanni Venier, del ramo che diede i natali al doge Francesco (1554-56), Paola, moglie di Giovanni Alvise Venier, discendente del doge Antonio (1382-1400), ed Elisabetta, sposa di Zaccaria Priuli.
Il L. fu approvato in Avogaria di comun il 16 nov. 1453. Iniziò la sua carriera politica con l'elezione, il 13 dic. 1455, alla carica di avvocato dei Giudici di petizion, per la quale ebbe come garante Filippo Loredan di Giovanni. Il 13 nov. 1468 divenne console dei Mercanti e il 27 sett. 1471 fu designato tra gli Auditori novi. Il 15 nov. 1473 fu eletto camerlengo di Comun e nel 1479 provveditore al Sale. Nel 1480, con Marco e Agostino Soranzo, Andrea Erizzo, Paolo Contarini e Nicolò Donà, fu prescelto per amministrare i circa 30.000 ducati, raccolti attraverso libere donazioni di devoti dell'immagine miracolosa della Vergine, da destinare alla costruzione della chiesa intitolata a S. Maria dei Miracoli, in contrada di S. Leone (sestiere di Cannaregio), su progetto di Pietro Lombardo e figli. Nel 1481 fu eletto savio di Terraferma e il 20 ott. 1483 tra gli avogadori di Comun; nello stesso anno, in novembre, fu tra gli elettori del doge Marco Barbarigo. Tra il 1485 e il 1486 fu nominato ancora savio del Consiglio; il 29 apr. 1487 fu chiamato alla carica di podestà di Padova, subentrando ad Antonio Venier, e per tale incarico lasciò la Dominante sino al 1489, quando fu eletto al prestigioso incarico di consigliere dogale. Nel 1490 fu chiamato di nuovo quale savio del Consiglio; il 1° ag. 1491 fu rieletto consigliere dogale per il sestiere di Cannaregio e nel 1492 rientrò come savio del Consiglio. Nel luglio 1492 il L. ottenne l'elezione a una delle cariche più insigni della Repubblica, quella di procuratore di S. Marco de citra, che gli consentì l'ascesa ai vertici politici dello Stato. Il 3 maggio 1493 fu tra i governatori alle Entrate e negli anni 1495-1501 fu rieletto ininterrottamente savio del Consiglio.
Nella veste di procuratore e pure di savio del Consiglio fu tra i tre designati dal doge Agostino Barbarigo per negoziare l'alleanza di mutua difesa stipulata, il 31 marzo 1495, tra Venezia, il papa Alessandro VI, Massimiliano d'Asburgo, i regnanti spagnoli Ferdinando V e Isabella I e il duca di Milano Ludovico Maria Sforza (vi aderì anche Enrico VII d'Inghilterra), con l'obiettivo di contrastare le operazioni militari del re di Francia Carlo VIII che, senza quasi incontrare resistenze, era entrato a Napoli in febbraio. L'esercito della Lega, con a capo il marchese di Mantova Francesco II Gonzaga, nella battaglia di Fornovo del 6 luglio costrinse l'armata francese a ritirarsi dal territorio italiano. Nell'ottobre dello stesso anno il L. firmò l'accordo per la condotta di Nicolò Orsini, conte di Pitigliano, ai servizi della Repubblica di Venezia in veste di governatore generale delle milizie terrestri per la durata di tre-quattro anni. Nel gennaio 1497, sempre il L., di concerto con il savio di Terraferma Lodovico Venier, ratificò a nome del doge la resa di Taranto.
L'11 luglio 1501 fu designato dal Senato podestà a Cremona, carica che però rifiutò. Alla morte del doge Barbarigo (20 sett. 1501), il L. fu uno dei designati alle elezioni, iniziate il 27 settembre, e uscì primo il 2 ottobre (con 27 voti alla sesta mano del primo scrutinio).
L'elezione riuscì grazie alle influenti parentele sue e della moglie e all'improvvisa morte del più quotato avversario, il ricco procuratore Filippo Tron, figlio del doge Nicolò, malgrado la scarsa entità del patrimonio del L. (anche nel 1514 censito per una rendita di soli 297,24 ducati). L'annuncio fu dato dal procuratore Nicolò Mocenigo e festeggiato più dagli eruditi, con numerose orazioni poi date alle stampe, che dal popolo. Sul L. è significativa la testimonianza di Marin Sanuto, fraterno amico di Lorenzo, primogenito del novello doge: "è di facoltà mediocre, da ducati 30 milia, è macilento de carne, tuto spirito, de statura grande, de pocha prosperità; vive con assai regula; è assa' colerico, ma savio al governo di la repubblica; et sempre il coleio le opinion sue, et in pregadi, è stà estimate" (IV, col. 143).
I primi anni del dogato del L. furono contrassegnati da continue vittorie della Repubblica. Già conquistati i porti pugliesi e della Romagna (Cervia, Rimini), rinnovata la pace con il sultano Bājazīd II (14 dic. 1502 e 20 maggio 1503), nella primavera del 1508 la Serenissima intraprese una campagna contro Massimiliano d'Asburgo che le assicurò le città di Trieste, Gorizia e Fiume. Assurta al massimo potere tra gli altri Stati della penisola, Venezia non poté non attirare invidie, rancori e preoccupazioni delle altre potenze europee e in particolare del già sconfitto imperatore che il 10 dic. 1508 stipulò con Luigi XII di Francia un patto di alleanza (Lega di Cambrai) - apparentemente in funzione antiturca, in realtà europea e antiveneziana -, a cui aderì il papa Giulio II (1° apr. 1509) e, su suo esempio, Ferdinando V, l'Inghilterra, l'Ungheria e, per gli Stati italiani, Francesco II Gonzaga marchese di Mantova, Carlo III duca di Savoia e Alfonso I d'Este duca di Ferrara.
Nei cupi anni del conflitto, la vicenda del doge L. si identifica con quella dello Stato veneziano: impossibile discernere le scelte personali da quelle della classe patrizia.
Il 17 apr. 1509 giunse in laguna un inviato francese per presentare ufficiale dichiarazione di guerra da parte di Luigi XII, intenzionato a riconquistare quelle terre che la Serenissima "per forza e ingiuriosamente" aveva occupato. Il L. ricordò all'emissario che senza l'appoggio veneziano il re "non avrebbe ora dove nel suo porre il piede in Italia potesse" e ribatté che "dalla guerra che tu denunziata ci hai, con l'aiuto di nostro Signor Dio ci difenderemo: ed egli [Luigi XII] avrà lui per vendicatore o qui, o allo inferno, della lega a noi rotta per sua scelleraggine" (Bembo, p. 390). Il 27 apr. 1509 Giulio II lanciò la scomunica contro Venezia, ma gli animi dei governanti veneziani non si lasciarono intimidire e il 5 maggio, in una seduta del Maggior Consiglio, fu accolta per acclamazione la proposta del cavaliere Alvise Mocenigo di ordinare all'esercito di varcare l'Adda, sotto lo stendardo di S. Marco recante la scritta "Defensio Italie" (Sanuto, VIII, coll. 176 s.). Ma la tremenda disfatta del 14 maggio ad Agnadello, con il ferimento e la cattura del condottiero Bartolomeo d'Alviano, paralizzò gli entusiasmi: lo stesso L. apparve in assemblea "quasi morto e di malla voja e feva segni di gran mesticia" (ibid., col. 390), mentre si decideva la rifortificazione di Mestre e luoghi vicini, a baluardo della Dominante. Eppure una spinta decisiva alla riscossa fu portata proprio dal doge con un appassionato appello in Maggior Consiglio l'8 luglio: sicuro della fedeltà dei sudditi di Terraferma - "di Padoa fino a Bergamo […] e si havesseno un pocho di spade, tajeriano tutti francesi et alemanni a pezi" -, accusò la nobiltà di non finanziare adeguatamente lo Stato, perché più sensibile all'interesse personale, e sollecitò a tal punto l'onore, l'amor patrio e l'obbligo morale per tutti di "andar a combater per la nostra libertà" che l'intero consiglio plaudì gridando "Andemo! Andemo!" (ibid., col. 497). Il L. dette l'esempio: il 5 settembre inviò i figli Alvise e Bernardo, con un seguito di 25 patrizi e 100 uomini armati a proprie spese, in difesa della città di Padova, per respingere l'assalto degli Imperiali, costretti alla ritirata verso Vicenza. L'impegno diretto della famiglia nel conflitto si rinnovò nell'ottobre 1513 e nel novembre 1514, forse anche a salvaguardia delle proprietà terriere che i Loredan vantavano nel Padovano.
Nel frattempo si trattava con il papa per un accordo che vide il ritiro dell'interdetto (10 febbr. 1510) e la proclamazione della "Lega santa" (5 ott. 1511), cui aderì anche la Spagna, in funzione antifrancese. Dopo alterne vicende belliche, alla morte di Giulio II e con l'ascesa al soglio pontificio di Leone X, Venezia riuscì a concludere con la Francia il trattato di Blois (23 marzo 1513). Le forze franco-venete ottennero una prestigiosa vittoria a Marignano (la cosiddetta "Battaglia dei giganti", settembre 1515), respingendo le truppe svizzere al soldo del duca Massimiliano Sforza e conquistarono Milano; nel 1516 Venezia riprese Brescia. L'agognata pace fu conclusa solo con il trattato di Bruxelles e con l'entrata vittoriosa a Verona di Andrea Gritti e Giovanni Paolo Gradenigo, alla testa di 400 armigeri scelti e 2000 fanti (7 e 24 genn. 1517). Il 13 apr. 1517 anche Massimiliano d'Asburgo rinunciò ai suoi diritti restituendo il Friuli a Venezia, che vide ripristinati i confini del territorio quali erano prima di Cambrai; fu comunque la fine di ulteriori mire espansionistiche in Terraferma e un ridimensionamento del potere nell'Adriatico. Se il L. rappresentò lo spirito stesso della volontà di riscatto e di riconquista, questa non sarebbe stata possibile senza la valida collaborazione e il massimo impegno di alcuni patrizi, tra cui il futuro doge Andrea Gritti, la cui dedizione alla causa della patria fu oggetto di stupito rispetto anche da parte degli avversari.
La salute del doge L. non fu mai ottima, ma il carattere e l'energia intellettiva ben lo sostennero negli incarichi di governo. Nel 1514, a causa di una caduta accidentale, restò offeso a una gamba ma non smise mai di presiedere le riunioni dei Consigli sovrani; all'inizio del settembre 1517, durante una seduta del Collegio, fu colpito da "certo accidente quasi specie di apoplessia, adeo non poteva parlar" (Sanuto, XXIV, col. 629). Dal 14 giugno 1521 non fu più in grado di presenziare le riunioni di governo, a causa di uno stato febbrile. Le condizioni peggiorarono in fretta: il 19 giugno gli fu amputato un dito del piede ormai in cancrena, il 20 subentrarono un abbassamento della vista e l'ingrossamento della lingua, il 21 ricevette l'estrema unzione.
Il L. morì a Venezia il 22 giugno 1521.
Il decesso, avvenuto tra le ore otto e le nove, fu tenuto segreto sino alle sedici per volere dei figli che, durante l'agonia del padre, non ebbero alcun riguardo a trasportare mobili e oggetti dall'appartamento dogale alla loro abitazione d'affitto presso Ss. Filippo e Giacomo. Come consuetudine, il corpo fu sottoposto alle pratiche di imbalsamazione. Nella mattina del 23 giugno, traslata la salma nella sala del Piovego di palazzo ducale, la bara fu chiusa: alle esequie solenni l'elogio funebre fu letto dal letterato Andrea Navagero, e vi presenziò anche Pietro Bembo, allora abate e segretario di papa Leone X. Morto "con optima fama di principe" (ibid., XXX, col. 388), il L. fu inumato nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, in una semplice tomba con lapide di marmo celeste senza iscrizione, posta sopra i gradini dell'altare maggiore e ora non più esistente. Nel 1572 circa, e dopo alcune controversie degli eredi con i frati della chiesa, gli fu innalzato un monumento funebre, distinto in tre parti e adorno di colonne corinzie in marmo di Carrara, posto a sinistra dell'altare maggiore, su architettura di Girolamo Grappiglia, e adorno di una statua estremamente somigliante, opera giovanile dello scultore Girolamo Campagna, che lo raffigura nell'atto "di alzarsi e di gettarsi arditamente a difesa di Venezia contro l'Europa congiurata a Cambrai" (Da Mosto, 1966, p. 273). Alla sua destra fu posta la statua di Venezia con la spada in pugno e a sinistra quella della Lega di Cambrai, con lo scudo fregiato dagli stemmi araldici delle potenze avversarie (queste, e le altre del monumento, di Danese Cattaneo, allievo del Sansovino).
Del L. ci sono pervenuti due ritratti, uno opera di Giovanni Bellini, ora alla National Gallery di Londra e uno di Vittore Carpaccio in collezione privata a Bergamo; quelli di mano di Tiziano Vecellio e del Giorgione, entrambi ricordati dal Vasari, sono andati dispersi. Al Bellini e al Carpaccio, artisti che andavano affermandosi come ritrattisti e pittori di historie, il L. commissionò altre opere, sia in funzione pubblica sia in veste privata, manifestando anche in campo artistico e architettonico una rara sensibilità umanistica già proiettata verso gli ideali del Rinascimento.
Al L. dobbiamo, infatti, la ristrutturazione urbanistica della zona di Rialto, polo commerciale della città, dopo i rovinosi incendi del 1505 e 1514, con la ricostruzione del fondaco dei Tedeschi (opera di Antonio Scarpagnino e Giorgio Spavento, con facciata esterna affrescata dal Giorgione), degli edifici a volta e del palazzo dei Dieci savi alle decime attorno la zona di S. Giacomo di Rialto, e il restauro del ligneo ponte di Rialto (1502, Giorgio Spavento, con ipotesi di ricostruzione in pietra avanzata da A. Scarpagnino). Per la zona marciana, durante il dogato del L. fu trasformata e ridecorata la cappella Zen della basilica di S. Marco (1504-21) a opera di Antonio Lombardo, eretti i tre pili in bronzo di Alessandro Lombardi (1505) e intrapresa la ricostruzione delle procuratorie vecchie (1517). Anche in Terraferma il L. promosse il totale restauro delle cinte murarie delle principali città suddite, affidandole sin dal 1508 all'ingegnere veronese fra Giovanni Giocondo, scelta che fu decisiva per la resistenza alle truppe della Lega di Cambrai e nella successiva loro ricostruzione.
Malgrado l'operato positivo, nei confronti del L. fu istruito un processo per alcune insolvenze, avviato il 27 giugno 1521 con l'elezione dei tre inquisitori sopra il doge defunto, Antonio Condulmer, Francesco Donà e Alvise Priuli. La lunga vicenda giudiziaria impegnò non poco gli eredi, in particolare il figlio Lorenzo, e si risolse solo nel maggio 1523, con la condanna al pagamento di una multa di 2700 ducati, a titolo di transazione.
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