LOMELLINI, Leonardo
Nacque attorno al 1510, unico figlio di Gerolamo di Tobia e di Brigida di Pier Francesco Lomellini.
Con il padre, nonché con lo zio paterno Battista, il L. condivise la posizione filodoriana e filospagnola e, almeno negli anni giovanili, la pratica dei prestiti e dei rifornimenti a Carlo V, anche se con contributi cronologicamente circoscritti rispetto agli altri grandi finanzieri genovesi come Ansaldo Grimaldi e Adamo Centurione. Il suo primo incarico documentato è però di natura militare. Alla fine del 1536, nel timore di un attacco francese in assenza di Andrea Doria e della flotta, Genova arruolò trecento soldati tedeschi dallo Stato di Milano e nominò dieci capitani a difesa della città, scelti prevalentemente tra i giovani patrizi, tra i quali era il Lomellini. Pochi anni dopo, tra il 1540 e il 1541, egli appare già impegnato nell'attività mercantile-finanziaria, per svolgere la quale risiedette probabilmente qualche tempo in Spagna. Il 30 ott. 1540 era a Madrid, dove, associato con Rodrigo de Dueñas, concordò un asiento di 156.000 scudi e 40.000 ducati con il potente segretario di Carlo V Francisco de los Cobos, riuscendo a inserirsi nel sistema in un momento di crisi per i grandi finanzieri genovesi, soppiantati da Fugger e Welser. Nel 1537 il padre del L. si era già timidamente inserito nelle forniture militari con 2500 quintali di biscotto, ma nel 1540 fu lui ad accettare a Genova le lettere di cambio dei 156.000 scudi dell'asiento del figlio ed autorizzarne l'incasso all'ambasciatore spagnolo Gómez Suárez de Figueroa, che provvide a diversificarne l'impiego (56.000 a Milano, 50.000 a Carlo V personalmente, 50.000 per organizzare la spedizione di Algeri), prontamente esaurendoli.
Dopo questa operazione, tuttavia, il L. e il padre non risultano più impegnati né nel settore degli asientos né in alcuna carica pubblica a Genova. Peraltro il fatto che il L. ricompaia solo vent'anni dopo, come gentiluomo presso il governatore di Milano Gonzalo Fernández de Cordova, dà adito a diverse ipotesi, tra cui la più probabile sembra una prolungata permanenza in territorio spagnolo o, meglio, nel Milanese rivolta ad attività specificatamente mercantili (e forse compromettenti la stessa appartenenza alla qualifica nobiliare, nonostante la larghezza di interpretazione della Repubblica di Genova al riguardo). Il 12 febbr. 1560 il L. ricevette infatti le istruzioni per intervenire a Milano presso il governatore al fine di ottenere la liberazione del nobile genovese Vincenzo Spinola, accusato di essersi rifiutato di consegnare ai Visitatori i libri della Compagnia da lui diretta.
La situazione era tale che cedere avrebbe potuto compromettere i diritti di tutti i cittadini genovesi nei territori di sua maestà cattolica, alla quale la Repubblica si riservava di fare diretto ricorso. Perciò le istruzioni esortavano il L. alla fermezza, motivandone l'operato come da richiesta dei tutori del nobile Cattaneo Spinola, altro titolare della Compagnia, e sottolineando come il governo genovese avesse già ordinato la consegna dei libri al tutore Francesco Spinola. Si può ipotizzare che l'affare dovette essere risolto positivamente, anche se manca la relazione del Lomellini.
Dopo quell'ambasceria il L. rientrò nella vita politica schierandosi con la nobiltà "vecchia" e facendosene portavoce in più di una circostanza. Il 30 genn. 1562, fu di nuovo inviato a Milano affinché, con la "prudenza e destrezza che riluce nelle sue azioni", convincesse il "Gran Capitano", o in sua assenza il governatore Francisco Fernando d'Avalos marchese di Pescara, a rimuovere gli alloggiamenti militari spagnoli dai territori di confine della Repubblica, dove "da più giorni arrecano danni". Più delicato politicamente l'incarico affidatogli nel 1566, quando il L. e Nicolò Grimaldi Cebà furono scelti per sostituire due dei cinque supremi sindicatori che dovevano giudicare il dogato di Giovanni Battista Lercari.
L'inserimento del L. e del Grimaldi fu determinante per la condanna del Lercari, che riportò i tre voti sfavorevoli del L., del Grimaldi Cebà e di Giovan Francesco Di Negro, contro i due favorevoli di Bartolomeo Cattaneo e Prospero Fattinanti. Nell'appello contro la sentenza, che lo vedeva condannato dai nobili del suo stesso partito (la nobiltà "vecchia") sulla base di una maggioranza che sembrava artificiosamente prodotta con una sostituzione non a norma, il Lercari rimarcò che "nella persona del L. cade un notorio difetto di non poter essere ammesso in alcun ufficio o dignità e di non poter essere abilitato, come si sia" (Ciasca, p. 166). Proprio questo è il rilievo che può confermare la congettura di una ventennale pratica mercantile da parte del L., in contrasto con il riconoscimento di nobiltà. L'ipotesi spiegherebbe anche la collocazione del L., nell'elenco delle iscrizioni al libro della nobiltà, una decina di nominativi dopo il figlio Giacomo.
Il destino del L. si sarebbe intrecciato ancora con quello del Lercari nella fase conclusiva della guerra civile che oppose nobili vecchi e nuovi nel 1575-76. All'inizio dei colloqui di Casale, le due parti avevano affidato la stesura delle rispettive posizioni, i vecchi al L., e i nuovi a Marcantonio Sauli.
Nel documento del L., i vecchi riproponevano i tradizionali titoli di distinzione e ribadivano il significato dell'"unione", a suo tempo voluta da Andrea Doria e dai Riformatori del 1528, come regime misto di nobili e di popolari, sul modello romano dei due ordini, senatorio ed equestre, con paritetica partecipazione al governo, ma contro l'istituzione di un unico ordine di nobiltà rivendicato dai nuovi. Se non sorprende che le posizioni più intransigenti fossero sostenute proprio dal L. - sulla cui nobiltà il Lercari aveva espresso a suo tempo pesanti riserve -, è significativo di quanto potessero differenziarsi le posizioni all'interno della stessa fazione il fatto che sia stato proprio il Lercari, come capodelegazione dei vecchi a Casale, ad aprire con il capodelegazione dei nuovi, Davide Vaccà, quella trattativa diretta che, ridimensionato il ruolo dei mediatori internazionali, giunse alla definizione del nuovo compromesso costituzionale.
All'interno della battaglia libellistica, nel 1575 uscì a Milano dalla tipografia di Paolo Pacifico Da Ponte una Risposta del s. Leonardo Lomellino gentiluomo genovese al discorso dell'ambasciatore Sauli. Benché Bitossi (p. 25) dichiari di non essere certo che sia il L. il vero autore del libretto, l'attribuzione sembrerebbe giustificata proprio dall'incarico ufficialmente affidato al L. di estensore delle posizioni dei vecchi. In qualche modo la circostanza ribadisce anche il sospetto che possa identificarsi invece con il Lercari l'autore di un libello appena anteriore, Sogno sopra la Repubblica di Genova veduto nella morte di Agostino Pinello ridotto in dialogo… (s.n.t.) di un mai identificato Bernardo Giustiniani Rebuffo. Comunque, nella Risposta il L., o chi si celasse sotto il suo nome, rivendicava tutti i meriti dei vecchi (i sostanziosi donativi per consentire il contenimento delle gabelle e il sostentamento dei poveri, i servizi pubblici svolti dalle galee private, l'assunzione degli oneri della guerra di Corsica) e arrivava a sostenere che "secondo tutte le leggi divine, naturali, canoniche e civili alla nobiltà devesi deferir molto", e che vecchi e nuovi erano diversi, essendo il "metallo della nobiltà vecchia senza dubbio di liga migliore, più perfetto e più purgato da ogni soggezione" (in Bitossi, I, 1992, p. 26).
Il L. era dunque tra quanti sostenevano l'esistenza in Genova di due nobiltà, quella antica, e autentica, dei vecchi e quella recente, e convenzionale, dei nuovi; e se accettava il principio, codificato dalla riforma del 1528, della rappresentanza paritaria nel governo, proponeva che avvenisse "per ordini distinti". Eppure, nonostante queste posizioni intransigenti che gli accordi di Casale, almeno formalmente, supereranno con il riconoscimento dell'ordine unico della nobiltà, il L. non fu tra i vecchi economicamente più ragguardevoli. Nell'elenco predisposto per la tassazione delle spese di guerra da dividere tra i patrizi alla fine del conflitto civile, il suo patrimonio risulta di 18.750 lire, quindi relativamente modesto rispetto ai grandi patrimoni anche di altri Lomellini (dalle 267.500 lire di Augusto fu Agostino a quelli intorno a 100.000 di un altro Agostino o di un Bartolomeo).
Il L. morì, probabilmente a Genova, nel 1581.
Dalla moglie Bianca Grimaldi Oliva di Gerolamo aveva avuto cinque figlie (Faustina, Brigida, Maria, Geronima, Maddalena) e un unico figlio, Giacomo, morto senza prole nel 1594 e con il quale si chiude il ramo della famiglia.
Fonti e Bibl.: I. Bonfadio, Gli Annali di Genova…, II, Genova 1597, p. 251; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, Roma 1951, pp. 166 s., 177; Il Liber nobilitatis Genuensis e il governo della Repubblica di Genova fino all'anno 1797, a cura di G. Guelfi Camajani, Firenze 1965, p. 303; L. Donaver, La storia della Repubblica di Genova, II, Genova 1913, p. 245; F. Poggi, Le guerre civili di Genova in relazione con un documento economico-finanziario del 1576, Genova 1930, pp. 104, 144; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, Genova 1934, pp. 50, 161; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1978, p. 129; C. Bitossi, Città, Repubblica e nobiltà nella cultura politica genovese tra Cinque e Seicento, in La letteratura ligure: la Repubblica aristocratica (1528-1797), I, Genova 1992, pp. 25-27; A. Pacini, La Genova di Andrea Doria nell'Impero di Carlo V, Firenze 1999, pp. 413 e n., 426, 430; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, III, Genova 1833, tav. 16.