EMO, Leonardo
Figlio di Giovanni di Giorgio e della sua seconda moglie, Elisabetta di Giovanni Molin, sposata nel 1457 dopo la morte di Chiara Priuli, nacque a Venezia tra il 1471 e il 1473, presumibilmente, perché è datata 1491 la sua presentazione per concorrere all'estrazione della balla d'oro che faceva anticipare ai giovani patrizi tra i diciotto e i venti anni l'entrata in Maggior Consiglio. Si dedicò pienamente al servizio dello Stato percorrendo una brillante carriera fino ai livelli più alti, tanto delle magistrature civili che di quelle militari. Deciso nell'agire, abile e convincente nelle proposizioni politiche, divenne, anche grazie alle doti di eloquenza, uno dei politici più ascoltati e influenti della sua generazione. Fu tra i protagonisti della vita politica veneziana dopo Agnadello, esponente della parte di patriziato più legata al passato di potenza della Serenissima e perciò più restia ad accettarne il ridimensionamento, reso inevitabile dal nuovo corso storico.
L'E. esordi in politica nell'ultimo scorcio di secolo ricoprendo cariche giudiziarie minori, tra cui quella di giudice delle Corti, che lo aiutarono tuttavia a impratichirsi nel funzionamento della cosa pubblica e gli permisero di iniziare la scalata ad incarichi più importanti. Tra il 1499 e il 1502 partecipò alle elezioni per il magistrato del Cattaver, per sopracomito e per le Quarantie. E nel dicembre del 1502 entrò nella Quarantia criminale, importante corte giudiziaria che in quei tempi contava spesso tra le sue file alcuni dei patrizi più intraprendenti. L'anno seguente l'E. entrò in Collegio come savio agli Ordini, una carica che permetteva di mettersi in luce e offriva ai più capaci e ambiziosi buone possibilità di far carriera. Fu rieletto nel 1504 e altre volte, nel corso del decennio, segnalandosi per il temperamento e le proposte coraggiose. La considerazione di cui ormai cominciava a godere gli suggeri di porre con maggior assiduità la sua candidatura, tra il 1503 e il 1510, a diverse cariche nelle magistrature di città e di Terraferma, e nel 1504 fu in lizza anche per la nomina ad ambasciatore in Borgogna.
I tentativi non vennero coronati dal successo ma nell'aprile del 1504 ebbe l'onore di essere inviato a Ravenna con Marco Trevisan, per consegnare, a nome della Signoria, le insegne di capitano generale a Niccolò Orsini, conte di Pitigliano. E fu proprio la guerra ad accelerare la carriera dell'Emo. Scoppiata la guerra della Lega di Cambrai, non avendo incarichi ufficiali, si offri volontario in difesa della patria minacciata e parti alla volta di Padova, ove gli fu affidato il presidio di un tratto delle mura. Entrato nella rosa dei candidati per la carica di provveditore in campo, ancora una volta non fu eletto e nel marzo del 1510 si offri nuovamente volontario per prestare servizio come sopracomito per un periodo di sei mesi, accompagnando il gesto con un prestito allo Stato di 1.500 ducati. Parti al comando di una galera sottile e si uni alla squadra principale, partecipando ad operazioni in Adriatico e a incursioni in Tirreno, lungo le coste laziali e liguri. Allo scadere dell'incarico, nel marzo del 1511, fece ritorno a Venezia, dove lo aspettava, a titolo di ricompensa, un seggio di senatore. Pose la sua candidatura a posti di maggior prestigio e fu tra i primi non eletti alle cariche di provveditore in Friuli e a Bergamo e a quella di ambasciatore in Spagna.
Il 10 giugno 1512 fu nominato provveditore ed esecutore in campo per il territorio di Brescia, insieme con Sigismondo Cavalli e Alvise Bembo.
L'E. aveva l'ordine di reprimere i disordini nel territorio e di coordinare gli sforzi dei fuorusciti bresciani per riconquistare la città. Si impegnò anche a riattivare l'amministrazione dei vari centri della provincia e a raccogliere i fondi necessari alla guerra, che il governo non era in grado di inviargli nella misura necessaria. Proprio la penuria di fondi e l'insufficiente impegno francese allontanarono la conquista di Brescia che era parsa assai vicina. Si palesarono, inoltre, incomprensioni tra i comandanti veneti e si incrinò la fiducia dei Senato nel loro operato. Scoppiò, in particolare, un'acre polemica tra l'E. e Paolo Cappello, accusato di inettitudine, polemica che si riaccese quando l'E., tornato a Venezia, rinnovò davanti al Senato le sue accuse nel presentare la relazione della sua missione.
Rimasto senza comando, l'E. tornò a Padova, assediata dagli Spagnoli, alla testa di quaranta uomini da lui stesso assoldati, ponendosi al servizio delle autorità preposte alla difesa. Operò con la consueta energia e generosità; ma il suo zelo lo portò a scontrarsi con Bartolomeo d'Alviano e a un passo dall'essere cacciato dalla città. A Padova, comunque, rimase poco perché nell'agosto del 1513 fu rieletto senatore. Datano a quest'epoca le proposte di nuove forme di tassazione allo scopo di raccogliere il denaro necessario alla guerra. Denaro di cui, come provveditore in campo, aveva potuto constatare la deleteria penuria e al reperimento del quale dedicherà molte delle sue future energie di uomo politico. Agli inizi del 1514 fu in ballottaggio per la carica di provveditore generale a Treviso e nel luglio a quella di provveditore generale in campo, con esito negativo. In luglio fu eletto luogotenente in Friuli e in ottobre parti per Udine, mentre il suo nome figurava tra i candidati alle prestigiose cariche di ambasciatore in Francia e Inghilterra.
Era un incarico importante e impegnativo, in quel momento, che l'E. espletò con grande energia, girando in lungo e in largo la regione senza risparmiarsi, controllando persone e cose, in particolar modo le opere di difesa. Di tutto informava il Senato e il Consiglio dei dieci attraverso numerosi dispacci, non mancando di esprimere le sue riserve sul trattamento della popolazione, vittima - sono sue parole - della "avaritia di prelati come di layci". Ammalatosi, chiese di essere rilevato e nella primavera del 1516 rientrò a Venezia, lasciando il ricordo di una buona amministrazione e con un prestigio ulteriormente accresciuto.
Pose subito la candidatura a numerose cariche di Terraferma e nello stesso anno divenne consigliere, mediante l'esborso di 3.000 ducati. La situazione militare di Venezia era uscita dalla fase più drammatica e si cominciava a pensare di riportare i territori riconquistati a una vita normale. A questo mirava anche la proposta avanzata da alcuni patrizi di riaprire lo Studio di Padova, convinti che sarebbe stato un segno eloquente che la Serenissima era uscita dall'emergenza. Ma l'E. si dichiarò contrario perché riteneva che, mentre si era ancora sotto la pressione asburgica e le trattative con l'imperatore ristagnavano, la presenza di tanti studenti "imperiali" avrebbe costituito una pericolosa minaccia alla sicurezza dello Stato. Mostrò inoltre una decisa opposizione nei confronti delle pretese papali circa le nomine dei vescovi nei territori veneti, acquistandosi fama di intransigente assertore della giurisdizione statale in scottanti materie ecclesiastiche in un momento in cui alcuni settori del patriziato, nella ricerca di una norinalizzazione dei rapporti internazionali con gli ex nemici della Lega di Cambrai, erano disposti a concessioni verso la Sede apostolica.
Nel marzo del 1518 l'E. fu eletto provveditore a Cipro: subordinò tuttavia l'accettazione alla concessione di un congruo numero di armati che avrebbero dovuto accompagnarlo nella missione. Non avendo ottenuto quanto chiedeva, rinunciò all'incarico. Nel mese di ottobre, invece, entrò in Consiglio dei dieci e in dicembre ricevette la nomina ad ambasciatore in Francia. Aveva accettato di malavoglia, solo dopo un intervento diretto del doge, e avrebbe finito per andarci se una parte dei senatori non si fosse mostrata contraria a sostituire in un momento giudicato molto delicato l'abile ed esperto Antonio Giustinian. Cosi si fini per negare i fondi alla missione che fu quindi continuamente rinviata, mentre l'E. nel frattempo poteva ricoprire più volte, tra il 1518 e il 1519, il posto di consigliere nel Consiglio dei dieci. Nel settembre del 1519, quando ormai l'E. si trovava sul piede di partenza per Parigi, gli arrivò la nomina a podestà di Verona e di ambasciata in Francia non si parlò più.
Nella città scaligera l'E. si occupò soprattutto di ripristinare il sistema difensivo, ponendo mano a interventi di fortificazione, sia riattando vecchie strutture sia approntandone di nuove, e senza trascurare, nel frattempo, le opere di carattere civile come la sistemazione dell'arredo urbano. E tutto questo illustrò ampiamente nella relazione che lesse in Senato al suo ritorno, nel luglio del 1521, che si concludeva con un ammonimento: "Verona è la chiave de Italia e bisogna ben che questo stado la habbi a cara, perché, volendo venir oltramontani in Italia, quella è la chiave et la porta, né veriano per altra via" (Sanuto, XXXI, coll. 99-100).
Nell'agosto l'E. contese, risultando perdente, ad Andrea Gritti l'incarico di provveditore generale in campo, ma in settembre era di nuovo chiamato in seno al Consiglio dei dieci. In dicembre poi ne diventò uno dei capi, trovandosi cosi ad esercitare contemporaneamente anche la carica di sovrintendente alle artiglierie dell'Arsenale, alla quale da poco era stato nominato. Di artiglieria, di problemi dell'Arsenale e in senso lato di politica navale tornò ad occuparsi negli anni successivi più volte, partecipando ad esperimenti con nuove bocche da fuoco ed occupandosi di ingegneria navale, settore che in quei decenni era oggetto di vivace dibattito scientifico e politico. L'E. vi prese parte sostenendo le tesi più conservatrici. Nel settembre del 1522 fu eletto provveditore sopra l'Armar, ma tenne la carica per soli due mesi perché in dicembre parti per Padova di cui era stato nominato podestà. Vi trovò, tra i tanti problemi, quello particolarmente grave della alimentazione e in generale dei rifornimenti, tra la carenza di controlli delle autorità, una forte speculazione e un endemico contrabbando. L'E. operò con decisione senza farsi spaventare dalle difficoltà e senza esitare ad opporsi, se necessario, alle stesse direttive del governo.
Riaccesasi in Lombardia la guerra per iniziativa dei Francesi, Venezia fu nuovamente sul piede di guerra. L'E., nominato provveditore generale in Terraferma nel settembre 1523, parti per il Bresciano con l'ordine di far concentrare le milizie venete lungo le rive dell'Oglio e di mantenersi sulla difensiva. Egli avrebbe voluto operare in modo meno prudente, vista la tattica offensiva del nemico, ma in ossequio agli ordini si limitò a controllare le mosse dei Francesi. Quando, più tardi, da Venezia giunse il permesso di adottare un sia pur cauto spirito offensivo, e l'E. si apprestava a muoversi, sopraggiunse la temuta penuria di fondi che gli impedi di attuare i piani prestabiliti. Nel frattempo l'E. era caduto malato e nel febbraio del 1524 fu costretto a ritirarsi a Pavia onde ristabilirsi. Il prolungarsi del male lo costrinse, però, a chiedere di essere sollevato dall'incarico e in marzo tornò a Venezia, ove andò ad occupare il seggio di consigliere al quale era stato precedentemente designato.
Continuò ad occuparsi di problemi militari e navali, in particolare, caldeggiando un rafforzamento del dispositivo veneziano in Adriatico atto a fronteggiare una minaccia ottomana sempre più incombente e riprese con rinnovato vigore il progetto di quell'ampia manovra fiscale che, imperniata su un notevole aumento dei dazi, avrebbe dovuto procurare le risorse necessarie allo sforzo bellico. Un progetto che trovava molta opposizione da parte dei senatori e dei patrizi più timorosi di contraccolpi sul commercio e sui rapporti con i sudditi.
In ottobre fu offerta all'E. la possibilità di tornare sul campo di battaglia ma riusci ad evitare di essere messo in ballottaggio; accettò invece, nel febbraio del 1525, la nomina a provveditore sopra l'Arsenale perché gli permetteva di seguire più da vicino i progetti di intervento all'interno di quel complesso e soprattutto di occuparsi direttamente" dei finanziamenti Per tenere la flotta a un livello di efficienza il più possibile elevato. E da tempo orinai l'efficienza militare e la politica fiscale polarizzavano l'attenzione dell'E. e ne connotavano il ruolo nell'ambito del gruppo dirigente dell'epoca.
La situazione internazionale era dominata in quel momento dal tentativo della Francia di riprendere il sopravvento in Italia e scacciarne Spagnoli e Imperiali, un disegno che aveva ottenuto anche l'adesione del papa. Si voleva formare una lega imperniata sullo Stato della Chiesa e su Firenze, alla quale venne chiamata a partecipare anche Venezia. L'E. si mostrò nettamente contrario a questa alleanza perché avrebbe compromesso la conclusione di un'altra lega con l'Impero, potenza che considerava vincente, e perché le proposte del pontefice costituivano, a suo avviso, solo un pretesto per coprire gli interessi famigliari di casa Medici. Il partito "francese" presente in Senato con un numero consistente di aderenti, che confidava in una vittoria della potenza d'Oltralpe, dette battaglia. Usci vincente una linea di compromesso, non sgradita allo stesso E.: Venezia avrebbe si partecipato alla guerra ma con criteri di prudenza tali da non urtare le due potenze.
Nel 1526, in febbraio, l'E. entrò di nuovo in Consiglio dei dieci come capo, e in marzo assunse la carica di provveditore all'Armar, concentrando nelle proprie mani una notevole responsabilità nella organizzazione militare della Repubblica. Nel 1527 gli fu conferita la nomina di provveditore sopra il Recupero dei denari e ancora una volta riprese, con accentuato vigore e incisività, le proposte di politica fiscale che aveva già cercato, senza successo, di far tradurre in legge nel corso degli anni precedenti.
Ora però la situazione era peggiorata e il governo era in grave difficoltà: il deficit del bilancio si era ingrossato e non c'era più denaro per pagare le truppe. Il patriziato veneziano, pur incerto nel decidere, si rendeva conto che i mezzi straordinari adottati in passato non erano più sufficienti e che ci voleva qualcosa di più incisivo. L'E. aveva quindi di fronte un Senato più disposto ad ascoltare i suoi suggerimenti: raccomandava, in sostanza, la via della imposizione di consistenti prestiti al clero e alle Comunità della Terraferma, in linea con la sua fama di assertore di un inasprimento della politica fiscale verso i sudditi e di avversario della corte di Roma. Una fama che continuava ad alimentare anche con una posizione intransigente - suggerita peraltro anche da interessi di ordine personale e famigliare - che sosteneva contro ogni ipotesi di restituzione di terre nelle Romagne. Una fama, inoltre, che si consoliderà anche nel corso degli anni Trenta in scontri con quella parte del gruppo dirigente restia a compromettere le relazioni con il papa e timorosa di guastare i rapporti con i sudditi da poco ricondotti all'ubbidienza della Serenissima e poco disposti ad accettare tranquillamente inasprimenti fiscali. Patrizi autorevoli come Andrea Trevisan, intervennero contro le proposte dell'E. e dalla Sede apostolica si levarono moniti minacciosi, ma egli liquidava ogni opposizione con secca determinazione: "Non è tempo di star a far cosa per aver danari né aver paura del Breve zerca questo, perché non havendo danari da pagar le zente si perderà il Stado" (Sanuto, XLVI, col. 657).
Nel 1529 si annunciava imminente la venuta di Carlo V in Italia; il governo veneziano si trovò concorde nell'auspicare che anche il re di Francia venisse, per controbilanciare la presenza asburgica, ma siccome il Senato era incline a manifestare un semplice auspicio, si levò l'E. a proporre un passo diplomatico più incisivo: si facesse sapere a Parigi "che non venendo soa Maestà in Italia potria causar che li principi et colegati nostri faria qualche pensier di aderirsi a Cesare" (ibid., L, col. 58). Contemporaneamente, tuttavia, si opponeva a un atteggiamento debole di fronte alle pressioni del medesimo sovrano che, appoggiando il papa, chiedeva la restituzione di Cervia e Ravenna, sostenendo, diversamente da altri senatori, che la posizione di quel re e del papa non era cosi forte come volevano far credere. Più preoccupazione, invece, gli suscitava la minaccia ottomana tanto da indurlo a suggerire prudenza nello svolgimento delle trattative con Carlo V e di rinviare la conclusione della pace, anche se poco dopo modificherà nuovamente atteggiamento perché convinto che una rapida conclusione della pace con l'imperatore fosse da anteporre al timore delle reazioni della Porta.
Nel marzo del 1530 l'E. tornò all'Arsenale come provveditore, e ancora, nel corso degli anni Trenta, vi ritornerà, alternando la carica con quella all'Armar e con quelle di Collegio. In quest'ambito ebbe l'opportunità di far sentire la sua voce nel dibattito tra innovatori e conservatori in campo navale; un dibattito non nuovo, ma che aveva ricevuto vigore dalla situazione internazionale e dalla necessità di fronteggiare le minacce turche. L'E., da buon conservatore, argomentava le sue prese di posizione esaltando le benemerenze dei progenitori e i loro successi militari. Altrettanto intensa - ma più in linea coi tempi - fu l'attenzione che l'E. prestò ai problemi delle fortificazioni, in particolare della Terraferma, sostenen o con il peso della sua autorità i progetti di Francesco Maria Della Rovere.
La fibra dell'E. cominciava intanto a risentire delle fatiche cui si era sottoposto e con maggior frequenza episodi di malattia rallentarono il ritmo di lavoro politico, consentendogli, viceversa, di dedicare prolungate permanenze ai suoi possedinienti in campagna. In territorio trevisano aveva in particolare un vasto fondo attorno alla villa di Fanzolo e ad esso dedicò la maggior cura con interventi per migliorame il sistema di irrigazione e con piani per un'opera più vasta di sistemazione idraulica nel complesso del territorio.
Quando negli anni successivi alla pace di Bologna l'egemonia asburgica si era venuta vieppiù consolidando, l'E., che di un'intesa cordiale con Carlo V era stato uno dei propugnatori più convinti, levò la sua voce per ammonire a non stringere troppo il legame con lui e a non essere succubi della sua politica. Sposò anzi una linea politica di distacco - per dirla con Chabod - dai giochi internazionali allo scopo di evitare che venissero colpiti gli interessi e il territorio stesso della Serenissima.
Nel 1536 Milano era passata alla Spagna, che veniva cosi a trovarsi a contatto diretto con la Repubblica e tra Francia e impero ottomano si era stabilita un'alleanza che destava a Venezia non poche preoccupazioni. Ne era nato l'ennesimo scontro tra i filofrancesi che vedevano nell'alleanza con i Transalpini la possibilità di ridimensionare l'egemonia spagnola e coloro che invece erano convinti che fosse impossibile per Venezia allearsi con uno Stato che si era unito al suo nemico storico. Il confronto si vivacizzò ulteriormente nel 1537, alla scadenza di una improrogabile scelta da parte degli organi dirigenti della Repubblica, e la sensazione diffusa in entrambi gli schieramenti era che, qualunque opzione fosse stata decisa, questa avrebbe potuto recar danno allo Stato veneto.
A rappresentare i due partiti c'erano - come riporta lo storiografo Paolo Paruta - uomini autorevoli. Due di essi si assunsero il compito di illustrare nella fase finale del dibattito durante l'estate del 1537, le rispettive posizioni: Marco Antonio Corner, savio di Terraferma, e l'E., savio del Consiglio. I loro discorsi, pronunciati di fronte a un uditorio attento e consapevole della gravità del momento, riassumono le due posizioni predominanti in seno al patriziato e rappresentano nel contempo una sintesi della linea politica e dei convincimenti dei due uomini politici.
Dell'E., in particolare, si possono cogliere le scelte maturate nel corso della sua lunga carriera, rivelatrici, nel momento in cui essa si avviava alla conclusione, della sua personalità. Nell'intervento del Corner c'era anzitutto la preoccupazione di mantenere buoni rapporti con Carlo V, che era il più forte, ormai, in Europa e unico baluardo contro il Turco. C'era inoltre una forte diffidenza nei confronti di Francesco I, per il suo comportamento nel passato e per la effettiva possibilità di influenzare la Porta quando, osservava, era proprio la Francia ad avere bisogno dell'aiuto del sultano. L'E. ribatté punto per punto agli argomenti dell'avversario. Non si trattava - esordi - di allontanarsi dall'imperatore né di gettarsi tra le braccia di Francesco I, ma di evitare di farne un avversario con un comportamento che lo inducesse a pensare che Venezia rifiutava le sue proposte di alleanza più per disprezzo verso di lui che per obblighi verso Carlo V.
Ricordò quindi l'atteggiamento della Repubblica nei decenni precedenti, teso a tenere bilanciate le potenze di Francia e Asburgo, "per lo qual importantissimo rispetto non habbiamo dubitato di accostarci quando all'uno, quando all'altro, come ha consigliata la conditione dei tempi et gli interessi nostri". La lega con l'Impero accentuava la stessa minaccia turca, "accrescendo i sospetti di Turchi che noi siamo a loro danni congionti con Cesare", mentre non si doveva "stimare si poco l'intercessione d'un principe cosi grande e cosi stimato da' Turchi come è il re di Francia". La sua conclusione era quella di lasciare in sospeso la decisione di restare nella lega con l'imperatore, aspettando le mosse delle grandi potenze (Paruta, Istoria, p. 682).
Il discorso fu seguito con l'interesse che meritava ma non convinse il Senato. Un anonimo (Arch. di Stato di Venezia, Archivio proprio Contarini) annotava che l'E., "per non voler entrar in guerra certa, voleva far come far si suole dalli marinari nella fortuna che danno le vele al basso et stanno a seccho". Venezia decise di restare al fianco di Carlo V. Di li a poco la Repubblica si trovò in guerra col Turco e fu una guerra sfortunata, che l'E., riconfermato consigliere e savio del Consiglio, vide da protagonista. Nel corso del 1538 il suo nome apparve nello scrutinio per l'elezione del doge Pietro Lando e nella lista dei patrizi da nominare procuratori di S. Marco. Le ultime cariche gli giunsero alla fine del 1539 e nell'ottobre entrò per l'ennesima volta nella zonta del Consiglio dei dieci. Mori alla fine di gennaio del 1540 (1539, more veneto) nel suo palazzo a S. Leonardo.
Il lungo impegno politico dell'E. e le energie che vi profuse furono ripagate da un cursus honorum denso e da reiterate conferme nei posti chiave della direzione dello Stato. Fu senatore per la prima volta nel 1511, poi nel 1513 e ancora, sia ordinario sia in zonta, nel 1514, 1518, 1522, 1526, 1529, 1530, 1532, 1534 e 1537. Per nove volte ricopri la carica di consigliere, tra il 1516 e il 1537. Ancora più lunga la permanenza in Collegio come savio del Consiglio: ben tredici volte dal 1527 al 1539 e spesso due volte nello stesso anno. Altrettanto assidua la presenza nel Consiglio dei dieci: entratovi la prima volta nel 1516, tornò altre quindici volte, sia come capo sia come consigliere e dall'inizio degli anni Trenta, quasi regolarmente entrò ogni anno nel numero della zonta.
Si era sposato nel iSoi con Elena di Piero di Alvise Balbi, morta prematuramente nel giugno del 1508. Dal matrimonio erano nati tre figli maschi, Giovanni, Alvise e Francesco - che mori a venticinque anni - e una figlia, Isabetta, andata in moglie a un Contarini. L'intensa attività politica non aveva impedito all'E. di occuparsi delle cose private e di mettere insieme un ragguardevole patrimonio, sia immobiliare sia fondiario. Le sue dichiarazioni dei redditi, infatti, lo indicano possessore di una sessantina di case in Venezia, a S. Leonardo, presso la casa di famiglia, a S. Pantalon e a S. Eufemia, e di beni in Terraferma, a Vestena nel Veronese, a Treviso e a Fanzolo, presso Castelfranco. Nel testamento, redatto il 26 genn. del 1540, aveva lasciato eredi alla pari il figlio Giovanni e il rupote Leonardo, figlio dell'ultimogenito Alvise, con una serie di clausole che avevano lo scopo di mantenere il patrimonio rigorosamente nelle mani dei discendenti maschi. Questo Leonardo commissionerà verso gli anni Sessanta al Palladio la costruzione di una villa al posto della vecchia dimora rurale a Fanzolo. Aveva espresso il desiderio di essere sepolto nella chiesa veneziana dei servi ove era la tomba di famiglia, ma non è certo che lo sia stato. Sebastiano Rumor, che scrisse una breve storia degli Emo, sostiene che il corpo fu inumato a S. Nicolò dei Tolentini, chiesa nella quale i figli avrebbero fatto successivamente murare un'iscrizione.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun. Matrimoni con notizie dei figli, Schedario, ad vocem; Segretario alle Voci. Misti, reg. 7, c. 29rv; reg. 8, cc. 10, 23, 28v, 42; reg. 9, cc. 20, 27v, 28v, 32; reg. 10, c. 1; reg. 11, cc. 5, 6, 7, 78 rv.; Elezioni in Maggior Consiglio, reg. 1, cc. 1, 3; Elezioni in Pregadi, reg. 1, cc. 1 s., 4, 18, 59; Miscellanea codici, I St. veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti…, III, cc. 398, 403 s.; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere rettori. Udine, b. 169 (luogotenente in Friuli); Padova, b. 81 (podestà a Padova); b. 297 (provveditore generale); Archivio proprio Contarini, b. 5: Diario di Senato, cc. 2rv, 20-22, 25, 38v, 55, 66, 76v; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 926 (8595): M. Barbaro, Genealogia delle famiglie patrizie venete, II, c. 100; cod. 813 (8892): Consegi, cc. 83, 160; 814 (8893): Consegi, cc. 66, 70, 77, 114, 139 s., 173, 193, 302, 339; cod. 815 (8894): Consegi, cc. 77, 206, 211, 223, 225, 248; cod. 816 (8895): Consegi, cc. 9, 52, 65, 74 s., 78, 93, 127, 163, 174; cod. 817 (8896): Consegi, cc. 28, 36, 38, 84, 89, 126, 128, 131, 135 s., 138-140, 144, 150 s., 166 s., 234; cod. 818 (8897): Consegi, cc. 31, 33, 35-37, 40, 61, 65, 83, 101, 103, 105, 109, 111, 181, 191, 289; cod. 819 (8898): Consegi, cc. 44, 48, 53, 56, 65, 85, 102, 100, 164, 178, 206, 215, 226, 232, 237, 239, 241, 290, 299, 301, 304; cod. 820 (8899): Consegi, cc. 8, 45, 86, 108, 177, 244, 246, 278, 289; cod. 821 (8900): Consegi, cc. 9, 41, 42, 107, 109, 123 s., 195, 200, 203, 238, 249; cod. 785 (7292): Memorie pubbliche dal 1537 sino al 1600ossia Libro I dei commentari della guerra del 1537 con Sultan Solimano, Sr de Turchi (attribuito a Antonio Longo); Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Cicogna, 2848: M. A. Michiel, Diari, cc. 15, 44 s., 83, 121, 137, 237, 254, 309; 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, c. 4; ms. P. D. C. 2334: copia del testamento contenuto in fascicolo relativo a lite tra Emo e Lippomano alla fine sec. XVI (altra copia in ms. P. D. 2597); Ibid. 382c: F. Longo, Annali del 1536 e 1537, cc. 5, 6, 323; Ibid. 2597/1: codicillo del testamento di Leonardo di Alvise di Leonardo, nipote dell'E.; Ibid. c. 2663: condizione di decima di Giovanni Emo di Giorgio per i possedimenti in comune e di altri membri della famiglia; Venezia, Arch. IRE (Istituzioni di ricovero e di educazione), Der. E. 54, 3-4; Der. 89; Der. 91; Der. F. 8.2; Patr. 1 E 5: carte di famiglia concernenti soprattutto i beni fondiari; F. Sansovino, Venezia città nobilissima et singolare (con le aggiunte di G. Martinoni) [1663], Venezia 1968, pp. 161, 386; P. Paruta, Istoria venetiana, in Degli istorici delle cose veneziane, III, Venezia 1718, pp. 364, 673, 677-683; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane…, II, Venezia 1827, p. 136; III, ibid. 1830, pp. 319, 377 s.; VI, ibid. 1853, pp. 275 s., 280, 352, 580; G. Tassini, Curiosità veneziane, a cura di L. Moretti, Venezia 1964, pp. 229-30; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1903, partic. i voll. da III a LVIII, ad Indicem; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica [1927-29], Trieste 1973, II, p. 210; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, Venezia 1856, p. 277; A. Gloria, I podestà e capitani di Padova dal 16 giugno 1509 al 28 aprile 1797, Padova 1861, p. 15; V. Marchesi, IlFriuli al tempo della Lega di Cambrai, in Nuovo Archivio veneto, n. s., XI (1903), pp. 501-537; S. Rumor, Storia breve degli Emo, Vicenza 1910, pp. 52, 73-76 (utile ma con alcune inesattezze); A. Serena, Ilcanale della Brentella e le nuove opere di presa e di derivazione nel quinto secolo dagli inizi, Treviso 1929, p. 124; M. Brunetti, Il capitano "Cazzadiavoli" (Giovanni Contarini di Marcantonio), in Archivio veneto s. 5, LVIII (1955), p. 12; F. Chabod, Venezia nella politica italiana ed europea del Cinquecento, in Civiltà veneziana del Rinascimento, Firenze 1958, pp. 29-55; C. Pasero, Francia Spagna Impero a Brescia 1509-1516, Brescia 1958, pp. 63n., 280n. e ss., 288, 292 s., 296 ss., 299 s., 312n.; F. Gaeta, Un nunzio pontificio a Venezia nel Cinquecento (Girolamo Aleandro), Roma 1960, p. 121 e passim; Storia di Brescia, II, Brescia 1961, pp. 274 s., 277 s., 304; A. Ventura, Giovanni Badoer, in Diz. biogr. degli Italiani, V, Roma 1963, pp. 116-119; Id., Nobiltà e popolo nella società veneta del '400e '500, Bari 1964, pp. 255, 383; Id., Paolo Cappello, in Diz. biogr. degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 808-812; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1966, p. 306; F. Colasanti, Antonio Cappello, in Diz. biogr. degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 748-751; G. P. Bordignon Favero, Una precisazione sul committente di villa Emo a Fanzolo, in Boll. del Centro int. di studi di archit. "Andrea Palladio", XX (1978), pp. 225-236; S. Ciriacono, Irrigazione e produttività agraria nella Terraferma veneta tra Cinque e Seicento, in Archivio veneto s. 5, CX (1979), pp. 114 ss.; A. Olivieri, Sigismondo Cavalli, in Diz. biogr. degli Italiani, XXII, Roma 1979, p. 759; F. Dupuigrenet Desroussilles, L'Università di Padova dal 1405al concilio di Trento, in Storia della cultura veneta, III, 2, Vicenza 1980, pp. 627, 630; R. Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982, p. 137; E. Concina, La macchina territoriale. La progettazione della difesa nel Cinquecento veneto, Roma-Bari 1983, p. 32; Id., L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, pp. 105-113; A. Stella, Tensioni religiose e movimenti di riforma (durante il dogado di Andrea Gritti), in Renovatio urbis, Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di M. 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