CORONA (Corrona), Leonardo (Leonardo da Murano)
Secondo quanto afferma il Ridolfi (1648), che costituisce la più antica e autorevole fonte di informazione sulla vita e sulle opere del C., questi nacque nel 1561 a Murano (Venezia) da Michele, miniatore di santi.
Sulla vita e sull'attività di Michele, nativo di Murano, sappiamo solo, dal Ridolfi (p. 97), che era "aggravato da molta famiglia". Per questa ragione, era nella impossibilità materiale di istruire nella pittura il proprio figlio; ma non è escluso che Michele, pur dedicandosi in prevalenza alla miniatura, fosse anche pittore.
Sebbene non confermata con assoluta certezza, appare tuttavia molto probabile l'identificazione di tale "Michele Corona d'anni 56", annotato nel 1593 nel registro dei morti della chiesa di S. Maria Nova a Venezia, con il padre del C., che risulterebbe quindi nato nel 1537 (Scirè Nepi, 1981, p. 228). Impossibile invece stabilire, allo stato attuale delle ricerche, se esista un rapporto tra costui e "Michiel di Bernardino da Murano", il cui nome compare dal 1584 al 1588 nei libri della fraglia dei pittori veneziani (G. Nicoletti, Lista di nomi di artisti tolta dai libri di tanse o luminarie della Fraglia dei pittori, in Ateneo veneto, XIV [1890], p. 502; E. Favaro, L'arte dei pittori in Venezia e i suoi statuti, Firenze 1975, p. 141), in quanto tale nome non risulta accompagnato dalla qualifica di miniatore né dal cognome Corona.
Dopo una prima formazione sotto la guida del padre, il C. fu mandato da questo a Venezia presso maestro Rocco da San Silvestro, "pittore di poco pregio", nella cui bottega lavoravano pittori fiamminghi occupati ad eseguire copie da quadri di artisti famosi; e qui ebbe modo non solo di "praticar il dipinger", ma anche di acquistare "una buona e maestrevole maniera" (Ridolfi, p. 97). Richiamato a Murano dal padre, il C. si dedicò per qualche tempo a dipingere piccoli quadri su rame ricavati da soggetti a stampa e molto richiesti sul mercato, senza tuttavia cessare di copiare e di studiare le opere di Tiziano e soprattutto del Tintoretto, "riportando spesso le cose studiate nelle invenzioni che far soleva" (ibid., p. 98): abitudine, questa, mai completamente abbandonata anche in seguito.
A conferma dell'ammirazione del C. per il Tintoretto, il Ridolfi narra come egli si nascondesse tra i banchi della sala del Maggior Consiglio nel palazzo ducale assieme ad Antonio Aliense e Giovanfrancesco Crivelli, come lui "giovani pittori di molta virtù", e ascoltasse, non visto, le critiche rivolte al dipinto per il soffitto appena terminato dal Tintoretto, "e di quando in quando uscivano in sua difesa, per modo che ... il quadro ... si stabilì nel buon concetto di ciascuno" (p. 39).Meno determinante invece nella pittura del C. l'influenza di Tiziano, almeno a giudicare dalle opere giunte fino a noi, cosicché l'episodio della copia della Battaglia di Cadore, venduta dal C. all'Aliense per sottrarla alla cupidigia dei fratelli e inviata a Verona dove da molti era creduta dello stesso Tiziano, appare piuttosto una prova della sua precocità, oltre che della sua abilità di copista; tale copia infatti fu certamente eseguita prima del dicembre 1577, quando l'incendio della sala del Maggior Consiglio distrusse l'originale.
Poiché non è dimostrata l'eventuale collaborazione dei tre giovani pittori citati dal Ridolfi (il C., l'Aliense ed il Crivelli) al soffitto del Tintoretto in palazzo ducale (Pittaluga, 1925; De Vecchi, 1970) e sono perdute opere databili sulla base di elementi esterni, come la pala per la chiesa dei cappuccini a Padova, anteriore al 1583 (Moschetti, 1905), il problema della formazione del C. e dei suoi esordi non appare ancora risolto. Benché la scarsezza dei dati documentari renda assai incerta la sistemazione cronologica del suo catalogo, si possono considerare tra le cose più giovanili del C. alcune delle Storie della Passione, eseguite con Palma il Giovane e altri pittori in S. Giuliano a Venezia e terminate entro il 1585 (Schulz, 1968), ma forse già qualche anno prima (Manzato, 1970); vi si riconoscono motividesunti dal manierismo tosco-romano accanto ad esiti chiaroscurali di derivazione tintorettesca, mescolati in un linguaggio eclettico ma vigoroso e già caratterizzato. Poco dopo il C. partecipò al rinnovamento della decorazione della sala del Maggior Consiglio, ricostruita in seguito all'incendio del 1577, dipingendo intorno al 1585 tre monocromi per il soffitto, cioè la Fortezza di Stefano Contarini alla battaglia del lago di Garda, La ricostruzione dell'Istmo di Corinto e Caterina Cornaro che rinuncia al regno di Cipro.
Un quarto dipinto di maggiori dimensioni, collocato sulla parete verso il molo tra questa data e il 1587, fu poi sostituito da un altro del Vicentino perché danneggiato dall'umidità. Mentre le prime due scene superstiti, fortemente chiaroscurate e ricche di suggestioni michelangiolesche, si possono agevolmente collegare sul piano stilistico alle tele di S. Giuliano, la terza rivela invece un improvviso accostamento al gusto di Paolo Veronese che sarà caratteristico di tutta la produzione del C. fino al 1590, dopo di che egli si orienterà sempre più decisamente verso il Tintoretto. Secondo il Manzato apparterrebbe a questo periodo un gruppo di dipinti accomunati dalla freschezza degli accordi cromatici e dalla assenza del violento gioco di luci e di ombre tipico delle prime opere e poi della fase più tarda della sua attività: la Deposizione in S. Francesco di Bitonto (datata 1588: M. D'Elia, Mostra d'arte in Puglia..., catal., Bari 1964, p. 95fig. 102), il S. Mattia della chiesa di S. Bartolomeo a Venezia, La raccolta della manna in S. Giuliano, posteriore alle altre opere citate in questo stesso luogo, alcune tele in S. Nicolò dei Mendicoli, sempre a Venezia, e il Martirio di s. Agata (firmato), già a Padova nella chiesa dedicata alla santa e ora al Museo civico.
Il 6 febbr. 1590 l'altare della Croce in S. Stefano venne ceduto alla Confraternita dei centurati (Scirè Nepi, 1981) per la quale poco dopo il C. dipinse una grande pala con la Madonna della cintola e cinque santi, famosa e ammirata anche dai suoi rivali che, dopo aver cercato di ottenerne la commissione, "non puotero poi far di meno di lodarla; onde crebbe in gran modo il di lui concetto" (Ridolfi, p. 99). Il 14 maggio del 1590 fu condannato a restituire la caparra ricevuta dalla Compagnia del SS. Sacramento per la esecuzione di un dipinto destinato alla chiesa di S. Fantin e non ancora iniziato in tale data, benché già approvato dai provveditori di Comun fin dal 29 maggio dell'anno precedente; il 16 maggio gli vennero però concessi ancora sei mesi per portare a termine la grandiosa Crocifissione, che tuttora si conserva in questa chiesa, forse la più tintorettesca tra le opere di analogo soggetto eseguite dal C. (Vio, 1977). Datate 1590 sono La caduta della manna e La crocifissione di s. Andrea, due delle tele condotte con grande sicurezza di stile, ma probabilmente con l'intervento della bottega, in S. Giovanni Elemosinario; sempre nello stesso anno Marco Querini eresse in S. Maria Formosa l'altare su cui venne poi collocata un'altra Crocifissione del C., anch'essa derivata dal Tintoretto ma addolcita alquanto nei modi di Palma il Giovane (Murano, Museo vetrario).
Tutti questi dipinti, perfettamente consoni ai dettami e allo spirito della Controriforma per la scelta degli argomenti e per il pietismo profondamente interiorizzato che li anima, rivelano da parte del C. un'adesione via via più dichiarata al linguaggio del Tintoretto, sia nei prestiti sempre più puntuali delle immagini, sia soprattutto nel progressivo accentuarsi del gusto per il chiaroscuro e per gli effetti luministici.
Significativo in tal senso è l'aneddoto riportato dal Ridolfi (p. 101), secondo il quale lo scultore Alessandro Vittoria, invitato dal C. ad esprimere il suo parere sulla cosiddetta Pala dei tintori, destinata alla chiesa di S. Maria dei servi e ora nel duomo di Castelfranco Veneto, osservò maliziosamente che se non l'avesse vista in casa del pittore l'avrebbe creduta dello stesso Tintoretto, "havendo quella qualche somiglianza col San Girolamo della Compagnia della Giustitia". L'episodio non incrinò comunque l'amicizia tra i due artisti e il Vittoria fornì al C. i modelli per l'Annunciazione della cappella del Rosario in S. Zanipolo alla cui riuscita il pittore teneva particolarmente per non sfigurare nei confronti del Palma, suo acerrimo rivale, che gli aveva sottratto con abili manovre la commissione, per la medesima cappella, del Paradiso, già assegnata in precedenza dai soprastanti allo stesso C. (Ridolfi, pp. 99-100, 188). Di questo e degli altri dipinti assegnati dalle fonti al C. in questa cappella, tra i quali era famosissima La predica di s. Domenico, non rimane che il ricordo dopo l'incendio che devastò l'edificio nell'agosto del 1867.
Tra il. 1600 e il 1605, ancora in concorrenza col Palma autore delle pitture sul soffitto, il C. dipinse nove Storie della Passione per la Scuola di S. Fantin (ora Ateneo veneto), ritenute dalla critica le sue cose più alte, sia per la profonda partecipazione emotiva che ne tempera ogni asprezza eccessiva evitando altresì ogni sterile compiacimento culturale, sia per la forza intensamente drammatica del gioco luministico mediato attraverso l'ultimo Tintoretto. Narra il Ridolfi (p. 104) che nel 1605, mentre lavorava all'esecuzione dei dipinti, abituato a mangiare e a bere senza riguardo con gli amici nella casa a Biri Grande, dove già aveva abitato Tiziano e dove egli si era stabilito dopo il 1592 (Manzato, 1970), il C. si ammalò gravemente; in pochi giorni morì a soli quarantaquattro anni e fu sepolto in S. Maria Nova, in una tomba comune e senza alcuna iscrizione (Cicogna, 1830). "E per la stima che ne faceva il Palma, con qualche livore, disse allora quando morì: Ho io guadagnato" (Boschini, 1674).
Sempre secondo il Ridolfi alcune delle tele nella Scuola di S. Fantin, rimaste incompiute alla morte dell'artista, sarebbero state terminate dagli scolari, tra i quali il Boschini (1674, p. 98) cita Baldassare d'Anna, un pittore di origine fiamminga, come autore dell'episodio raffigurante Cristo davanti a Pilato. Questo racconto, accolto senza riserve dalla storiografia successivama privo di qualsiasi conferma da parte dei documenti, presenta non pochi punti oscuri che sono stati messi in evidenza di recente dagli scritti del Manzato (1970) e della Scirè Nepi (1981).
Il favore incontrato presso i contemporanei dalla pittura del C. trova un'eco, pochi decenni dopo la morte, nelle pagine del Ridolfi (1648) che acutamente ne osserva l'abilità e la risolutezza istintiva del tratto, il gusto per la composizione scenica che non rifugge dall'abile inserto delle cose altrui, la sincera partecipazione alla drammaticità degli eventi narrati e, soprattutto, l'influenza determinante del Tintoretto lungo quasi tutto l'arco della sua attività. Anche il Boschini (1660, p. 404) loda, apparentemente senza riserve e con toni talora eccessivi, le opere del C. "tuto pien de bravura e tuto ardir", salvo aggiungere subito dopo che "questa xe però gloria tentoresca". Lo stesso autore, nella famosa Distinzione di sette maniere in certa guisa consimili contenuta nella Breve Instruzione premessa alle Ricche minere (1674), pone il C., definito buon disegnatore e molto osservatore del Tintoretto, al secondo posto dopo il Palma di cui fu "grand'emulo e concorrente". Per lo Zanetti invece (1733) se fosse vissuto più a lungo egli avrebbe senz'altro superato il rivale, cosa che, secondo il parere del Lanzi (1809), già si verifica nelle ultime opere del Corona. Questi giudizi, ripetuti e mescolati tra loro senza sostanziali modifiche per tutto l'Ottocento, sono rivisti criticamente e ampliati dal Venturi (1934) che riconosce nel linguaggio eclettico del C., accanto alle desunzioni da Tiziano e dal Tintoretto osservate dal Ridolfi, anche gli influssi del Veronese, del Bassano e dello stesso Palma. Egli ritiene però che, al di là di questi innegabili richiami alla grande tradizione veneziana del Cinquecento, il C. del ciclo di S. Fantin si trasporti ormai in pieno Seicento per "la violenza del chiaroscuro intenso e dinamico e l'ampollosità dei volumi sbalzati in fuori dalle luci che a sprazzi li investono" (p. 254). L'opinione del Venturi, condivisa dall'Ivanoff (1962) e dallo Zampetti (1973), non è invece accolta dal Pallucchini (1960), dal Manzato (1970) e dalla Scirè Nepi (1981). Scrive a tal proposito il Pallucchini (1981, p. 49): "Non mi pare che si possa parlare di rinnovamento in senso barocco... del linguaggio del Corona: siamo sempre nell'ambito del tardomanierismo tintorettesco. Che l'interpretazione offerta dal muranese sia ragguardevole per la sua schiettezza popolaresca non mi par dubbio, ma è sempre un modo d'esprimersi che ha i suoi presupposti nel linguaggio tintorettesco, che non si svincola da quella struttura nonostante alcune accentuazioni di frammentario ed episodico realismo".
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