Leon Battista Alberti
Per quanto non si sia mai dedicato alla trattatistica o precettistica politica in senso stretto, Leon Battista Alberti – definito l’‘uomo universale del primo Rinascimento’ per la molteplicità dei suoi interessi – offre al lettore importanti e non convenzionali spunti relativi alla rappresentazione della vita civile, politica e religiosa in età umanistica, e al rapporto tra cultura e potere. L’appartenenza a una delle maggiori famiglie fiorentine, che nel corso della prima metà del Quattrocento avrebbe sperimentato l’esilio e il fallimento economico, permette ad Alberti di avere una visione ravvicinata delle dinamiche vigenti all’interno della realtà cittadina; lo stesso può dirsi per l’ambiente della curia pontificia, da lui frequentato a lungo e dipinto, sotto il velame dell’allegoria, con toni ironici e taglienti.
Battista Alberti (il primo nome ‘Leone’ è un’aggiunta posteriore, secondo la prassi umanistica) nasce a Genova il 18 febbraio 1404 (Massalin 2004; Cardini 2005), da Lorenzo – membro della famiglia Alberti, esiliata da Firenze fin dal 1401 – e Bianca Fieschi; l’unione dei genitori non è regolare, per cui Leon Battista si troverà a dover lottare per il riconoscimento dei propri diritti sull’eredità paterna e, in generale, del proprio ruolo all’interno della ‘famiglia Alberta’. Studia a Venezia e Padova, poi a Bologna (dal 1421, dopo la morte del padre), dove attende alla facoltà di Diritto canonico e si interessa anche di letteratura e matematica. Dopo la revoca del bando, nel 1428, Alberti non rientra stabilmente a Firenze: riceve gli ordini minori, entra a far parte, in qualità di segretario, dell’entourage di Biagio Molin, patriarca di Grado, divenendo abbreviatore e in seguito anche scrittore apostolico presso la curia romana, incarico che costituirà la sua fonte di entrate assieme ad alcuni benefici ecclesiastici nel contado fiorentino. Negli anni Trenta Alberti risiede successivamente a Firenze, a Bologna, a Ferrara, dove si svolge il Concilio per l’unione delle Chiese greca e latina, e – quando il Concilio, a causa della pestilenza, si sposta a Firenze – di nuovo nella città toscana, dove intrattiene rapporti non sempre idilliaci con gli ambienti culturali del luogo (esemplare è l’impresa del ‘Certame coronario’, una tenzone poetica in volgare da lui organizzata nel 1441 che vide una certa partecipazione, ma al termine della quale i giudici decisero di non assegnare il premio a nessuno).
In questa prima fase della sua vita stende alcune delle sue opere maggiori, tra le quali: la Philodoxeos fabula (1424-27 ca.), una commedia in latino che viene inizialmente ritenuta – non si sa se per volontà del giovane Leon Battista – un’opera antica appena riscoperta; il De commodis litterarum atque incommodis, scritto agli inizi degli anni Trenta (Boschetto 1998), sui vantaggi e gli svantaggi dell’intraprendere la carriera dello studioso; i Libri della famiglia (iniziati nella prima metà degli anni Trenta e poi ripresi e ampliati fino agli inizi del decennio successivo); il trattato De pictura (in due redazioni, prima in volgare e poi in latino, come stabilito da Lucia Bertolini, Sulla precedenza della redazione volgare del “De pictura” di Leon Battista Alberti, in Studi per Umberto Carpi, 2000); gran parte delle Intercenales (componimenti in latino di argomento morale e satirico pensati per allietare i dotti conviti «inter coenas et pocula», tra pietanze e bevande), che risentono sia dell’ambiente romano che di quello fiorentino; due scritti in volgare di argomento morale, il Theogenius (1440-41) e i Profugiorum ab erumna libri III (1441-42).
A Roma, alla fine degli anni Quaranta e nella prima metà degli anni Cinquanta, lavora al Momus e al trattato di architettura (De re aedificatoria); a questo periodo risale forse anche il trattato sulla scultura (De statua); dal 1459 inizia la sua collaborazione ai progetti per Ludovico Gonzaga (la chiesa di San Sebastiano e più tardi quella di Sant’Andrea a Mantova) e realizza inoltre edifici e chiese in varie città d’Italia (si ricordino almeno la facciata di Santa Maria Novella a Firenze e il rifacimento del tempio Malatestiano di Rimini); nel corso degli anni Sessanta compone un secondo trattato sul reggimento della famiglia, il De iciarchia, oltre a opuscoli di vario argomento. Nel 1471 accompagna una legazione medicea a Roma a visitare le rovine della città antica. Muore a Roma nel 1472.
La visione albertiana della dimensione sociale rispecchia l’immagine dell’uomo che emerge dalle sue opere morali, e cioè il fatto che per Alberti gli esseri umani sono costitutivamente duplici: nell’aneddoto sulla creazione dell’uomo narrato nel Momus si legge che Dio, dopo aver creato l’umanità, le indica il suo palazzo, dove avrebbe trovato «tutti i beni in grande abbondanza»; ma lungo il percorso molti «omuncoli» si sviano e assumono fattezze bestiali e mostruose, alle quali rimediano applicandosi sul viso delle maschere di fango che ne nascondono i tratti, al fine di non essere «respinti dai loro simili» (Momo o del principe, a cura di R. Consolo, 1986, pp. 257-59). L’insistenza albertiana sul tema della doppiezza dell’uomo non è circoscritta al contesto satirico del Momus, ma affiora in molti altri testi, venendo a costituire un vero leitmotiv della sua produzione: per es., nei Libri della famiglia si afferma che «tutto il mondo si truova pieno di fizioni» (I libri della famiglia, a cura di R. Romano, A. Tenenti, nuova ed. a cura di F. Furlan, 1994, p. 311).
Se questa è l’idea albertiana della natura dell’essere umano – che Eugenio Garin ha ben definito «il punto di rottura» dell’ordine naturale (Garin 1975, rist. 1992, p. 178) –, non stupisce che anche la riflessione sulla vita associata sia caratterizzata dal ricorrere di espressioni come «simulare e dissimulare», «fingere» e così via, e che l’intero ambito sociale si configuri come un teatro (il teatro del mondo) in cui ciascuno recita una parte.
Il nascondere i propri reali pensieri e intenti è dettato anche dalla necessità di non esporsi ai pericoli che ci vengono dagli altri, in particolare dall’autorità costituita. La distinzione tra la deliberata volontà mistificatoria e l’autodifesa (che richiama alla mente la ‘dissimulazione onesta’ di Torquato Accetto, del 1641) non inficia però la visione generale del mondo umano come luogo intrinsecamente connotato dalla doppiezza.
La descrizione della malvagità e della stoltezza insita nei ‘miseri omiccioli’ – pur mitigata in altre opere albertiane dal riconoscimento delle virtù, dell’ingegno e delle imprese degli uomini – risulta profondamente dissonante da quella che ci attenderemmo da un tipico esponente dell’Umanesimo. E in effetti, quando nel secolo scorso si è incrinata la tradizionale visione del periodo primo-rinascimentale come un’epoca di riscoperta e glorificazione della grandezza e della dignità dell’uomo, Alberti è stato addotto come esempio di antiumanista, ossia di negatore di tutti quei valori positivi associati all’immagine dell’uomo ‘dio terreno’, ‘artefice del proprio destino’ e ‘grande miracolo’.
È innegabile che nel corpus degli scritti albertiani coesistano percorsi di riflessione contrastanti e perfino apertamente inconciliabili, che non si ricompongono in una visione d’insieme pacificata: numerose tesi sostenute nei trattati morali sono puntualmente smentite e messe in ridicolo dallo stesso Alberti nelle opere satiriche, mentre l’insistenza su alcuni valori positivi in scritti come i Libri della famiglia e il De iciarchia vale a smorzare, almeno, la carica dirompente e drammatica delle vicende narrate nel Momus e nelle Intercenales (ma, anche, fuori dal genere del ludus, nel Theogenius). La scrittura albertiana assomiglia pertanto a un concerto in cui il canto e il controcanto si rispondono, determinando un equilibrio sempre variabile, dove la ‘verità’ viene affermata e al tempo stesso sconfessata e relativizzata; non si tratta certo di un pessimismo gnoseologico, morale ed esistenziale nel senso postmoderno del termine, ma la consapevole ripresa e trasformazione del genere satirico e parodico antico consente ad Alberti di delineare un ritratto lucido, impietoso e su più livelli della realtà a lui contemporanea, una realtà che mostra in se stessa contraddizioni e incrinature.
Parallelamente, Alberti non può essere annoverato tra i fautori e sostenitori dell’Umanesimo ‘civile’, secondo l’espressione utilizzata da Hans Baron: nato in esilio, e quindi privo di una giovinezza radicata nella vita e nei costumi fiorentini, diviso durante la sua esistenza tra Firenze, Roma e le corti di diversi signori e committenti, Leon Battista non può farsi paladino di una particolare realtà sociale a discapito di un’altra, e in questo si discosta dalle diatribe campanilistiche, dagli elogi e dalle invettive quattrocentesche (si pensi al panegirico di Leonardo Bruni, cancelliere di Firenze, in lode della città e della sua ‘libertà’, la Laudatio florentinae urbis, 1403-1404 ca., che si muove sulla scia delle lotte di inizio secolo tra Firenze e la Milano viscontea). E neppure si inserisce nel correlato dibattito sulla migliore forma politica possibile, che aveva acceso gli animi degli umanisti a seguito della ‘riscoperta’ delle Leggi e della Repubblica di Platone: fatta eccezione per alcuni suoi interessi particolari in gioco, Alberti guarda con distacco, e con il sorriso ironico sulle labbra, ai conflitti tra le fazioni cittadine o tra le correnti interne alla curia, non risparmiando frecciate né ai modelli repubblicani né a quelli principeschi o teocratici.
Assieme all’immagine di un Alberti ‘impegnato’ è da respingere, però, anche quella, opposta, di un filosofo perfettamente integrato nella cerchia platonizzante filomedicea di Marsilio Ficino, secondo il ritratto che ne dà Cristoforo Landino nelle Disputationes camaldulenses (1474), che furono composte subito dopo la morte dell’umanista. La rilevanza della meditazione albertiana in campo sociale, politico, religioso e civile non è dunque da ricercarsi in specifiche opere sul principe o sul cortigiano, né nell’elogio di un singolo assetto politico o nella discussione dei fondamenti storici o filosofici del potere e del governo; essa risiede piuttosto nel singolarissimo sguardo gettato da Alberti sul mondo: uno sguardo disincantato, deformante e demistificatore.
La pratica della simulazione e dissimulazione costituisce un buon punto di partenza nella disamina dei passi albertiani dedicati alla rappresentazione dei governanti e all’analisi del potere civile o religioso e delle modalità con cui interagirvi. Metteremo a confronto due esempi di cortigiano-consigliere del principe proposti da Alberti, ossia Momo, il protagonista dell’omonima opera, e Piero Alberti, uno degli interlocutori dei Libri della famiglia.
Il Momus, che ha conosciuto una grande fortuna negli ultimi decenni, racconta le peripezie di Momo, il dio del biasimo, ambientate sull’Olimpo e tra gli uomini. Fin dall’inizio il protagonista denigra il modo in cui Giove ha condotto a termine la creazione del mondo e critica l’inettitudine del re celeste; per la sua dicacitas viene scacciato sulla Terra e, a contatto diretto con gli uomini, impara l’arte della simulazione e dissimulazione. Nuovamente accolto tra i superi grazie a un ‘servigio’ reso agli dei (l’invenzione dei voti, che allude alla pratica delle offerte per le indulgenze in occasione del giubileo del 1450), Momo diventa per un certo periodo il ‘buffone del re’ e il suo ‘favorito’, fino a quando, non sopportando più di far ridere gli altri, compie un’ulteriore trasformazione assumendo l’abito del consigliere coscienzioso e leale. Al momento del consesso divino indetto per decidere delle sorti del mondo, Giove è indiretta causa della rovina del protagonista in quanto, nominandolo ‘presidente’ dell’assemblea, fornisce agli avversari di Momo il motivo scatenante e l’occasione per toglierlo di mezzo definitivamente, mediante castrazione e segregazione su uno scoglio in mezzo al mare.
In questo scritto – che in alcuni dei primi manoscritti e stampe compare con il titolo Momo o del principe – Alberti sostiene a più riprese di stare scrivendo per l’ammaestramento e l’edificazione del giusto sovrano, apportando tutti gli exempla negativi da cui quest’ultimo deve rifuggire. Trattandosi di un testo satirico, vi si dovrebbe dunque leggere una critica caricaturale del mondo politico: per es., il tentativo di Giove di riedificare il mondo potrebbe corrispondere a una riforma o rivoluzione, il consesso degli dei simboleggerebbe la corte del ‘signore’ e così via. Ma, accanto all’innegabile valenza politica, e in virtù della sua composizione in ambiente romano, al Momus vengono ad associarsi significati religiosi, per cui al principe si può agevolmente sostituire il pontefice e alla corte la curia papale: l’aspetto politico e l’aspetto religioso si intrecciano nella rappresentazione del ‘reggimento’ della Terra da parte di un’autorità, laica o ecclesiastica che sia (senza dimenticare il tema più universale del rapporto tra uomo e divinità).
Il carattere singolare di quest’opera complessa e a tratti tortuosa risponde a una ovvia esigenza cautelativa, ma riflette anche l’atteggiamento profondamente ambivalente di Alberti nei confronti della sfera del potere e del governo. La lettura ‘politica’ degli eventi narrati da Alberti è però tutto sommato chiara: Momo è colui che, costretto da un ambiente ostile e mosso da risentimenti personali, si affanna a cercare il favore del principe, riuscendovi solo per poco tempo, dal momento che, si sa, i principi sono volubili e gli intrighi di corte assai pericolosi. Nelle sue arringhe e nei suoi soliloqui Momo fa spesso riferimento ai topoi della precettistica sulla condotta prudente: il parere tempori, il contrasto tra sembrare ed essere, la necessità di assumere un comportamento dissimulante per coloro «quibus intra multitudinem atque in negotio vivendum sit» (Momo, cit., p. 98). Il guaio di Momo è però che non sa portare le maschere (personae) del cortigiano-consigliere con la dovuta prudenza e ‘sprezzatura’, non comprende le dinamiche di corte, non è capace di essere un ‘buon’ simulatore e dissimulatore, ovvero di esserlo fino in fondo senza cedere alle passioni, in particolare alla smania di affermazione, al desiderio di vendetta e all’iracondia; pur avendo messo a soqquadro il Cielo e la Terra non ha, in definitiva, né mutato né ottenuto nulla: il mondo va avanti uguale a prima, l’ordine esistente (o meglio, il disordine) si è dimostrato più forte del singolo sovvertitore, facendo quindi disperare di un possibile futuro cambiamento.
Si è molto discusso se Momo sia da considerarsi un personaggio positivo – in quanto demistificatore degli inganni dei governanti – o invece negativo – in quanto esemplare della peggior specie di parassita, ma entrambe le letture contengono un fondo di verità. Il Momus è per certi versi un testo cifrato, e gli studiosi hanno di volta in volta ravvisato nei personaggi dell’opera i tratti di possibili obiettivi polemici della critica albertiana; vi sono, per es., non troppo velate allusioni a contemporanei (come Francesco Filelfo e Stefano Porcari) o ai pontificati di Eugenio IV (1431-1447) e di Niccolò V (1447-1455), in particolare per il progetto di rinnovamento urbanistico di Roma di quest’ultimo, da Alberti probabilmente stigmatizzato nella ‘smania di costruire’ (la libido aedificandi) del reggitore dell’Olimpo, Giove, che intende demolire e riedificare il mondo.
Un’interpretazione diversa di quest’opera, nel Rinascimento, sembrerebbe essere indicata da due diverse edizioni del Momus pubblicate entrambe a Roma nel 1520, e quindi a breve distanza dall’affissione delle 95 tesi da parte di Martin Lutero (1517); il fatto che queste due stampe siano dedicate a influenti consiglieri del pontefice fa pensare che nelle vicende del dio del biasimo e della corte celeste i contemporanei potessero trovare elementi realmente utili all’arte di governo, e non solo e non tanto una irrisione delle strutture di potere. Ciò sembrerà paradossale al lettore moderno, che potrebbe aspettarsi, piuttosto, di riscontrare un apprezzamento delle critiche albertiane al papa e all’ambiente degradato della curia in terra protestante; ma per imbattersi in una operazione simile, in cui Giove e Momo sono al centro di una ‘riforma’ del Cielo e della Terra, bisognerà attendere il 1584, ossia la pubblicazione dello Spaccio de la bestia trionfante di Giordano Bruno (che, forse, aveva letto il Momus nel volgarizzamento del 1568 di Cosimo Bartoli).
Il Momus si chiude con Giove che rilegge il libretto (le tabellae) di massime per il buon governo che Momo aveva raccolto nel corso del suo esilio per offrirgliele in dono (Momo, cit., pp. 288-90); Giove trae dalla lettura delle tabellae un grande piacere (per il fatto di ritrovarvi «consigli ottimi, davvero necessari alla formazione e all’attività di un grande governante») e al tempo stesso un grande dispiacere (si duole, infatti, della propria negligentia, che gli ha impedito di seguirli). Questa conclusione è stata spesso interpretata come un lascito (e un monito) albertiano al principe, nel senso che i precetti contenuti nel libretto sarebbero da identificare con le autentiche posizioni e vedute dell’autore.
Contro questa ipotesi gioca però, almeno in parte, il fatto che – da un lato – i precetti si rivelano una sequela di banali luoghi comuni degli specula principis e – dall’altro – che si tratta di una collezione di opinioni e teorie raccogliticce enunciate proprio da quei filosofi quasi sempre descritti in modo satirico nel corso di tutto il Momus. Perciò, forse, Momo, con la sua profferta, non intendeva in alcun modo contribuire alla progettata impresa di Giove, quanto piuttosto farsi bello delle idee altrui pur conoscendone l’intrinseca inconsistenza; analogamente, secondo questa ipotesi Alberti qui sbeffeggerebbe quei principi che si affidano a sedicenti consiglieri ed ‘esperti’ dell’arte del governo, i quali mirano invece soltanto a entrare nelle grazie del signore.
All’‘attendibilità’ degli ammaestramenti dell’opuscolo deve aver prestato fede il già nominato volgarizzatore cinquecentesco del Momus (e di altre opere albertiane), Cosimo Bartoli, che nella sua edizione fa seguire al testo del Momus, come libro V dell’opera, i Trivia senatoria, ossia una raccolta di ‘luoghi comuni’ dell’oratoria politica che Alberti aveva offerto, attorno al 1462, al giovanissimo Lorenzo de’ Medici (ricordiamo di passaggio, dal momento che le dediche possono fornire un qualche indizio sui rapporti intercorrenti tra scrittore e dedicatario, e in questo caso tra Alberti e i Medici, che Leon Battista aveva già dedicato la versione in volgare dell’intercenale Uxoria al padre di Lorenzo, Piero, nel 1438).
Sarebbe interessante procedere ancora in questa rassegna degli elementi del Momus riconducibili alla sfera politica, alla rappresentazione dello Stato e del governo, di cui la relazione Momo-Giove e la vicenda della ‘riedificazione’ del mondo costituiscono solo un assaggio: in particolare, allora, andrebbero prese in considerazione anche l’apparizione, nel quarto libro dell’opera, della tradizionale metafora della ‘nave dello Stato’ (o ‘nave della Chiesa’), che si rivela – sintomaticamente – essere una nave di pirati sanguinari (Momo, cit., p. 267). Ma è tempo di volgerci alla figura di un altro ‘cortigiano’, non senza aver prima ricordato un ultimo episodio del Momus, ovvero la perorazione dell’araldo Peniplusio (nel cui nome si uniscono povertà e ricchezza) a Caronte, in occasione della disputa con il re Megalofo (nome che allude forse alla tendenza regale ad ‘alzare la cresta’) sul giusto posto che spetta loro nella barca del traghettatore dei morti (pp. 283-85). Qui compaiono numerosi elementi presenti sia nella riflessione umanistica sull’‘infelicità del principe’, sia in altre opere albertiane, quali ad esempio l’insistenza sulle cariche pubbliche come ‘servizio’ e finanche ‘servitù’:
Io sono stato uomo, e anche costui uomo [...]. Lui è stato al pubblico servizio, e io pure. Di’ che non è così, oppure dimmi che altro è il potere, Megalofo. Non è forse un impegno pubblico, in cui anche chi non ne ha voglia deve eseguire le prescrizioni di legge? Quindi siamo stati pari, tutt’e due eravamo soggetti alle leggi, e se le abbiamo rispettate abbiamo fatto il nostro dovere, tu come me: così siamo stati servi tutt’e due, alla pari (p. 283).
Secondo la versione tramandata da Alberti stesso nella sua autobiografia (Vita, 1438), i primi tre Libri della famiglia sarebbero stati da lui composti nel volgere di soli novanta giorni nel suo trentesimo anno di età (L’autobiografia di Leon Battista Alberti, 1972, p. 70); presumibilmente siamo invece dinanzi a una composizione molto stratificata, per cui i primi tre libri risalgono agli anni 1432-34, mentre il quarto si aggiungerà in seguito, proprio negli anni in cui la ‘famiglia Alberta’ celebrata nel dialogo attraversa una crisi gravissima. Gli Alberti, una facoltosa casata dedita essenzialmente al commercio e alle attività bancarie, che aveva sedi della propria compagnia in mezza Europa (Londra, Bruges, Colonia, Basilea, Roma), dopo il tumulto dei Ciompi del 1378 aveva aderito alla fazione avversa alla potente famiglia e consorteria degli Albizzi, che l’aveva in seguito esiliata da Firenze.
Gli Alberti tornarono a Firenze nel 1428, ma non riottennero subito la possibilità di accedere alle cariche pubbliche (per cui poterono contare sul proprio potere economico ma non esercitare direttamente un’influenza politica); significativamente, il pieno godimento dei diritti politici venne loro restituito all’indomani del rientro di Cosimo de’ Medici a Firenze, nel 1434, circostanza che lascia supporre che i Medici considerassero gli Alberti come loro alleati (da notare però il fatto che, anche sotto i Medici, i membri della famiglia Alberti non ricoprirono molte posizioni di rilievo nel reggimento cittadino, segno, questo, che i Medici non dovevano annoverarli tra i ‘fedelissimi’). È stato osservato che i rapporti tra le due famiglie, vista la coincidenza del mestiere di bancari e il conseguente conflitto di interessi, non potevano essere del tutto idilliaci; è vero però che in Italia il maggior centro di attività degli Alberti era Roma, non Firenze, e che in ogni caso, nel giro di pochi anni dal ritorno al potere dei Medici, la compagnia degli Alberti sarebbe caduta in disgrazia. La crisi si aprì infatti nel 1436, e culminò due anni dopo con la disonorevole fuga di Benedetto Alberti da Firenze, fino alla decretazione del fallimento nel 1439 (Boschetto 2000a, pp. 31-63).
Già da questa brevissima sinossi delle vicissitudini degli Alberti possiamo desumere alcune possibili implicazioni e ripercussioni sull’immagine che Leon Battista dovette avere delle discordie intestine e dei rovesci della sorte cui sono esposti i cittadini più eminenti. Inoltre, sebbene Alberti avesse intrapreso una via diversa, quella delle litterae, risentì certamente del declino improvviso della potenza e del prestigio della famiglia, se non altro per quel che concerne il modo in cui venne accolto il suo dialogo, di cui il primo blocco risale a poco prima dello scoppio della crisi, mentre il quarto libro si colloca proprio nel suo periodo più buio. Una pessima scelta di tempistica, verrebbe da dire, per quest’opera che è, al tempo stesso, una celebrazione delle virtù, delle tradizioni e dei costumi del proprio casato e un tentativo di inserirvisi da parte di un membro (Leon Battista) non pienamente integrato in esso a causa delle conseguenze della sua origine illegittima.
In apertura del quarto libro – quello de amicitia – dei Libri della famiglia, ci imbattiamo in pagine molto interessanti dal punto di vista della tematica del ‘principe’, che viene qui affrontata in un’ottica diversa da quella poi adottata nel Momus (che è posteriore di circa un quindicennio), affidandone Leon Battista la trattazione a un membro della ‘famiglia Alberta’, Piero di Bartolomeo, che nel corso della sua vita ha avuto modo di offrire i suoi servigi a più ‘signori’ e può quindi parlare per esperienza diretta del mondo cortigiano e del tipo di relazioni umane e diplomatiche in esso vigenti. Qui la rappresentazione delle corti e dei dignitari non è meno severa di quella che, pur sotto lo schermo allegorico, traspare dalle pagine del Momus, ma l’intento albertiano, stavolta, è quello di fissare dei precetti per chi si trovasse nella necessità di ‘servire’, in una sorta di anticipazione della posteriore trattatistica sul perfetto cortigiano. Nelle parole di Piero sono rintracciabili sia motivi comuni al Momus, sia, per contro, elementi fortemente discordanti, che fanno sì che Piero e Momo vengano a porsi come due modelli opposti ma entrambi esemplari.
L’accostarsi di Piero ai ‘signori’, determinato dal difficile frangente dell’esilio, si configura sin dall’inizio come una «impresa» che ha richiesto grande «industria e sollecitudine», ovverosia una preparazione e un’attenzione, quasi una dedizione, costanti; il suo interlocutore Lionardo tratteggia inoltre un ritratto negativo della figura del principe che, anche se contemperato qua e là da osservazioni più benigne, è destinato a non subire modifiche sostanziali: «sono i principi quanto vogliono d’ogni onesto essercizio vacui, oziosi, e in tempo non poco dati alle voluttà, e acerchiati non da amici ma da simulatori e assentatori» (I libri della famiglia, cit., p. 324).
Inizia così un racconto, una «istoria» il cui preciso argomento è il modo di accattivarsi le simpatie dei potenti: gli ascoltatori udiranno le «caute e poco usate forse e raro udite astuzie, molto utilissime a conversare con buona grazia in mezzo el numero de’ cittadini» e l’«artificio», lo «studio» e le «maniere» utilizzate da Piero per entrare nelle grazie, rispettivamente, del duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, del re di Napoli Ladislao e dell’antipapa Giovanni XXIII.
L’episodio che ha come protagonista Gian Galeazzo presenta sin da principio alcuni aspetti singolari: la figura del duca è infatti tratteggiata in termini prima quantomeno non negativi («infestava qualunque impedisse el suo corso a immortal gloria coi suoi triunfi, fra’ quali la nostra repubblica fiorentina sentì quanto fusson grandissime sue forze a fermo imperio»), poi apertamente elogiativi: «E quello che in lui non ultimo a me parea di pregiare, era cupidissimo de’ virtuosi e amantissimo de’ buoni, e padre della nobilità» (p. 331). Anche tenendo nella debita considerazione il fatto che i dialoghi svolti nei libri Della famiglia si suppongono risalire all’epoca dell’esilio degli Alberti, e che Piero, in qualità di esule, era in certa misura legittimato a mettersi al servizio di un signore straniero, la celebrazione di Gian Galeazzo – forse il più temibile nemico di Firenze e l’artefice di una guerra il cui ricordo non doveva essersi spento ancora negli anni Trenta del Quattrocento (e anzi si era rivestito di un’aura mitica) – resta comunque molto forte e densa di implicazioni, e dovette suonare stonata, se non provocatoria, ai lettori fiorentini dell’opera albertiana.
Una volta ottenuto l’accesso alla «secreta camera» di Gian Galeazzo, il compito di Piero è lungi dall’essere stato portato a termine: egli dovrà adoperarsi per mantenere i buoni rapporti con il duca, e a tal fine sfrutterà ogni opportunità per ossequiarlo o renderglisi utile: il servire un signore richiede infatti un comportamento accorto, prontezza nel cogliere le occasioni che via via si offrono e un impegno costante (il motivo del parere tempori si combina a quello del kairós). Se poi questo principe è, nei limiti del possibile, non iniquo e degno di rispetto, il contegno da assumere sarà quello di un collaboratore retto, prezioso e affidabile.
Dopo questa prima esperienza di ‘vassallaggio’, con il trasferimento da Milano a Napoli in seguito alla morte di Gian Galeazzo, mutano anche alcuni aspetti della condotta del personaggio albertiano; la circostanza propizia si presenta quando Piero soccorre re Ladislao messo in difficoltà durante una battuta di caccia (un topos, quello della caccia, e dell’associazione tra caccia e guerra, particolarmente caro alla corte napoletana). Da quel momento Piero diviene «assiduo fra’ suoi domestici familiari in casa» (p. 341). Come nel caso precedente, però, una volta ottenuto il suo scopo, il personaggio deve prestare attenzione a non ingenerare sospetti o malevolenza negli altri cortigiani; di conseguenza, egli si mantiene obiettivo, rifiutando di avallare l’investitura di persone non idonee a cariche importanti, e si mostra affabile con tutti: «fuggiva io ogni odio e ogni invidia, escludendo a me tutte le ostentazioni e fastidiose pompe, quali nei pochi prudenti subito sogliono insieme colla prospera fortuna escrescere» (p. 342). Piero è ben consapevole del fatto che non deve perdere mai il favore del re, e che anche la più piccola disattenzione può significare un fallimento completo:
ché bene intendea io quanto chi disse la benivolenza de’ signori essere simile alla dimestichezza dello sparviere, disse el vero. Una volata el rende soro e foresto; uno minimo errore, una parola, [...], anzi e un sol guardo s’è trovato stato cagione che ’l signore prese odio capitale contro chi e’ molto prima amava. [...] Però io con molta vigilanza, assiduità e osservanza, con onestissimi e iocundissimi essercizii, con ogni riguardo in favellare e degna moderazion d’ogni mio gesto, curava mantenermi la grazia e benivolenza di Ladislao re (I libri della famiglia, cit., p. 343).
Manca una descrizione particolareggiata dell’indole di Ladislao, e da quel che Piero racconta si possono soltanto trarre alcuni spunti per ricostruire l’interesse del sovrano per attività ludiche quali la caccia e i combattimenti di cavalieri, oltre a una sua tendenza a usare liberalità in modo eccessivo con i propri favoriti, come si può desumere da quel «piacqueli ch’io apresso di lui tanto potessi quanto i’ volea» che ricorda il severo giudizio sulle smanie di potere dei principi espresso a distanza di decenni da Battista nel De iciarchia: «Figliuoli, dico a voi, el troppo sopra modo potere in qualunque sia la cosa importa licenza temeraria, e fa traboccare le voglie e incita gl’impeti delle nostre imprese. Onde potendo quello che tu vuoi, ne seguita che tu vuoi tutto ciò che puoi, e ardisci e usiti a volere ancora più che non si lice né si conviene» (in Opere volgari, a cura di C. Grayson, 2° vol., 1966, p. 188); emerge anche un’immagine negativa della corte napoletana, dominata dagli intrighi e segnata dai cambiamenti d’umore del re.
La terza esperienza cortigiana di Piero lo vede al servizio dell’antipapa Giovanni XXIII; la circostanza che determina l’inizio di questo vincolo è generata da un evento avverso, che però il personaggio sa volgere a suo favore, ossia la richiesta imperiosa del pontefice di ottenere in brevissimo tempo un prestito piuttosto gravoso dalla famiglia Alberti, dietro istigazione di non meglio specificati «inimici». Essendo riuscito a procurarsi il denaro, Piero lo consegna di persona al papa, accompagnando il ‘dono’ con parole molto eloquenti: egli ammette apertamente di aver fatto uso di raffinati accorgimenti per rendersi bene accetto:
Furono l’ultime mie parole con fronte, in ogni mio dire, aperto, e con gesti quanto questi prelati ricercano, quasi adorandolo, ch’io gli profferia la famiglia nostra Alberta, in quale e’ volesse parte, ubidientissima e fidelissima (I libri della famiglia, cit., p. 345).
Nel tentativo di compiacere il suo interlocutore, Piero non esita a ostentare, con parole e gesti, una sottomissione incondizionata alla volontà del papa, ‘recitando’ alla perfezione la sua parte. Dal ritratto che Piero ne fa traspare l’indole astuta e calcolatrice di Giovanni XXIII, che intende scoprire il meno possibile i propri pensieri e nel contempo trarre il maggior profitto dalle persone e dalle situazioni; inoltre,
erano in lui alcuni vizii, e in prima quello uno quasi in tutti e’ preti commune e notissimo: era cupidissimo del danaio tanto, che ogni cosa apresso di lui era da vendere; molti discorreano infami simoniaci, barattieri e artefici d’ogni falsità e fraude.
Non meno ferocemente critica appare la descrizione della curia:
Era ancora fra tutti e’ suoi domestici una incredibile, continua dissensione e d’ora in ora volubilità di tutti gli animi della sua famiglia. Oggi questo potea el tutto; domani era costui da tutti escluso; e così d’ora in ora ciascuno procurava rendere odiato e dismesso chi sopra sé apresso del Papa fusse acetto (p. 346).
Inserendosi con successo nei giochi di potere e nelle strategie dei cortigiani, Piero riesce a essere «collocato in suprema licenza e grado» (p. 346) e si trova immerso in un mondo retto dall’inganno e dall’avidità, nel quale, «per non coinquinarsi e ricevere qualche nuota di infamia conversando con quelli scelerati e da tutti e’ buoni odiati e vituperati», sceglie di condurre un’esistenza il più possibile appartata. Nondimeno, non tralascia di richiedere con insistenza al pontefice grazie e incarichi fino a che non gli sono concessi, dal momento che «voglionsi vincere di stracchezza e importunità» i principi, non gettando sospetti sugli altri ma in base alla propria «virtù e merito».
Il racconto della vita di Piero fa sorgere un quesito fondamentale: una condotta del genere è giustificabile, e in quali circostanze? E l’Alberti denunciatore dell’ipocrisia e della doppiezza, come si pone dinanzi al caso di un suo parente? Che le vicende del suddetto siano presentate come un exemplum negativo sembra da escludere a priori: chi le vive è infatti, in primo luogo, un membro della famiglia Alberti e, in quanto tale, non può essere portatore di istanze in tutto e per tutto riprovevoli; il suo modo di agire non è considerato alla stregua di quello degli altri cortigiani, o, quantomeno, vi è una sospensione del giudizio. Inoltre, il comportamento di Piero è stato dettato da necessità, a seguito delle difficoltà derivanti dall’esilio, e si insiste sul fatto che egli, pur trovandosi a vivere in un ambiente ostile e dissoluto, ha saputo conservare la sua dirittura morale, senza lasciarsi contaminare («coinquinare»). Tra le varie tipologie umane incarnate dagli interlocutori dei Libri della famiglia c’è posto anche per chi è dovuto venire a patti con le contingenze storiche. L’essercizio di simulazione e dissimulazione di Piero, del quale emergono più volte l’abilità e la prudenza, è da annoverare tra quelli forse non buoni in senso assoluto ma inevitabili, e per ciò stesso legittimi.
L’operazione di Alberti qui è finalizzata a fornire delle indicazioni utili a chi (lui stesso, tra gli altri) dovesse trovarsi nella stessa condizione del personaggio, sfruttando nel contempo l’opportunità offerta dal racconto dei casi di Piero per sollevare il velo di finzioni che avvolge le corti.
L’autore redige un vero e proprio prontuario del, se così si può dire, ‘cortigiano suo malgrado’, proponendo, con intenti precettistici, una casistica delle situazioni alle quali si può andare incontro e una classificazione dei ‘tipi’ di principe dai quali ci si può trovare a dover dipendere. A guardar bene, infatti, Gian Galeazzo, Ladislao e Giovanni XXIII presentano ciascuno delle peculiarità ben precise, alle quali deve corrispondere un atteggiamento, da parte dell’aspirante servitore, di volta in volta diverso. Se il primo dei tre ‘signori’ viene descritto in chiave abbastanza favorevole, ciò è già meno vero per il secondo, mentre nel caso del terzo il giudizio è addirittura impietoso, in una sorta di parabola discendente (per quanto inizialmente i tre suddetti principi siano definiti «ottimi, e in tutte le genti famosissimi»). Ma dal momento che non sempre è possibile scegliere il proprio padrone, sarà opportuno essere preparati a ogni evenienza, al fine di non lasciarsi travolgere dalle trame degli altri cortigiani o dai repentini voltafaccia dei principi stessi. L’abilità di Piero sta appunto nel sapersi comportare in modo adatto alle circostanze, dimostrandosi in grado, nel tentativo di ottenere il favore di costoro, sia di ideare una valida strategia di approccio, sia di cogliere le occasioni fortuite, sia infine di volgere a proprio vantaggio eventi avversi.
Istituendo un collegamento con quanto detto prima a proposito di Momo, potremmo osservare che proprio al dio del biasimo sarebbero riusciti utili gli ammaestramenti di Piero, specie per quanto riguarda le considerazioni sulla precarietà dello status di favorito del principe, ‘posizione sociale’ giudicata assai rischiosa in quanto soggetta alla volubilità del signore e alle invidie dei cortigiani. Si attagliano al caso di Momo, in particolare, la prescrizione di evitare qualsiasi boria, fuggendo un errore in cui sono soliti cadere i poco accorti – e tale si è dimostrato appunto Momo, vantandosi della protezione di Giove e finendo così per essere malvisto dagli altri dei – e la già citata descrizione della fulminea ascesa e rovina dei ‘pupilli’ del papa («Oggi questo potea el tutto; domani era costui da tutti escluso»), che ricorda da vicino il repentino tracollo che colpisce Momo durante l’assemblea divina.
I Libri della famiglia si concludono con il proposito di affrontare, il giorno successivo, proprio la questione del principe (p. 428): Lionardo prega Adovardo di istruire gli ascoltatori su come il principe, a sua volta, debba comportarsi per «ben farsi amare», e Adovardo gli risponde di essere in possesso di una non meglio precisata ‘ricetta’, semplice e piacevole, mediante cui i principi possono guadagnare e mantenere la benevolenza dei sudditi («Oh! felicissimo quel principe quale così vorrà acquistarsi benivolenza, e meno essere temuto che amato, quanto con una sola facile e piena di voluttà cosa possono tutti»). Ma questa frase sibillina è tutto ciò che ci è dato di sapere, in assenza di un libro quinto Della famiglia: manca ancora una volta una esposizione esplicita e programmatica del tema da parte di Alberti, e la figura del principe rimane ad aleggiare in silenzio sopra gli interlocutori che sgombrano la scena del dialogo.
In quest’ultimo paragrafo prenderemo in considerazione, senza pretesa di esaustività ma seguendo il filo conduttore delle vicende e delle affermazioni di alcuni personaggi chiave della produzione albertiana, altri passi ricollegabili alla dimensione del potere e della vita associata, con particolare riferimento al De iciarchia. Il dialogo sul ‘governo della casa’ è un’opera tarda, degli anni Sessanta, che per la tematica trattata si pone sulla stessa scia dei Libri della famiglia, con alcune differenze non trascurabili, come il diverso status di Battista, che qui non è più un giovane ammesso a partecipare alle dissertazioni dei suoi maggiori, ma è divenuto un anziano e autorevole capofila della famiglia Alberta.
Nelle pagine iniziali del De iciarchia viene svolta da Battista, al fine di ammonire i giovani ascoltatori che ingenuamente avevano espresso il desiderio di eccellere sugli altri, una sorta di requisitoria sulle insidie che si nascondono nella ‘professione’ del principe e sullo scarto tra essere e apparire che è connaturato alla sfera pubblica (un punto di contatto con il De infelicitate principum di Poggio Bracciolini, del 1440). Un governante, un magistrato, o chiunque voglia distinguersi nella vita ‘civile’, è, in primo luogo, costantemente sottoposto al giudizio (spesso fallace) e alla mutevolezza del volgo, per ottenere l’appoggio del quale
bisogna ostinata sollecitudine, rissosa importunità, servile summissione e confederazion d’ingegni fallaci, maligni, petulanti. Poi per mantenerlo continuo ti conviene agitare te stessi concitando in te sospetti, fingendo, simulando, dissimulando, sofferendo, temendo più e più cose indegne e gravi a chi voglia vivere con tranquillità e grato riposo (De iciarchia, cit., p. 189).
Inoltre, la via che conduce al principato è costellata di iniquità e di inganni, come pure il mantenimento dello stesso:
E’ principati e signorie delle città non raro se acquistano con insidie, fraude, confederazione, e impeto d’arme, e sono per sé pieni di sospetti, paure, odi, difficultà, pericoli, e stanno sempre esposti a prossima ruina, e reggonsi con violenza, rapine, simulazioni, dissimulazioni, crudelità (p. 269).
In termini non dissimili, e che ricordano i capitoli del Principe (1513-14) di Niccolò Machiavelli sui modi di ascendere al principato, si era espresso con più dovizia di particolari Momo:
[...] aveva osservato che erano aperte due vie al principato, brevi e niente affatto difficili: una, basata su lotte di parte e cospirazioni, si percorre a forza di saccheggi, vessazioni, distruzioni, abbattendo qualsiasi ostacolo si frapponga al proprio cammino; l’altra via al potere, invece, procede in linea retta da una preparazione ad alto livello, dall’osservanza dei buoni costumi e dall’ornamento delle virtù; [...]. Affermava però che il potere, una volta ottenuto o conquistato, è una cosa che senza dubbio logora chi ce l’ha. Cosa c’è nella vita, infatti, di più duro e faticoso di una posizione in cui, quando la si è raggiunta, bisogna trascurare i propri interessi e occuparsi di quelli degli altri, riservare da soli la propria attività e le proprie energie alla sicurezza della pace e della tranquillità di molti? [...] Se si considera con una certa attenzione ciò che va sotto il nome di potere ci si rende conto che si tratta di una sorta di pubblica schiavitù a faccende che è meglio evitare, decisamente intollerabile (Momo, cit., pp. 119-20).
La definizione dell’officium del principe, ossia la «necessità civile di conservare libertà e dignità alla patria e quiete a’ privati cittadini», viene formulata nel De iciarchia (p. 193) solo per evidenziare ancora di più le finzioni e l’avidità che regnano negli Stati.
Mentre nel resoconto di Piero non c’è spazio per l’esame della condotta propriamente politica dei principi, in questo scritto Alberti si riferisce a casi concreti: parlando delle riforme introdotte dal ‘senato’ in materia di esazione fiscale, si scaglia contro «lo estirpare pecunia delle borse private con l’autorità publica a’ suoi cittadini», attività primaria della classe dirigente e prassi che si ripete a ogni cambiamento istituzionale: «sia pur quel medesimo in questi qual fu ne’ prossimi dì sopra, ma per certo palliamento utile in que’ pochi forse che trattano le cose, si li muti el nome e chiamisi quando catasto, quando ventina, quando altro suo nome» (De iciarchia, cit., p. 262). Ciò vale anche per ogni tipo di innovazione (che qui equivale ad agitazione e perturbamento della respublica). L’intera ‘macchina’ statale viene smascherata nella sua rapacità e instabilità, in quanto l’esercizio del potere politico rientra tra «quelle cose qual concede e priva la fortuna, poste sotto la varietà de’ tempi, e mosse più da caso che da ragione» (p. 268), e non è per questo motivo degno di essere perseguito più dei vani onori, delle ricchezze e dei «fummi» e «sogni» che traggono origine dall’ambizione umana.
Sulla perniciosità dei ‘mutamenti’ Alberti si era espresso anche nelle Intercenales, e in particolare nel libro X, il ‘libro politico’: in Lacus sono descritti, tramite l’espediente letterario di una lotta tra rane e pesci, gli esiti catastrofici della «rottura della concordia ordinum» che «favorisce l’intervento di poteri esterni che instaurano un regime tirannico» (Intercenales, a cura di F. Bacchelli, L. D’Ascia, 2003, p. 653, comm. ad locum); nel Bubo (Il gufo) vengono messe a confronto (per bocca di varie specie di uccelli che simboleggiano i diversi ceti e gruppi sociali) le ragioni degli aristocratici e dei filopopolari; in Templum le pietre alla base del tempio, volendo primeggiare su quelle poste in alto, insorgono, «sedotte da uno sciocco desiderio di novità» (p. 647), determinando il crollo dell’intero edificio, ovverosia la rovina dell’impalcatura statale. Senza dubbio, quindi, Alberti è incline al conservatorismo, al mantenimento dell’assetto tradizionale proprio di ciascuna società, e si oppone sia alla demagogia populista sia alle visioni di quegli oligarchici che – nella loro «intransigente difesa della libertas oligarchico-repubblicana contro le rivendicazioni popolari e la parte medicea» (p. 611, comm. ad locum) – avevano finito con il favorire il dispotismo dei Medici.
Questa visione albertiana, resa meno diretta dal ricorso all’apologo allegorico, risente dell’instabilità della situazione fiorentina nel Quattrocento, sospesa tra la celebrazione della libertà cittadina e la ‘Signoria mascherata’ dei Medici; nel De iciarchia Battista afferma di essersi sempre sentito come uno straniero a Firenze e non risparmia critiche né al volgo né ai governanti; ciò non implica però che non riconosca il valore e l’importanza della libertà: al contrario, la denuncia delle false libertà promesse dai potenti o reclamate dal popolino serve a circoscrivere l’effettivo spazio d’azione del prudente capofamiglia («la difesa della libertà non è per niente in contraddizione con il rifiuto dell’uguaglianza»: Paoli 2007b, p. 535, nota 16). L’iciarco si propone infatti come un «moderatore» che regge sia la propria famiglia sia i rapporti con gli iciarchi delle altre grandi famiglie della città: come è stato notato, più che mostrare la tendenza del tardo Alberti al disimpegno e al ritiro nella dimensione familiare, il De iciarchia tratta dell’educazione del perfetto «uomo civile» che si distingue per virtù, nascita e stato (Boschetto 2000a, p. 175). Inoltre, dall’uso della cosiddetta metafora organica, ossia della corrispondenza analogica instaurata da Alberti tra famiglia e Stato, e tra casa e città, anche in opere come il De re aedificatoria, deriva l’assimilazione dell’iciarco al principe, e quindi il riconoscimento della rilevanza del ruolo del primo.
Ancora dal trattato di architettura citiamo, in conclusione, l’efficace descrizione che l’Alberti urbanista dà delle differenti dimore che si confanno a «chi governa i cittadini in modo santo e giusto, con il loro consenso, ed è animato non tanto dai propri vantaggi quanto dagli interessi e dal benessere dei suoi concittadini», e a chi, invece «governa i sudditi imponendo l’obbedienza con la forza», cioè il tiranno (L.B. Alberti, L’arte di costruire, a cura di V. Giontella, 2010, p. 160); si noti che nella descrizione della rocca, che «i cittadini [...] odiano da sempre» (p. 182), è stata riconosciuta una possibile allusione a Castel Sant’Angelo a Roma (Borsi 2003, p. 348), per cui il tiranno appollaiato nella sua fortezza-prigione sarebbe da identificarsi con il papa:
È bene che la dimora del re sia collocata al centro della città, abbia un accesso facile, sia sontuosamente decorata e sia elegante più che superba. La dimora del tiranno più che una casa sarà una cittadella fortificata, situata a metà tra l’interno e l’esterno della città. [...] È necessario che la residenza del tiranno sia distante dagli altri edifici per un largo raggio intorno. Un tipo di edificazione molto rispettabile, confacente e piacevole per questi due tipi di dimore sarà per la reggia quella di non essere troppo esposta, [...] e per la rocca quella di non essere troppo isolata sì da sembrare un carcere più che il soggiorno di un principesco signore (L’arte di costruire, cit., p. 166).
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