Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’interpretazione del profilo intellettuale dell’Alberti è particolarmente controversa. La sua opera è caratterizzata da un’estrema varietà d’interessi e registri, da un rispecchiamento costante della sua biografia e dei contesti storici che attraversa, e da una visione morale apertamente contraddittoria. Questa, infatti, passa, apparentemente senza soluzione di continuità, da un’esaltazione della “divina” virtù e dell’ingegno fabbrile dell’uomo a una visione del mondo e dell’uomo radicalmente pessimistica. Tra satira e trattatistica, l’Alberti costruisce un discorso e un pensiero che, proprio nella sua voluta mancanza di sistematicità, accede a un livello molto avanzato di penetrazione della propria realtà e della condizione umana, precorrendo gli esiti più illustri del pensiero morale moderno.
La vita
La vita di Leon Battista Alberti è tutta compresa nell’arco del XV secolo, in un periodo storicamente caratterizzato da un processo di assestamento territoriale degli Stati italiani che sfocia nella cosiddetta “politica dell’equilibrio” – con il consolidamento di pochi potentati regionali, intramezzati da diverse piccole signorie, ducati e principati –, nonché dalla tendenza a un accentramento di potere, in chiave oligarchica o autarchica, negli assetti interni.
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Figlio di Lorenzo degli Alberti, Leon Battista appartiene a una delle più illustri e potenti famiglie di mercanti dell’oligarchia fiorentina, ma con molteplici limiti: nasce non a Firenze ma a Genova, in uno dei momenti peggiori per la sua famiglia, poiché l’intera casata è stata bandita ed esiliata da Firenze a causa dell’orientamento “popolare” assunto in seguito al tumulto dei Ciompi; il secondo limite, forse ancora più grave, riguarda la sua “marginalità” in seno alla famiglia, legata alla nascita di figlio illegittimo, che gli procurerà una serie di problemi materiali causati dalla mancata acquisizione dell’eredità paterna, nonché di promozione sociale, dovuti all’emarginazione subita dalla famiglia; ha infine cattiva sorte, in quanto rimane molto presto orfano di entrambi i genitori e, ad aggravarne l’isolamento, dopo un’iniziale formazione giuridica s’inclina alle matematiche e agli studi umanistici, poco apprezzati nel suo contesto familiare. Alberti trascorre il periodo della sua formazione, almeno fino al 1432, tra Venezia, Padova e Bologna: a Padova frequenta la scuola del celebre umanista Gasparino Barzizza, a Bologna avvia, parallelamente agli studi giuridici, la sua produzione letteraria. Dal 1432 comincia a mutare il quadro della sua esistenza, che si divide tra i due poli di Roma e Firenze, ma con un intervallo tra il 1436 e il 1438 (trascorso nuovamente tra Padova, Bologna e Ferrara), in ragione di due fattori fondamentali: la revoca del bando fiorentino che gravava sulla sua famiglia e la sua entrata nell’orbita della curia pontificia, che lo avrebbe in seguito condotto all’acquisizione delle cariche di abbreviatore e scriptor apostolicus. A Firenze dapprima, tra il 1439 e il 1444, quindi a Roma, dove si stabilisce per gli anni a venire, nonostante i frequenti spostamenti, prendono corpo gli interessi artistici e architettonici di Leon Battista, che avranno in seguito concreta applicazione nella seconda parte della sua vita, dalla metà del secolo. In quest’ultimo periodo, Alberti, oltre a rafforzare il legame con Firenze, stringe rapporti con le più importanti corti principesche del centro-nord, Rimini, Urbino e Mantova.
La travagliata biografia e il contesto storico in cui si colloca Alberti sono fondamentali per comprenderne la produzione. Da un lato egli assorbe, nelle lunghe peregrinazioni, le diverse anime dell’umanesimo, conoscendo tutti i suoi più importanti esponenti, tra Bologna, Firenze e Roma (Filelfo, Panormita, Bruni, Bracciolini, Biondo, Valla ecc.); dall’altro la sua estrazione borghese e mercantile fiorentina, che lo induce ad accostarsi ai temi dell’umanesimo civile, rende problematico il suo rapporto con il generale consolidamento, nella compagine degli Stati italiani, dei regimi principeschi e autocratici, sia nel quadro della rinascente “monarchia” territoriale pontificia, sia nel contesto fiorentino, con l’egemonia medicea affermatasi proprio a partire dagli anni del suo “rientro”. Si può ben dire che Alberti sia sospeso tra una vocazione civile e cittadina e una condizione cortigiana necessitata dalla storia e dalle sue personali vicende.
L’opera dell’Alberti moralista
Alberti dà vita a una produzione vasta, stravagante, difforme: in latino e in volgare, dialogata e trattatistica, tecnica e speculativa, seria e giocosa, amorosa e misogina, occasionale e sistematica. Da un lato egli opera calchi testuali da autori antichi (Cicerone, Seneca, Aristotele, Senofonte, Luciano ecc.), riproducendone stilemi e contenuti, dall’altro, per il modo molto personale di operare tale riuso, o di mescidare e rovesciare il senso dei suoi prelievi testuali, e per l’insistenza su certi contenuti, preannuncia temi e toni della più importante letteratura moralistica moderna, da Erasmo a Bruno, da Rabelais a Montaigne, da Voltaire a Leopardi.
Nonostante sia difficile tracciare un’evoluzione diacronica coerente del suo pensiero e della sua produzione, in cui prevalgono, come vedremo, l’ambiguità e il gioco dialettico delle argomentazioni pro e contro, è comunque sempre forte la traccia in essi della sua biografia e del contesto storico-politico.
Probabilmente l’opera albertiana tra le più originali e travagliate nella composizione e nella fortuna è costituita dalle Intercoenales, la cui stesura ha inizio negli anni Venti per protrarsi fino agli anni Quaranta, e la cui diffusione è stata frammentaria e probabilmente sotterranea: si tratta di componimenti latini dal carattere conviviale e dalla forma oscillante tra la narrativa e il dialogo. Raccolte in 11 libri e dedicate a diversi amici dell’autore (ma nel loro insieme allo scienziato Paolo dal Pozzo Toscanelli), esse mettono in scena vizi e virtù, tipi umani e allegorie, incarnati ora da divinità, ora da personaggi storici o mitologici, ora da personificazioni o animali. Alternando i registri della favola, del dialogo morale, del paradosso, dell’apologo, Alberti dà vita a un’opera aperta da cui emerge una visione del mondo e dell’uomo profondamente pessimistica e improntata a scetticismo e amara ironia: la società è dominata, più che da virtù e razionalità, dal gioco delle maschere e delle apparenze, che talvolta si traduce in una visione onirica, allucinata e impietosa, della realtà.
Quasi un capovolgimento stilistico, di toni e contenuti, si riscontra invece nei celebri Libri della Famiglia, dialogo volgare in quattro libri composto tra il 1433 e il 1436. Qui è come se emergesse un Alberti “pubblico”, con un suo programma culturale di autopromozione da un lato e di codificazione linguistica e morale a uso ed edificazione della borghesia fiorentina dall’altro. Alberti, pur idealizzando in parte i personaggi dialoganti della sua famiglia, abbraccia un ampio orizzonte esistenziale della società cui si rivolge, con approccio al tempo stesso teorico e pragmatico. Affronta questioni che vanno dal matrimonio alla sessualità, dalla paternità alla pedagogia, dall’igiene alla gestione della “masserizia”, dall’arricchimento all’amicizia, dagli stili di vita alle relazioni politiche. Il tutto in un quadro teorico stoicheggiante in cui è recuperato il valore umanistico della virtù razionale e della vita attiva, atte a contrastare le avversità – in un quadro tuttavia laicizzante, in cui si afferma l’interdipendenza degli interessi individuali, familiari e sociali.
Di poco più tardo (intorno al 1440) è il Theogenius, dialogo in volgare in due libri, che tuttavia nuovamente ribalta l’orientamento della Famiglia, traendo a modello un “eroe” cinico-stoico, Genipatro, esaltato nel suo “ascetismo laico” dal protagonista narrante, Theogenius, che si ritira a sua volta dalla vita cittadina per il venir meno della “facile fortuna”, e “poiché la nostra republica e cittadini testé, o ingiuria della fortuna, o forza e merito de’ costumi pravi e corrotti, caderono in calamità e miseria”. Il rovesciamento della Famiglia è radicale: le avversità sono costanti e soverchianti, e l’animo umano può reggerle soltanto ritirandosi dalla vita attiva nella contemplazione della natura e nel dialogo letterario con i sapienti; gli affetti, perfino quelli paterni, non devono essere centrali nell’esistenza, per non averne troppo a soffrire; l’uomo è naturalmente malvagio, e la sua intelligenza è servita soltanto a renderlo peggiore delle bestie. Antisociale dunque, e misantropico, il dialogo si apre sulla quiete della villa, dove Theogenius, al riparo dalle tempeste politiche, compone ragionamenti sulle vicissitudini della Repubblica cittadina da cui si è allontanato, probabilmente rispecchiando nel personaggio un atteggiamento adottato dall’autore medesimo: nel contesto fiorentino dell’ascesa medicea alla signoria, Alberti vede un decadimento e una corruzione dettati dalla “seconda fortuna”, una negazione irreparabile di quella operosa partecipazione alla cosa pubblica che l’umanesimo civile aveva innalzato a modello morale e politico. Una percezione che deve essere stata confermata e inasprita soprattutto in occasione del Certame coronario, concorso poetico da lui organizzato a Firenze nel 1441 per promuovere la poesia volgare, il cui fallimento – il premio non fu assegnato dalla giuria di umanisti “latini” come Flavio Biondo e Poggio Bracciolini – è probabilmente da riferire a risvolti politici legati alle volontà di Cosimoil Vecchio.
Dopo l’intermezzo più equilibrato dei Profugiorum ab aerumna libri III, del 1442 circa, in cui si torna a ragionare, in termini di utilitas collettiva, dei modi per contrastare la fortuna, i ragionamenti pessimistici sulla Repubblica evocati da Theogenius-Alberti riemergono, assumendo una forma inattesa, un decennio più tardi, quando Alberti si trova a confrontarsi, nella posizione di curiale-cortigiano, con il progetto di renovatio in chiave cesaropapistica di Niccolò V. E sarà la forma latina di un vero monstrum letterario: il lungo romanzo mitologico allegorico intitolato Momus seu de Principe (1450 ca.). Momo è il dio lucianeo della critica, e assume qui i tratti distruttivi del buffone di corte, del Catilina, del Prometeo e addirittura dell’Anticristo apocalittico, per mettere a repentaglio l’ordine cosmico convincendo il “tiranno” Giove a distruggere il mondo per costruirne uno nuovo secondo i disegni dei migliori filosofi – progetto che, com’è ovvio, fallirà miseramente. Il romanzo è un’opera allegorica che, sulle orme di Luciano di Samosata, rispecchia un duplice livello di senso, cosmico e politico, offrendo una visione quanto mai desolata della condizione umana e del potere. La critica feroce alla renovatio di Niccolò V, con la stigmatizzazione dell’arbitrio principesco e della libido aedificandi del pontefice, è associata alla descrizione di un orizzonte naturale, caratterizzato in senso epicureo e lucreziano, deserto di ogni divinità, meraviglioso e inquietante nelle sue infinite forme e nei suoi infiniti mondi, ma spietato nella sua indifferenza verso l’uomo.
Al Momus si affianca, nello stesso torno di tempo, il De re aedificatoria , un altro monstrum, ma di genere trattatistico. L’opera, pur offrendo spunti consonanti con il romanzo coevo, ne costituisce il rovescio della medaglia, rappresentando il versante costruttivo e votato all’utilitas di Alberti. L’“edificazione” di una nuova società, pare affermare Leon Battista, muove non già dalle teorie filosofiche o dalle volontà di un tiranno, bensì dai suoi fondamenti materiali, da una conoscenza empirica dei bisogni e dell’animo umano, così come delle morfologie e delle leggi naturali.
A queste e altre opere segue e corre in parallelo una produzione varissima e altrettanto variegati interessi e attività, dalla pittura, teorizzata e praticata, alle “imprese” meccaniche, come quella di far riemergere un’antica nave romana dal fondo del lago di Nepi, oltre ovviamente alle imprese architettoniche che tutti conoscono e ancora ammirano.
Le “anime” di Alberti
Per meglio articolare la sua versatilità produttiva, possiamo annoverare un Alberti “costruttivo”, normativo e innovatore, che raccoglie saperi antichi e nuovi per ordinarli e arricchirli, per esempio con la grammatichetta volgare, con il De re aedificatoria , con il De pictura, il De statua, i Ludi mathematici, la Descriptio urbis ecc.; vi è poi l’Alberti economista e pedagogo, con i Libri della famiglia e il De iciarchia, nel senso letterale di diligente indagatore di quella pietra angolare della società che è la vita domestica e familiare, soglia e copula di ogni dimensione umana, ovvero di sociale e individuale, privato e pubblico, economico e politico, morale e intellettuale. Vi è l’Alberti moralista, con il De commodis, i Profugia e ilTheogenius, che s’interroga sulle scelte di vita e sui principi che le fondano, esercitandosi a moltiplicare i punti di vista sul mondo e sulla società. Vi è infine l’Alberti che irride ogni idealità, con il Momus e le Intercoenales, adottando il riso per la prima volta come reagente cognitivo, che, tracimando dai confini di genere, investe natura, società e cultura, in un illimitato spazio dissacrante di licenza intellettuale e stilistica in cui abbracciare e rappresentare la realtà tutta, in ogni suo livello.
Questa vastità di interessi, come si è detto, si traduce in un pensiero dal carattere fortemente asistematico e apparentemente contraddittorio. Ciò dipende, in una certa misura, dal metodo stesso di scrittura di Alberti, da lui descritto nei Profugia ab aerumna come la composizione di un “mosaico” intertestuale. La scrittura in Alberti è combinazione incessante di tessere testuali mediante una commistione di classico e medievale, in cui ogni frammento è risignificato dal contesto. Alberti opera perciò un riuso dei classici che non è più una raccolta ragionata di auctoritates per supportare un punto di vista determinato, bensì un caleidoscopio retorico vertiginoso, simile alle ruote del suo De cifriis (tra i primi sistemi crittografici della storia), in cui l’interpretazione diventa un grande gioco di rappresentazioni, quasi a incarnare la complessità del reale più che a decodificarla. Il senso delle cose sfugge sempre, e l’animo umano può essere indagato soltanto a partire dalla consapevolezza della parziale reversibilità di ogni giudizio di valore. Dietro questa accentuazione della dimensione retorica di ogni “discorso” umano s’indovina però un’esile ma articolata impalcatura teorica, sospesa tra i pilastri dottrinali dello stoicismo e dello scetticismo.
Esistono dei principi morali minimi che occorre far salvi, e che di fatto Alberti cerca di far salvi anche nella sua vita. Anzitutto la ricerca della felicitas, che ognuno tenta di raggiungere a partire dai propri mezzi e secondo le proprie attitudini, procedendo su piani distinti: il vivere in armonia con il corpo sociale – attraverso soprattutto l’amicizia e la buona reputazione, che si può estendere nell’eccellenza cui consegue la fama; lo sviluppo e l’esercizio di tutte le facoltà intellettuali e fisiche; e infine la “cinica” consapevolezza della relatività di ogni merito e di ogni conquista – attraverso la contemplazione della vanitas umana, intrecciata a un’empatia con il mondo naturale.
Il secondo perno morale è l’utilitas, entro la quale l’interesse individuale e quello collettivo non sono separabili. La virtù provvede all’utile essenzialmente in due modi: la prudente mediocritas, che tempera gli istinti e argina l’irrazionalità, segue l’imperativo di non nuocere agli altri, mentre la virtù “positiva” persegue le “buone opere” laiche – le arti, le professioni, la politica – che giovino il più ampio numero di persone, dalla famiglia alla repubblica.
Per Alberti l’unico punto fermo è perciò il valore sociale dell’agire umano, poiché l’ordine razionale delle virtù non implica nessun ancoraggio ontologico, nessuna intrinseca relazione tra merito e premio. Le stesse nozioni di “vita beata” e “bene operare” sono difformi a seconda dei soggetti e delle culture: la virtù non ha più il duplice volto petrarchesco, religioso e civile, poiché entrambe le giustificazioni del bene sono in fondo illusorie. Essa è soltanto uno strumento che coincide con la ragione, e la ragione vede che nel mondo ogni cosa è mutevole e relativa, con tutto ciò che ne consegue: ogni bene apparente si può rivelare un male, ogni ideale si può rivelare una chimera, ciò che ai più sembra dignitoso è in realtà indegno, ciò che si ritiene inutile diviene essenziale, la saggezza si tramuta in follia e la follia in saggezza.
Così nella sua opera Alberti moltiplica all’infinito gli exempla dello iato esistente tra realtà e apparenza e tra merito e premio: il ricco al centro della vita pubblica cade in rovina, l’esiliato privo di sostanze vive felice, il padre di famiglia benevolo e operoso è dimenticato e tradito appena morto, i ragionevoli consilia rivolti al principe sono ignorati, il diavolo tenta il santo con discorsi sensatissimi sul bene pubblico e sulla vita attiva, il condannato a morte per sovversione appare il più nobile difensore della libertà, si apre una falla nello scafo e i negletti stracci diventano salvifici, i conci schizzati dal fango si ribellano e fanno crollare i marmi specchianti che coronano l’edificio, dove si vedono montagne un tempo era il mare… Il mondo è dunque fatto di apparenze mutevoli e l’interiorità umana di illusioni e false rappresentazioni, l’unico bene certo risiede nella capacità di intravedere questa estrema mutevolezza e transitorietà di forme che sfumano verso il nulla della morte. A questo sguardo, che vede l’assenza di divinità e la follia delle maschere sociali, due sono le reazioni possibili: umana pietà per l’umanità piagata e vis activa per introdurre un principio d’ordine razionale nella vita e nella società.
Leon Battista Alberti
I libri della famiglia, Libro II
L’ingegno, lo ’ntelletto e giudicio, la memoria, l’apetito dell’animo, l’ira, la ragione e consiglio e l’altre divine forze e virtú, colle quali l’uomo vince la forza, volontà e ferocità d’ogni altro animale, certo non so quale stolto negasse esserci date per nolle molto adoperare. Né mi può non dispiacere la sentenza dello Epicuro filosofo, el quale riputa in Dio somma felicità el far nulla. Sia licito a Dio, quello che forse non è a’ mortali volendo, far nulla; ma io credo ogni altra cosa potere essere a Dio di sé stessi forse meno ingrata e agli uomini, dal vizio in fuori, piú licita che starsi indarno. Manco a me dispiace la sentenza d’Anassagora filosafo, el quale domandato per che cagione fusse da Dio procreato l’uomo, rispose: “Ci ha produtto per essere contemplatore del cielo, delle stelle, e del sole, e di tutte quelle sue maravigliose opere divine”. E puossi non poco persuadere questa opinione, poiché noi vediamo altro niuno animante non prono e inclinato pendere col capo al pasco e alla terra; solo l’uomo veggiamo ritto colla fronte e col viso elevato, quasi come da essa natura sia cosí fabricato solo a rimirare e riconoscere e’ luoghi e cose celeste. Dicevano gli Stoici l’uomo essere dalla natura constituito nel mondo speculatore e operatore delle cose. Crisippo giudicava ogni cosa essere nata per servire all’uomo, e l’uomo per conservare compagnia e amistà fra gli uomini. Dalla quale sentenza Protagora, quell’altro antico filosafo, fu, quanto ad alcuni suol parere, non alieno, el quale affirmava l’uomo essere modo e misura di tutte le cose. Platone scrivendo ad Archita tarentino dice gli uomini essere nati per cagione degli uomini, e parte di noi si debbe alla patria, parte a’ parenti, parte agli amici. Ma sarebbe lungo sequire in questa materia tutti e’ detti de’ filosafi antichi, e molto piú lungo sarebbe agiugnervi le molte sentenze de’ nostri passati teologi. Per ora questi m’occorsono a mente, a’ quali, come vedi, tutti piace nell’uomo non ozio e cessazione, ma operazione e azione. E confermeratti questa comune e vera sentenza, se coll’animo mirerai quanto vedi piú che negli altri animali l’uomo da essa infanzia per ogni corso della sua età sé sempre adoperare, tale che quegli e’ quali sono in tutto fuori d’ogni onesta e virile opera, questi pure in qualche modo faccendo qualche cosa sé stessi oziosi trastullano. E quanto chi mi lodasse piú l’ozio, chi non preponessi l’adoperare le membra, ingegno e ragione in qualche laude, costui appresso di me sarebbe in maggiore errore che s’egli stimasse vera quella opinione di quello afflitto padre per la morte della figliuola, el quale consolando sé stessi disse, poteva pensare e’ mortali essere nati per patire in vita pena de’ loro sceleratissimi flagizii e peccati! Pertanto troppo mi piace la sentenza d’Aristotile, el quale constituí l’uomo essere quasi come un mortale iddio felice, intendendo e faccendo con ragione e virtú.
Ma sopra tutte lodo quella verissima e probatissima sentenza di coloro, e’ quali dicono l’uomo essere creato per piacere a Dio, per riconoscere un primo e vero principio alle cose, ove si vegga tanta varietà, tanta dissimilitudine, bellezza e multitudine d’animali, di loro forme, stature, vestimenti e colori; per ancora lodare Iddio insieme con tutta l’universa natura, vedendo tante e sí differenziate e sí consonante armonie di voci, versi e canti in ciascuno animante concinni e soavi; per ancora ringraziare Iddio ricevendo e sentendo tanta utilità nelle cose produtte a’ bisogni umani contro la infermità a cacciarla, per la sanità a conservalla; per ancora temere e onorare Iddio udendo, vedendo, conoscendo el sole, le stelle, el corso de’ cieli, e’ tuoni e saette, le quali tutte cose non può non confessar l’uomo essere ordinate, fatte e dateci solo da esso Iddio. Aggiugni qui a queste quanto l’uomo abbia a rendere premio a Dio, a satisfarli con buone opere per e’ doni di tanta virtú quanta Egli diede all’anima dell’uomo sopra tutti gli altri terreni animanti grandissima e prestantissima. Fece la natura, cioè Iddio, l’uomo composto parte celesto e divino, parte sopra ogni mortale cosa formosissimo e nobilissimo; concessegli forma e membra acomodatissime a ogni movimento, e quanto basta a sentire e fuggire ciò che fusse nocivo e contrario; attribuígli discorso e giudicio a seguire e apprendere le cose necessarie e utili; diègli movimento e sentimento, cupidità e stimoli pe’ quali aperto sentisse e meglio seguisse le cose utile, fuggisse le incommode e dannose; donògli ingegno, docilità, memoria e ragione, cose divine e attissime ad investigare, distinguere e conoscere quale cosa sia da fuggire e qual da seguire per ben conservare sé stessi. E aggiunse a questi tanti e inestimabili doni Iddio ancora nell’animo e mente dell’uomo, moderazione e freno contro alle cupidità e contro a’ superchi appetiti con pudore, modestia e desiderio di laude. Statuí ancora Iddio negli animi umani un fermo vinculo a contenere la umana compagnia, iustizia, equità, liberalità e amore, colle quali l’uomo potesse apresso gli altri mortali meritare grazia e lode, e apresso el Procreatore suo pietà e clemenza. Fermovvi ancora Iddio ne’ petti virili a sostenere ogni fatica, ogni aversità, ogni impeto della fortuna, a conseguire cose difficillime, a vincere il dolore, a non temere la morte, fermezza, stabilità, constanza e forza, e spregio delle cose caduche, colle quali tutte virtú noi possiamo quanto dobbiamo onorare e servire a Dio con giustizia, pietà, moderanza, e con ogni altra perfetta e lodatissima operazione. Sia adunque persuaso che l’uomo nacque, non per atristirsi in ozio, ma per adoperarsi in cose magnifice e ample, colle quali e’ possa piacere e onorare Iddio in prima, e per avere in sé stessi come uso di perfetta virtú, cosí frutto di felicità
L.B. Alberti, I libri della famiglia, a cura di R. Romano, A. Tenenti, F. Furlan, Torino, Einaudi, 1994
Leon Battista Alberti
Le miserie e le difficoltà dell’uomo
Theogenius, Libro II
Non adunque dobbiamo maravigliarci, omicciuoli mortali e sopra tutti gli altri animali infermissimi, se mai quando che sia riceviamo qualche calamità, poiché noi vediamo le terre e provincie intere suggette ad ultimi estermini e ruine. E quale stolto non aperto conosce l’uomo, come dicea Omero, sopra tutti gli altri animanti in terra vivere debolissimo. Sentenza di Pindaro, poeta lirico, l’omo essere quasi umbra d’un sogno. Nacque l’uomo fra tanto numero d’animanti, quanto vediamo, solo per effundere lacrime, poiché subito uscito in vita a nulla prima se adatta che a piangere, sì come che instrutto dalla natura presentisca le miserie a quali venne in vita, o come gli dolga vedere che agli altri tutti animali sia dato dalla natura vario e utile vestire, lana, setole, spine, piuma, penne, squame, cuorio e lapidoso scorzo, e persino agli albori stieno sue veste duplicate l’una sopra all’altra contro el freddo e non disutile a diffendersi dal caldo, l’uomo solo stia languido giacendo nudo e in cosa niuna non disutile e grave a sé stessi. Agiugni che dal primo dì vedesi collegato in fascie e dedicato a perpetua servitù, in quale poi el cresce e vive. Non adunque iniuria, subito che nasce, piange la sua infelicità, né stracco di dolersi prima prende refrigerio a’ suoi mali, né prima ride se non quando se stessi contenne in tristezza interi almeno quaranta dì. Di poi cresce in più ferma età quasi continuo concertando contra alla debolezza, sempre in qual vuoi cosa desiderando e aspettando l’aito d’altrui. Nulla può senza precettore, senza disciplina, o al tutto sanza grandissima fatica, in quale sé stessi per tutta la sua età esserciti. In puerizia vive mesto sotto el pedagogo; e seguenli suoi giorni in gioventù solliciti e pieni di cure ad imparare leggi e instituiti della patria sua; e poi sotto la censura del vulgo in più età ferma posto soffre infiniti dispiaceri. E quando el ben sia compiuto e offirmato in sue forza e membra, e ornato d’ogni virtù e dottrina, non però ardisce non temere ogni minima bestiuola, e nato per imperare a tutti gli animanti conosce quasi a tutti gl’animali sua vita e salute essere sottoposta. Un verminuccio el molesta; ogni minima puntura l’uccide. Scriveno e’ poeti che a Orione, figliuolo di Iove, compagno di Diana, gloriandosi d’essere sopra degli altri fortissimo e potere uccidere qualunque fera a lui si opponesse, gli dii comossi dierono che un picciolo scorpione lo atterrò in morte. Affermano e’ medici una moscolina pasciuta d’un cadavere venenoso potere essere mortifera. E raccontano e’ fisici trovarsi uno animale chiamato salamandra quale solo salendo avenena tutti e’ pomi in su quello albero dove e’ salse, di veneno simile all’acconito, ed esserne già periti e’ populi. Potrei estendermi in quante erbe, in quanti frutti, in quanti animali, in quante cose la natura vi ponesse contro di noi veneno e morte, e quasi possiamo affermare nulla trovarsi fra e’ mortali in quale non sia forza di darci a morte. Un pelo beuto fra el latte strangolò Fabbio senatore. Uno acino d’uva strozzò Anacreonte filosofo. Ma che più? Non solo la essalazion, quale fumma d’alcune aperture della terra, come presso a Pozzuolo e presso a Suessa, uccide, ma e ancora el fummo della lucerna spenta anneca el parto e dàllo abortivo. E non solo queste cose materiali, ma e in qualunque vòi altra cosa troverai morte. L’agitazion dell’animo ci sta mortale.
L.B. Alberti, Opere Volgari, a cura di C. Grayson, Bari-Roma, Laterza, 1966
Leon Battista Alberti
Momus, o del Principe, Libro II
Eppure c’è chi va sostenendo che gli dèi hanno messo a disposizione degli uomini un mucchio di cose utili, piacevoli e belle: le messi, i frutti, l’oro, le pietre preziose e così via. Sarebbe bene allora considerare attentamente tra noi, a questo proposito, se non sia vero quel che si suol dire, che se uno asserisse che gli dèi hanno fatto quelle cose per darci delle illusioni, per deludere le nostre speranze e i nostri progetti, forse non avrebbe tutti i torti! Quanti sono infatti, e chi, che non desiderano cose del genere, secondo il volere divino, quanti quelli che riescono a ottenerle senza l’opposizione divina, quanti quelli che riescono a godersele dopo averle ottenute? Ma, ammesso che abbiano creato quelle cose nell’interesse degli uomini: di quali uomini, c’è da chiedersi, dei buoni o dei cattivi? Se mi si rispondesse che hanno pensato per i buoni, dovrei domandare allora perché quei beni non vengono assegnati ai buoni e tolti ai malvagi. Perché mai portano via ai più buoni quegli stessi beni che concedono ai peggiori criminali? Ma guarda! Hanno dato agli onesti il senso della giustizia, così questi si sforzano di procurarsi lo stretto necessario ingegnandosi in mezzo a veglie e fatiche, mentre hanno elargito a piene mani anche il superfluo agli ingiusti, agli sfacciati, perfino a chi disprezza gli dèi. Ma perché io dovrei dissuadere certa gente dal bestemmiare gli dèi, quando mi accorgo che essi hanno scaricato una tale quantità di mali sull’intero genere umano che, se qualche volta concedessero una pausa alla loro furia, avrebbero il desiderio di non averlo mai potuto fare? O stirpe dei mortali invisa agli dèi! Infatti, oltre alle cose insopportabili che abbiamo già visto, gli dèi ci hanno dato anche il dolore, la febbre, le malattie, gli angosciosi affanni interiori, le tempeste e i terribili tormenti del cuore e dell’anima! Poveri mortali sommersi dai travagli nella miseria più cupa! I celesti ci tormentano tanto, ci colmano tanto di mali che non si può mai essere senza disgrazie, e in tanta assiduità di situazioni dolorose c’è sempre un nuovo motivo per soffrire che si leva minaccioso su di noi, per cui all’uomo tocca vivere in perpetua afflizione, e nessuna ora di tutta la nostra vita può mai essere uguale alla precedente. Chi di voi, egregi signori, ha la sensazione che sia rimasto per lui un minimo di comodità, a parte quelle cose senza le quali non potremmo nemmeno esistere? Non c’è motivo di ritenere che la luce, l’acqua, il nutrimento eccetera siano stati creati a vantaggio nostro più che degli altri esseri viventi; l’uso della parola e un sistema di vita che ci permette di collegarci più strettamente l’un l’altro ce li siamo inventati da noi, sotto la spinta della necessità; e chi di voi non sa che tutti gli altri beni strappati a noi sono stati regalati a esseri privi di ragione? Quindi, una volta di più maltrattati, noi miseri mortali! Cosa abbiamo fatto per dover tirare avanti una vita infelice, sommersi da sventure e difficoltà, mentre ci è stato sottratto tutto quanto poteva tornare piacevole e comodo? Ma siano pure degni del cielo, quegli dèi, si godano giustamente i beni più grandi: noi uomini, nati per l’infelicità, non ci tireremo indietro di fronte al cumulo dei mali. Però, a chi di voi resta oscura l’idea che può farsi una persona qualunque dell’intera schiatta divina? Non è il caso di esporre quel che ne penso io, stabilirete voi su quali punti della questione si può concordare, giacché si dice che alcuni di noi sono saliti ad aumentare il numero degli dèi. Uno che si è tirato fuori dalla mandria degli uomini per essere cooptato tra i beatissimi padroni del mondo, dico io, non vorrà essere oggetto di onore e venerazione, ritenendosi degno di un rango, di una sede e di un’autorità simili? Nel caso che poi conoscesse perfettamente la strada per risalire tra i celesti, gli sarebbe più facile diventare qualunque altra cosa che un abitante del cielo. Le circostanze casuali, la necessità, ma soprattutto la disonestà e la stoltezza degli uomini hanno dato numerose occasioni ad alcuni dei sommi dèi di essere innalzati, anche senza volerlo, a una tale altezza da domandarsi stupiti come sia potuto accadere. Come sarebbe più facile aver rapporti con loro se si sapessero comportare da dèi secondo la loro dignità! Se un omiciattolo qualunque mostrasse di saper amministrare gli affari come si comporta di solito la maggioranza dei grandi dèi, verrebbe giustamente preso a legnate. Ma come si può pensare che siano dèi questi qua che mostrano tanta sonnacchiosa indifferenza di fronte ai problemi degli uomini? Oppure si giudicheranno degni del benché minimo culto religioso questi che, come si può vedere, rendono onore solo ai mostri? Mi aspetto già la risposta: che c’è di strano se essi, abituati a troppa libertà, fanno pazzie, e se, accorgendosi di potere tutto ciò che vogliono, vogliono tutto ciò che possono e, in definitiva, pensano che ciò che vogliono sia lecito? Sia dunque lecito agli dèi disprezzare le esigenze degli uomini, e rotolarsi in mezzo ai banchetti assieme a Ganimede, immergersi nel nettare e nell’ambrosia. Non sarà lecito anche a noi commuoverci di fronte a tanta infelicità? Non ci sarà lecito pensare che gli dèi di lassù o non hanno alcun pensiero degli uomini o, se ne hanno uno, è di odio? E a che serve chiedere con tante preghiere supplichevoli la clemenza di dèi che hanno altro a cui pensare, o che ci ricambiano col male? Facciamola finita con la stupidaggine d’infastidire con cerimonie inconcludenti esseri che, occupati solo a godere, odiano chi è solerte e operoso! Smettiamola con questa nostra inutile fissazione di guadagnarci benemerenze presso esseri che non esistono o che, se esistono, nella loro astiosa ostilità son sempre pronti a rovesciare mali sugli uomini sventurati!
L.B. Alberti, Momus, o del Principe, ediz. critica e traduzione di R. Consolo, Genova, Costa e Nolan, 1986