LENZI, Domenico, detto il Biadaiolo
"Domenicho Lenzi Biadaiuolo" si dice l'autore dello Specchioumano, un testo rilevante per la storia economica, letteraria e artistica della Firenze trecentesca. Incerta e carente la documentazione relativa a questo personaggio. Fineschi, il primo editore dell'opera, individua due presunti fratelli del L. in Piero e Giovanni di Lenzo, che, come poi i rispettivi figli - il biadaiolo Nicolò e Lorenzo, e Domenico e Filippo - furono più volte dei Priori fra Tre e Quattrocento.
Branca (1965, pp. 207 s.) indica documenti (limitati al 1359-63) relativi a un Lorenzo (Lenzo) di F[eder]igo Bencivenni, possibile padre del L., approdato ai primi del XIV secolo da Peretola, "popolo" di S. Biagio a Petriolo, piviere di Campi, a Firenze, nel quartiere di S. Maria Novella, popolo di S. Lucia d'Ognissanti. Pertanto il Domenico Lenzi immatricolato nel 1367 nell'arte dei linaioli doveva essere "o il nostro scrittore ormai vecchio, o più probabilmente suo nipote in giovane età", forse il ricordato Domenico di Giovanni, dimorante nel "gonfalone" del Liocorno, sposato nel 1391 con Dianora di Domenico Ardinghelli, morto nel 1402 e sepolto in S. Maria Novella.
Miglio ricorda l'immatricolazione del predetto Lenzo nell'arte dei pizzicagnoli e oliandoli per il 1354, sebbene manchino notizie "per quanto riguarda la specifica persona dell'autore del diario" (1975, pp. 1 s.). Nell'edizione del testo Pinto aggiunge riscontri fiscali sul padre, agiato commerciante di grani, proprietario di dimore cittadine e terreni nel contado di provenienza. Significativo appare nella famiglia il succedersi della professione, ristretta nella città a pochi individui, e notevole la menzione di un Domenico biadaiolo tra i fornitori del convento della Ss. Annunziata a partire dal 1321, in parallelo con l'avvio del registro da cui si ricava l'attenzione dell'autore per le vicende politiche, sociali e culturali di Firenze, fino alla data fatidica del 1348, quando la peste colpì anche il Lenzi.
Queste convinzioni sono state contrastate nel 1997 da Rossi, sulla base di dati paleografici che gli suggerivano di modificare il patronimico dell'autore in Benzi, rintracciando un Domenico Benzi, del popolo di S. Simone, quartiere S. Croce, in due atti del novembre 1332 relativi alla cessione di terreni da parte di Iacopo e Piero di Dante Alighieri. L'accostamento sembra gettare nuova luce sul fitto tessuto di rinvii danteschi presenti nell'opera, dove a più riprese è menzionata (senza però notizie esclusive) Figline Valdarno, località di provenienza dei Benzi, associati ai potenti Franzesi nei traffici internazionali alle fiere di Champagne. Così attesta un quadernuccio di contabilità di Renieri Benzi, che fra 1296 e 1305 annota le attività in Francia con i fratelli Schiatta e Baldo; il documento, fra quelli dei capitani della Compagnia d'Orsanmichele, sembra piuttosto fornire argomentazioni alla puntuale replica di Pinto (2002), che sottolinea per la famiglia Benzi l'origine aristocratica, il radicamento esterno alla città, l'assenza di una tradizione onomastica (fondamentale nei meccanismi di trasmissione dell'appartenenza familiare) che utilizzi il nome Domenico (ma non andrà sottovalutata la presenza di individui attivi anche nel piccolo commercio, come il Riccus o Riccius Benzij biadaiolus fra i camerlenghi della Compagnia d'Orsanmichele per il 1322, 1328, 1332; cfr. S. La Sorsa, La Compagnia d'Or San Michele, Trani 1902, pp. 138, 141, 144).
Pinto ha riconfermato a più livelli la lettura testuale "Lenzi", e la revisione dei dati documentari gli ha permesso di precisare un rapporto di parentela non immediato tra il L. e Lenzo rilevabile tra 1348 e 1365, smentendo che si possa "indicare intorno al 1305 […] la data di nascita di Domenico, che a partire dal 1320 avrebbe iniziato ad aiutare il padre nella sua attività" (1978, p. 14).
Difficile sostenere l'ideazione precoce per un'opera di grande complessità di impianto, da collocare tra quei generi memorialistici che, nel pieno di forti trasformazioni sociali e culturali, consentivano a tecnici e professionisti "illetterati", cioè privi delle competenze della cultura latina ("grosso e ydiota componitore" si definisce il L.), un utilizzo innovativo delle risorse dell'alfabetizzazione apprese alle scuole dell'abaco per la tenuta della contabilità, annotandone le circostanze. Lo specchioumano raccoglie i prezzi mensili dei grani e delle biade sul mercato fiorentino a partire dal giugno 1320 sino al novembre 1335, data dalla quale il manoscritto risulta mutilo. Il primo foglio trae "d'in su altri libri di biadaiuoli" poche notizie sui prezzi tra 1309 e 1319, e a essi si ispira la registrazione delle quattro categorie dei grani: "calvello, ciciliano, comunale, grosso", e delle biade: "miglio, panico, orzo, spelda, segale, fave, veccie, cicerchie, mochi, sa[gg]ina", accompagnate dalla pertinente aggettivazione: "bello e buono, buono, buonissimo, fine, comunale, milliore, netto", e così via, che delinea la varietà dei prodotti, condizionata dalle vicende meteorologiche, dalle situazioni belliche, dai fermenti sociali, che incidono sull'accaparramento e l'offerta. La monotonia del bollettino commerciale si anima nelle definizioni che avvertono di profondi mutamenti in atto, come quando compare un "grano guasto, intignato e molto fiatoso e duro" (p. 439).
L'emozione soggettiva invade notazioni commerciali e tabelle monetarie e affianca alle "ragioni di bottega" motivazioni di alta complessità che originano un testo decisamente unico. Il L. deriva dalla riflessione sui movimenti giornalieri della bottega uno schema interpretativo di lunga durata, dove le oscillazioni non riguardano solo l'alimento principale del vivere comune, ma la vita dell'intera città. "Bello, buonissimo, comunale", ma così anche l'infradiciarsi, il corrompersi, l'indurire esprimono, nell'evidenza materiale dei prodotti commestibili, le alterne fortune della società umana, che nella spietata instabilità dei valori monetari poteva leggere il senso profondo del proprio destino.
Negli anni 1329 e 1330, quando "fue grande caro di vittuaglia in Firenze e quasi in tutta Italia", si annuncia una crisi radicale che suggerisce una densa meditazione sulle responsabilità delle figure professionali e istituzionali. L'economia si fa storia e cronaca, e lo spazio sintetico delle note venali si dilata in modi narrativi che occupano un terzo del testo.
La convinzione di poter comunicare ai concittadini la profonda moralità di un grandioso exemplum spinse il L. a trasformare una riflessione privata in discorso pubblico con l'allestimento di una copia adeguata al rilievo di un messaggio universalistico e durevole. Mantenendo la corsiva minuscola dell'uso borghese e commerciale, in uno scrittoio prestigioso (secondo Miglio, 1975, p. 4, l'ambiente di Francesco di ser Nardo da Barberino) fu scelta in via eccezionale la pergamena per allestire un codice prezioso. Presente a metà del Seicento nella raccolta della famiglia fiorentina Tempi, ceduto nel 1839 alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, il Laur. Tempi, 3 è esposto correntemente al pubblico nella sala michelangiolesca della biblioteca.
Ciò corrisponde all'intenzione del committente, che aveva fatto inserire nel manoscritto nove miniature di un artista di scuola giottesca, fra Taddeo Gaddi e Iacopo del Casentino, attivo alla metà del XIV sec. su vari codici, ma ricordato come Maestro del Biadaiolo, forse sovrapponibile al Maestro delle Effigi domenicane. Le scene (sette a piena pagina) scandiscono con penetrante realismo i momenti salienti di un racconto che il L. indirizzava non solo a un pubblico di media borghesia, stimolato all'attenzione attraverso appelli diretti: "signori che leggete, dovete sapere" (p. 318), ma anche a gruppi non ancora pienamente alfabetizzati, facilitati ad avvicinarsi sulla traccia figurativa alla narrazione ("Ma perciò che talora aviene che chi sa cognoscere per sé con figura non sa forse leggere, […] nella presente pintura si dimostra", p. 323), che talora assume il tono del recitato di piazza: "Ma, o signori, correte allo presente Specchio intitolato umano, raccontatore di sì fatta impietà" (p. 319).
La destinazione pubblica potrebbe correlarsi al rifacimento dal 1337 della loggia, già fortemente danneggiata, dove si svolgevano i traffici del grano, costituendo anche un elemento orientativo per l'irrisolto problema della datazione del manoscritto e di conseguenza dell'opera diaristica. Al cadere degli anni Trenta del Trecento guardano quasi tutti gli studiosi delle miniature, mentre Miglio (1975, pp. 21-36) ha indicato gli anni 1344-47 in base alla supposta raffigurazione del campanile di Giotto per il nuovo duomo e a una successiva immagine priva della figura della Madonna di Bernardo Daddi, datata al 1347, sul nuovo monumentale edificio di Orsanmichele. Forse qui, dove s'incontravano attività commerciali e pietà religiosa, il libro avrebbe potuto dispiegare al meglio la sua funzione moralizzatrice in presenza non tanto di una nuova crisi alimentare come nel 1341, quando mutò anche la misura di capacità fondamentale nel commercio granario, lo staio (Pinto, 1978, pp. 14-16), ma piuttosto negli anni precedenti, che sembravano favorire, con la ripresa del benessere, quella superba cecità esuberante e spensierata, che il L. stigmatizza come maggiore colpa dei concittadini: "la schifalta che ll'uomo prende nel tempo della lucente abbondanza" (p. 159).
C. Bertelli (prefaz. a Lo specchio umano) ha chiarito come le immagini non siano mero ornamento, ma richiamino i dipinti d'uso pubblico, utilizzati in funzione ufficiale d'esaltazione o dannazione: equamente distribuite, due miniature all'inizio e due alla fine del manoscritto raffigurano ambiente cittadino e contado nell'abbondanza e nella devastazione della carestia; nella parte centrale sono evocati quattro episodi (un bifoglio è però perduto) di violenta contrapposizione tra le città toscane, dove Firenze spicca per sagacia amministrativa e compassione, anche verso i poveri scacciati da Siena, e nonostante il tradimento di Colle Valdelsa a favore di Pisa. Si manifesta così una ardita costruzione a intreccio, che anche sul piano della visibilità esplicita le situazioni umane sottomesse a un doppio processo, sul piano metafisico e su quello storico, che l'autore si incarica di rivelare attraverso l'umile operato a contatto con grani e registri nella bottega, attentamente rappresentata nella doppia immagine ad apertura del proemio (dove lui stesso è ritratto, come a c. 78v).
Le nove figurazioni sono parte di un vasto processo comunicativo di natura morale e recano sul retro testi poetici di vario sviluppo, ma carichi di elementi immaginativi e simbolici non sempre trasparenti, come altri nel testo, a volte semplici riempitivi. Rossi (pp. 44-47) ha restaurato in un unico sonetto le rime XXXI e XXXII delle 38 composizioni, per la gran parte delle quali (a cominciare da moduli proverbiali in forme brevi) il L. sarà stato semplice collettore. Tre sonetti sono ricavati dal Trattato delle trenta stoltizie di Domenico Cavalca (ma è incerta l'attribuzione delle poesie al domenicano), rivelatori delle letture del L., che utilizzava compilazioni morali di spuria ascendenza, la tradizione cavalleresca, ma specialmente il testo dantesco, in una fase in cui la città si faceva attenta al poema dell'exul immeritus. Branca ha indicato l'utilizzo di passi anche di non primissima evidenza, entro una diffusa "filigrana dantesca", che dimostra il radicarsi della Commedia nei ceti popolari; la competenza singolare del L. recupera anche passi iniziali del Convivio o della più rara Vita nova.
Ma ciò che in profondo colpisce il lettore, oltre il racconto della drammatica alluvione dell'Arno nel 1333, è il corpo centrale della narrazione, quelle 50 carte dedicate alle serrate vicende della carestia della fine degli anni Venti. La capacità straordinaria di raffigurare una città sprofondata in una bolgia drammatica si concentra negli episodi sulla piazza di Orsanmichele, nei quali le relazioni economiche, e pertanto l'ordinata organizzazione sociale, vengono sconvolte radicalmente e gli uomini dimentichi della divinità trovano, anziché nutrimento, violenza, ruberie, disordini, potentemente ritratti in scene concise ma di massima espressività, fondate su un "volgare materno" di alta originalità e che animano una commedia umana segnata dalla tragica disperazione del vivere quotidiano.
Il testo è stato parzialmente edito da V. Fineschi, Istoria compendiata di alcune antiche carestie e dovizie di grano occorse in Firenze, Firenze 1767, pp. 1-84; P. Fanfani, Narrazioni estratte dal diario di D. L. biadajolo aggiuntevi le poesie del medesimo L., Firenze 1864; G. Biagi, Una rappresentazione figurata di Colle Valdelsa nel Biadaiolo Tempiano Laurenziano, in Miscellanea stor. della Valdelsa, VII (1899), pp. 29-31; V. Branca, Un biadaiolo lettore di Dante nei primi decenni del '300, in Riv. di cultura classica e medioevale, VII (1965), pp. 210-215; L. Miglio, D. L. tra mercatura e poesia, in Modern Languages Notes, XCIII (1978), pp. 115-127; l'edizione critica è fornita da G. Pinto, Il libro del Biadaiolo. Carestie e annona a Firenze dalla metà del '200 al 1348, Firenze 1978, pp. 157 s. (da cui le citazioni); in compendio: Lo specchio umano, prefazione di C. Bertelli, Milano 1981, pp. 21 s.
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