BRANCACCIO, Lelio
Appartenente alla nobile famiglia napoletana ascritta al seggio di Nido, nacque a Napoli nel 1537. "Ab adolescentia piis operibus addictus", dice di lui, del tutto veritieramente, una lapide nella cattedrale napoletana: e in realtà il B. fu, sin da giovanissimo, uno dei più tipici personaggi prodotti dal rigido clima controriformistico imperversante a Napoli negli anni intorno alla metà del secolo, quando dalla cattedra arcivescovile gravava sulla città la fanatica tutela del cardinale Gian Pietro Carafa il futuro Paolo IV.
Alla formazione religiosa del giovane B. presiedette soprattutto, in questi medesimi anni, l'insegnamento del mistico senese Bonsignore Cacciaguerra, che lasciò largamente in Napoli, durante un non breve soggiorno, l'impronta della spiritualità controriformistica espressa dal circolo di S. Filippo Neri, al quale egli stesso apparteneva. Il suo Trattato della tribolazione costituì una vera pietra miliare nella formazione religiosa del giovane B., proponendogli particolarmente i temi della spiritualità popolare e della riforma del clero secolare e regolare, motivi costanti, poi, della sua attività pastorale.
Il 28 dic. del 1559 il B. entrò nella Compagnia dei bianchi, la congregazione religiosa nella quale la controriforma napoletana raccolse alcuni dei suoi più rappresentativi ed intransigenti esponenti. Pare che, appunto seguendo gli insegnamenti del Cacciaguerra, le intenzioni riformatrici del B. si rivolgessero, durante questa sua milizia tra i Bianchi, in modo particolare ai monasteri femminili della città, i quali invero non davano esempi troppo edificanti di austerità.
Egli stesso ricordava poi come, sin dal "tempo che era arcivescovo di Napoli la beata memoria di Paolo IV" si fosse fatto promotore di una riforma del monastero dei SS. Marcellino e Festo, preoccupato della "libertà e poca religione" delle monache, tra le quali egli stesso contava "due sore carnali, e due consobrine carnali, et altre parenti". Una sua proposta, di sottoporre il monastero alla sorveglianza dei nobili del seggio di Nido, fu favorevolmente accolta dal cardinale arcivescovo, ed egli stesso fu delegato dal seggio a sovrintendere alla riforma; questa fallì però di fronte alla energica resistenza delle religiose, "quali erano armate alcune di pietre, ed alcune d'arme in asta" e "averiano deliberato di farsi uccidere più presto tutte, che comportare detto governo". "E così - concludeva sconsolatamente il B. in una sua lettera del marzo 1563 - frapoco tempo per non aver chi li resistesse alle loro perfidie, ritornarono al loro vivere licenzioso e stanno così al presente" (Strazzullo, p. 438). Con miglior fortuna il B. reiterò i suoi propositi riformatori quando l'arcidiocesi napoletana fu affidata ad Alfonso Carafa, al quale fece efficacemente appello perché "con il braccio suo, mo' che sta in Napoli, ci avesse posto assetto ed ordine" (ibid.).
Del giovane pronipote di Paolo IV, del resto, egli fu tra i collaboratori più assidui ed ascoltati, un vero protagonista della breve ma intensa esperienza riformatrice condotta a Napoli dal giovane cardinale Carafa. In particolare il B. fu tra i principali promotori e organizzatori del sinodo del febbraio 1565, che costituì un momento culminante della controriforma napoletana.
Dopo la morte prematura di Alfonso, il B. continuò a prestare la sua opera zelante presso il nuovo arcivescovo Mario Carafa, finché, probabilmente per sollecitazione del cardinale Antonio Carafa, il 29 giugno 1571 papa Pio V lo elesse vescovo di Sorrento. Qui l'esperienza pastorale del B. fu breve e largamente impopolare. Le sue drastiche intenzioni riformatrici della disciplina dei religiosi e della popolazione, autoritariamente proclamate nel sinodo diocesano tenuto nel 1572, dovevano infatti suscitare le più vaste reazioni di malcontento, sia nel clero sia nella popolazione civile, abituati alla più tollerante, o più debole, amministrazione del predecessore, Giulio Pavesi.
Il 21 sett. 1573 il capitolo del duomo sorrentino e tutto il clero della città levavano alte proteste al cardinale Antonio Carafa contro il B., il quale "da che venne... non par c'habbia atteso mai ad altro, che angariar, villaneggiar, ingiuriar, dishonorar, con brutti e horribili cartoni in civili e lievissime cause scomunicar, imponer pene sopra pene, carcerar, et insomma tormentar ne la robba e nella vita, nell'honor e nell'anima": sicché gli stessi capitolo e clero "e questa povera e dal Turco poco fa saccheggiata città" facevano appello al papa ed allo stesso cardinal Carafa perché "per le viscere di Nostro Signore" si inducessero "ad aiutar la miserabile causa nostra"(Bibl. Apost. Vat., Barb. lat., f. 151); e la richiesta era ripetuta negli stessi termini, il 23 settembre dai "sindici et eletti della Città" (ibid., f. 153). Un intervento pacificatore di Antonio Carafa non ebbe successo, perché, scrivevano ancora gli amministratori civili sorrentini, il 22 ottobre dello stesso anno, "da la volontà di monsignor nostro semo assicurati che non è per mutarsi già mai dal suo primo et ostinato volere, col quale ogni giorni di più camina" e ribadivano la preghiera che il Carafa volesse "pigliar la protettione di questa così afflitta città" (ibid., f. 182).Identici sentimenti esprimevano ancora, nello stesso giorno, anche il capitolo e il clero.
Finalmente la Curia fu costretta a tener conto delle proteste e il 5 luglio 1574 il B. fu trasferito alla sede episcopale di Taranto, con la riserva, tuttavia, di una pensione di 600 ducati annui sui proventi di quella mensa vescovile, a vantaggio del vescovo di Giovinazzo G. Antolinez. Neppure a Taranto, tuttavia, il B. riuscì a stabilire, nella sua fanatica rigidità, un qualche modus vivendi con il clero e la popolazione, tanto più decisi a resistere alle sue velleità riformatrici perché i predecessori del B. avevano scarsamente assolto all'obbligo della residenza e quindi tanto maggiore doveva essere l'insofferenza per le drastiche iniziative del nuovo vescovo. Questa volta fu il B. a ricorrere a Gregorio XIII perché la Curia stessa intervenisse a garantirgli l'esercizio delle sue incombenze pastorali. Ma naturalmente la sua popolarità non doveva guadagnarne.
Vero è che nel dedicare al B. una sua opera il letterato tarantino Giovanni Giovane lo esaltava come un padre per la popolazione della città pugliese, ma al giudizio non doveva essere estraneo il fatto che lo stesso laudatore era stato tra i familiari del B. e per la sua protezione aveva potuto compiere gli studi a Napoli. A Taranto comunque il B. lasciò alcune tracce di buon amministratore, come la protezione del seminario e vari lavori di restauro e di abbellimento della cattedrale.
Morì a Napoli nel 1599.
Fonti eBibl.: Bibl. Apost. Vat., Barb. lat. 5735, ff. 151, 153, 182, 184; J. Juvenis De antiquitate et varia fortuna Tarentinorum libri octo, Neapoli 1589 (dedica al B.); Ph. Anastasius, Lucubrationes in Surrentinorum ecclesiasticas civilesque antiquitates, I, Romae 1731, p. 510; G. Maldacea, Storia di Sorrento, II, Napoli 1843, pp. 191 s.; B. Capasso, Memorie storiche della chiesa sorrentina, Napoli 1854, pp. 90 s.; F. Strazzullo, Il monastero e la chiesa dei SS. Marcellino e Festo, in Arch. stor. per le prov. napoletane, XXXV(1955), pp. 436 ss.; R. De Maio, Alfonso Carafa cardinale di Napoli, Città del Vaticano 1961, pp. 137, 164, 166 s., 184, 201, 321.