Legittima la nuova acquisizione sanante
L’istituto dell’acquisizione sanante come disciplinato dall’art. 42 bis d.P.R. 8.6.2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) è stato giudicato costituzionalmente legittimo dalla Corte Costituzionale e conforme alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, risultando superate, nella disposizione legislativa, le criticità che avevano condotto alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 43 del medesimo Testo Unico.
L’istituto dell’acquisizione sanante delineato dall’art. 42 bis d.P.R. 8.6.2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, d’ora in poi T.U. Espropriazioni) costituisce una espropriazione semplificata, espressione di una funzione amministrativa meritevole di tutela e non già di un potere meramente rimediale di un illecito che, per ci solo, necessita del ristoro integrale a titolo risarcitorio.
È quanto affermato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 71 del 30.4.2015, che ha dichiarato l’infondatezza della questione di illegittimità costituzionale della disposizione innanzi richiamata» per asserita violazione degli artt. 3, 24, 97 e 113, 42, 11, primo e secondo comma, e 117, primo comma della Costituzione» avente ad oggetto la disciplina l’utilizzazione senza titolo, da parte della P.A. di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, prevedendo che l’autorità che utilizza il bene possa disporne l’acquisizione, non retroattiva, al proprio patrimonio indisponibile, contro la corresponsione di un indennizzo patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene, oltre che di un ulteriore somma a titolo risarcitorio, per l’eventuale periodo di occupazione senza titolo, da computarsi nella misura di un interesse del 5 per cento annuo sul valore venale, salva la prova del maggior danno.
La Corte ha osservato che il nuovo istituto, introdotto dall’art. 34, co. 1, d.l. 6.7.2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nell’art. 1, co. 1, l. 15.7.2011, n. 111 non è assimilabile con quello gi‧ disciplinato dall’art. 43 T.U. Espropriazioni, dichiarato illegittimo con sentenza 8.10.2010, n. 293, presentando, rispetto a questo, delle significative differenze.
In particolare, la nuova disposizione, facendosi carico di superare le incertezze giurisprudenziali che si erano manifestate in sede di applicazione dell’art. 43 e di comporre le antinomie della disciplina evidenziate dalla dottrina e, soprattutto, censurate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (d’ora in poi CEDU) ha previsto: a) la irretroattività dell’acquisto della proprietà del bene da parte della pubblica amministrazione, verificandosi solo al momento dell’emanazione dell’atto di acquisizione, con salvezza dell’eventuale giudicato formatosi sulla sentenza di condanna della Pubblica Amministrazione alla restituzione del bene al privato; b) l’aggravamento dell’obbligo motivazionale in capo alla P.A. procedente, chiamata a specificare le circostanze che hanno determinato l’indebita utilizzazione dell’area e, ove possibile, la data dalla quale essa ha avuto inizio, con l’indicazione delle “attuali ed eccezionali” ragioni di interesse pubblico che giustificano l’emanazione dell’atto, da valutarsi comparativamente con i contrapposti interessi privati e l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; c) un adeguato ristoro patrimoniale del proprietario dell’area oggetto dell’acquisizione sanante, in quanto nel computo dell’indennizzo va ricompreso non solo il danno patrimoniale, ma anche quello non patrimoniale, forfettariamente liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene; d) la condizione sospensiva del pagamento del prezzo rispetto all’effetto traslativo della proprietà, pagamento da effettuarsi entro 30 giorni dal provvedimento di acquisizione.
Inoltre - ha rimarcato la Consulta a conforto dello scrutinio di piena legittimità dell’istituto - non è stata pi riproposta la cosiddetta “acquisizione in via giudiziaria”, precedentemente prevista dell’art. 43, co. 3, in virtù della quale l’acquisizione del bene in favore della pubblica amministrazione poteva realizzarsi anche per effetto dell’intervento di una pronuncia del giudice amministrativo, diretta a paralizzare l’azione restitutoria proposta dal privato.
Significativa e non secondaria nell’economia complessiva del nuovo istituto, infine, è stata ritenuta dalla Consulta la previsione (assente nel precedente art. 43) in base alla quale l’autorità che emana il provvedimento di acquisizione ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei Conti1 mediante trasmissione di copia integrale2.
L’occupazione illegittima di un bene privato da parte della Pubblica Amministrazione può scaturire da un comportamento connesso all’esercizio illegittimo di poteri pubblici ovvero da un’attività di mero fatto. Possono prospettarsi, in particolare, le seguenti situazioni3: a) il protrarsi dell’occupazione strumentale e d’urgenza oltre i termini, senza che intervenga il decreto di esproprio; b) l’adozione di una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera non seguita dal decreto di esproprio; c) l’emanazione del decreto di esproprio oltre i termini; d) l’annullamento in via di autotutela o in sede giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità o del decreto di esproprio; e) l’occupazione mera del bene, senza alcun atto formale che manifesti l’interesse pubblico alla realizzazione di un’opera4. In tutte queste ipotesi si profila il problema di individuare quali siano gli strumenti di tutela azionabili dal privato, cui è stata sottratta la materiale disponibilità della res, nei confronti della Pubblica Amministrazione. In passato - prima dell’intervento del legislatore che aveva disciplinato unitariamente le ipotesi appena enunciate con l’art. 43 del T.U. Espropriazione, norma - come si è visto - dichiarata illegittima dalla Consulta - la Corte di Cassazione aveva elaborato l’istituto della “occupazione appropriativa” o “accessione invertita”: nel caso in cui la P.A. (o un suo concessionario) avesse occupato un fondo di proprietà privata per la costruzione di un’opera pubblica e tale occupazione fosse divenuta illegittima, per difetto di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l’occupazione avrebbe potuto configurarsi legittima, la radicale trasformazione del fondo, con l’irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell’opera pubblica, comportava l’estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all’ente costruttore. Tale fatto, da qualificarsi come illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti), abilitava il privato a chiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della irreversibile trasformazione del fondo, la condanna dell’ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, oltre la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, trattandosi di un debito di valore. Conseguentemente, un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, doveva considerarsi del tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell’assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito5.
La successiva evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte giunse ad enucleare la figura autonoma della “occupazione usurpativa”, caratterizzata dalla radicale mancanza di un titolo pubblicistico legittimante. L’ipotesi ricorreva, secondo i giudici di legittimità, quando fosse mancante del tutto o fosse venuta successivamente meno, per annullamento o per scadenza dei termini, la dichiarazione di pubblica utilità; in tal caso, pur se il fondo fosse stato radicalmente trasformato e la proprietà svuotata di contenuto, non si realizzava il fenomeno dell’occupazione appropriativa, ma un illecito permanente, generatore di danno, per la liquidazione del quale ‣ ove il privato, optando per la tutela risarcitoria, avesse rinunciato implicitamente al diritto dominicale ‣ era inapplicabile l’art. 5 bis, co. 7-bis,
d.l. 11.7.1992, n. 333, conv., con modificazioni, nella l. 8.8.1992, n. 359 (disposizione che, all’epoca, regolava il computo della indennità di esproprio e dichiarata incostituzionale dalla Consulta con sentenza C. Cost., 24.10.2007, n. 348), essendo indubbio che il riferimento legislativo alle «occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità» ivi contenuto, era espressivo di un collegamento teleologico con le finalità perseguite a mezzo della procedura espropriativa, cosicché, nel caso dell’“occupazione usurpativa”, non sussistevano le ragioni, evidenziate dalla giurisprudenza costituzionale6 per derogare alla regola generale di integralità della riparazione ed equivalenza del pregiudizio cagionato al danneggiato7.
nonostante l’atteggiamento critico della dottrina8 e i contrasti emersi in seno alla stessa Corte di Cassazione in merito alla durata della prescrizione (quinquennale, nel caso di diritto risarcitorio; decennale, nel caso di diritto indennitario) o al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, risolti di volta in volta da interventi delle Sezioni Unite9, l’istituto pretorio innanzi delineato divenne regola giurisprudenziale consolidata, dai contorni sempre pi definiti, avallata anche dalla Corte Costituzionale che ne riconobbe la legittimità, perché l’accessione invertita realizzava «un modo di acquisto della proprietà, previsto dall’ordinamento sul versante pubblicistico», giustificato dalla prevalenza dell’interesse pubblico alla conservazione dell’opera su quello del privato alla riparazione del pregiudizio sofferto, «la cui correttezza costituzionale rispetto agli artt. 3 e 42 Cost., si manifesta come espressione della funzione sociale della proprietà»10.
Il quadro normativo italiano, scaturente dal diritto vivente appena illustrato, fu, per , a pi riprese giudicato dalla CEDU non conforme alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e, segnatamente, al suo primo protocollo addizionale11. In particolare, la Corte di Strasburgo denunci il contrasto dell’istituto giurisprudenziale in parola con il principio di legalità, consacrato nell’art. 1 del Primo Protocollo della Convenzione, poiché esso si presentava come una modalità alternativa rispetto all’espropriazione formale, una mera opzione affidata alla discrezionalità della P.A., che poteva decidere di adottarla senza incorrere in sanzioni e, ancor pi , tenuto conto della circostanza che esso aveva la funzione di ratificare una situazione di fatto conseguente ad un illecito del quale attribuiva le conseguenze favorevoli all’autore dell’illecito stesso12. Inoltre, osservava la Corte europea, a fronte di indirizzi oscillanti e contraddittori della giurisprudenza interna (e successivamente anche degli interventi frammentari del legislatore) risultavano innegabilmente frustrati i caratteri di legalità e di certezza che dovrebbero caratterizzare, nel «bilanciamento tra le esigenze della collettività e la salvaguardia dei diritti fondamentali»del privato, l’ordinamento giuridico il quale deve offrire la garanzia di essere «sufficientemente accessibile, preciso e prevedibile»13.
2.1 La “breve vita” dell’art. 43 T.U. Espropriazioni
Allo scopo soprattutto di superare i rilievi della CEDU, con l’adozione del T.U. Espropriazioni fu prevista, mediante l’introduzione dell’art. 43, rubricato Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico, una disciplina comune delle figure dell’occupazione acquisitiva e di quella usurpativa.
La ratio della previsione legislativa era nel senso di far assumere a entrambe le figure di occupazione illegittima carattere residuale, in virtù dell’abrogazione dell’istituto della dichiarazione di indifferibilità ed urgenza e dell’eliminazione dell’occupazione d’urgenza (reintrodotta quasi subito con l’art. 22 bis, a seguito degli interventi di modifica ed integrazione al t.u. di cui al d.lgs. 27.12.2002, n. 302), preludio, frequentemente, all’occupazione appropriativa. Per il futuro, la P.A. avrebbe dovuto dare inizio ai lavori solo in attuazione del decreto di esproprio su aree di cui era già divenuta legittima proprietaria14.
Alla stregua della nuova disciplina, alla P.A. spettava il potere, nel caso di occupazione divenuta sine titulo, di sanare la situazione mediante l’emanazione di un provvedimento di acquisizione del bene, utilizzato per fini di interesse pubblico e modificato in assenza di un valido ed efficace decreto di esproprio o dichiarativo della p.u., sempre che fosse venuta in essere la irreversibile trasformazione del fondo. Al privato veniva preclusa, in questo modo, la possibilità di chiedere la restituzione del bene, potendo egli solo richiedere il risarcimento del danno, salva la possibilità di impugnare in sede giurisdizionale il provvedimento di acquisizione15.
All’amministrazione veniva poi attribuita la facoltà di paralizzare un’eventuale pretesa restitutoria del proprietario, «nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda», mediante la richiesta al giudice amministrativo, della (propria) condanna a risarcire il danno, «con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo» (art. 43, co. 3).
Con tre ordinanze di eguale contenuto del TAR Campania del 2008, rispettivamente due del 28.10.2008 e una del 18.11.2008, la disciplina dell’art. 43 fu sottoposta al vaglio di costituzionalità sotto diversi profili:
a) in relazione agli artt. 3, 24, 42, 97 e 113 Cost., in quanto l’esercizio del potere autoritativo di acquisizione sanante previsto dalla norma citata avrebbe assunto nella prassi amministrativa la natura di strumento ordinario attraverso il quale “si legalizza l’illegale”;
b) in relazione all’art. 117, co. 1, Cost., per contrasto con i principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ai sensi dell’art. 1, Protocollo n. 1, CEDU di ogni ipotesi di “espropriazione indiretta”, nella quale l’amministrazione divenga proprietaria di un bene privato in assenza di un “giusto” procedimento che conduca all’emanazione di un atto ablatorio;
c) in relazione all’art. 76 Cost., nella misura in cui l’art. 7, co. 2, lett. d), della l. 8.3.1999, n. 50, avrebbe delegato al governo il mero coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, con le sole modifiche necessarie ad una coerenza logica e sistematica della pregressa normativa, senza quindi la possibilità di introdurre un istituto quale l’acquisizione sanante che preveda una disciplina del tutto nuova ed originale rispetto alla situazione legislativa preesistente16.
La Corte dichiarò l’illegittimità dell’art. 43 sotto l’ultimo profilo, ossia per il vizio di eccesso di delega, ritenendo assorbite le ulteriori questioni prospettate17.
2.2 Il nuovo tentativo del legislatore: l’art. 42 bis
Al fine di colmare il vuoto legislativo determinatosi, il legislatore reintrodusse, mediante la previsione dell’art. 42 bis del T.U. Espropriazioni, la possibilità, per l’amministrazione che utilizza senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato), attraverso un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile. Tale atto - secondo l’avviso espresso dalla Consulta nella sentenza n. 71/2015 - sostituisce il regolare procedimento ablativo prefigurato dal T.U. sulle espropriazioni, e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in s sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell’intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma.
La Corte Costituzionale, in particolare, ha cos individuato gli aspetti salienti del nuovo istituto, che lo rendono diverso da quello regolato dal precedente art. 43:
• l’acquisto della proprietà del bene da parte della pubblica amministrazione avviene «ex nunc, solo al momento dell’emanazione dell’atto di acquisizione (ci che impedisce l’utilizzo dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia gi‧ disposto la restituzione del bene al privato)»;
• la previsione di uno specifico obbligo motivazionale “rafforzato” in capo alla pubblica amministrazione procedente, la quale deve indicare le circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio;
• la motivazione, in particolare, deve esibire le «attuali ed eccezionali» ragioni di interesse pubblico che giustificano l’emanazione dell’atto, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati, e deve, altresì, evidenziare l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione;
• nel computo dell’indennizzo viene fatto rientrare non solo il danno patrimoniale, ma anche quello non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene, il che costituisce sicuramente un ristoro supplementare rispetto alla somma che sarebbe spettata nella vigenza della precedente disciplina;
• il passaggio del diritto di proprietà è sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute, da effettuare entro 30 giorni dal provvedimento di acquisizione;
• la nuova disciplina si applica non solo quando manchi del tutto l’atto espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato - o impugnato a tal fine, nel qual caso occorre il previo ritiro in autotutela da parte della medesima pubblica amministrazione - l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, oppure la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera oppure, ancora, il decreto di esproprio;
• non è stata pi riproposta la cosiddetta acquisizione in via giudiziaria, precedentemente prevista dell’art. 43, co. 3, ed in virtù della quale l’acquisizione del bene in favore della pubblica amministrazione poteva realizzarsi anche per effetto dell’intervento di una pronuncia del giudice amministrativo, volta a paralizzare l’azione restitutoria proposta dal privato;
• non secondaria, nell’economia complessiva del nuovo istituto, è infine la previsione (non presente nel precedente art. 43) in base alla quale l’autorità che emana il provvedimento di acquisizione ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.
2.3 Infondata la questione di costituzionalità
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata con quattro distinte ordinanze di analogo tenore pronunciate in altrettanti giudizi dalla Corte di Cassazione18, sezioni unite civili, e dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 111, co. 1 e 2, 113 e 117, co. 1, Cost.
Tutti profili denunciati sono stati ritenuti infondati dalla Corte. In primo luogo, il contrasto con l’art. 3 Cost. denunciato sotto il duplice versante della violazione del principio di eguaglianza - con profili involgenti anche la violazione dell’art. 24 Cost., sub specie di compressione del diritto di difesa - e dell’intrinseca irragionevolezza della norma impugnata, è stato negato Consulta, la quale si è richiamata al proprio costante orientamento secondo il quale «la violazione del principio di eguaglianza sussiste solo qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, ma non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenza n. 155 del 2014; ordinanze n. 41 del 2009 e n. 109 del 2004), sempre con il limite generale dei principi di proporzionalità e ragionevolezza (sentenza n. 85 del 2013)».
Ha ritenuto, in particolare, la Corte che «l’adozione dell’atto acquisitivo, con effetti non retroattivi, è certamente espressione di un potere attribuito appositamente dalla norma impugnata alla stessa pubblica amministrazione. Con l’adozione di tale atto, quest’ultima riprende a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino». Ci in quanto «la P.A. ha una posizione di preminenza in base alla Costituzione non in quanto soggetto, ma in quanto esercita potestà specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro proprie. In altre parole, è protetto non il soggetto, ma la funzione, ed è alle singole manifestazioni della P.A. che è assicurata efficacia per il raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati (cos la sentenza n. 138 del 1981)».
Del pari, non sussiste - ad avviso della Corte - la violazione dell’art. 24 Cost. la quale ricorre «solo nei casi di “sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione” (sentenza n. 237 del 2007) o di imposizione di oneri tali da compromettere irreparabilmente la tutela stessa (ordinanza n. 213 del 2005) e non anche nel caso in cui, come nella specie, la norma censurata non elimini affatto la possibilità di usufruire della tutela giurisdizionale (sentenza n. 85 del 2013)».
n il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. pu dirsi violato - ha osservato la Consulta - sotto il profilo economico-patrimoniale, non sussistendo la prospettata attribuzione di un ristoro patrimoniale in misura ingiustificatamente inferiore nel confronto con l’espropriazione in via ordinaria dello stesso immobile. La Corte ha rimarcato, in proposito, che «la norma attribuisce al privato proprietario il diritto ad ottenere il ristoro del danno patrimoniale nella misura pari al valore venale del bene (così come accade per l’espropriazione condotta nelle forme ordinarie), oltre ad una somma a titolo di danno non patrimoniale, quantificata in misura pari al 10 per cento del valore venale del bene. Si è perciò in presenza di un importo ulteriore, non previsto per l’espropriazione condotta nelle forme ordinarie, determinato direttamente dalla legge, in misura certa e prevedibile».
quanto all’indennità dovuta per il periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione, «è vero che essa viene determinata in base ad un parametro riduttivo rispetto a quello cui è commisurato l’analogo indennizzo per la (legittima) occupazione temporanea dell’immobile, ma il terzo comma della norma impugnata contiene una clausola di salvaguardia, in base alla quale viene fatta salva la prova di una diversa entità del danno».
neppure, ad avviso della Consulta, contrasta con il principio di eguaglianza l’omessa previsione di un temine per l’esercizio del potere riconosciuto in capo alla pubblica amministrazione, avuto riguardo alle «molteplici soluzioni, elaborate dalla giurisprudenza amministrativa, per reagire all’inerzia della pubblica amministrazione autrice dell’illecito: a seconda degli orientamenti, infatti, talvolta è stato posto a carico del proprietario l’onere di esperire il procedimento di messa in mora, per poi impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto dell’amministrazione; in altri casi, è stato riconosciuto al giudice amministrativo anche il potere di assegnare all’amministrazione un termine per scegliere tra l’adozione del provvedimento di cui all’art. 42 bis e la restituzione dell’immobile».
Nè, infine, la norma avrebbe trasformato il precedente regime risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assumerebbe natura di debito di valuta, non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria o previsto un regime deteriore del ristoro economico del privato inciso rispetto a quello conseguibile in sede espropriativa.
Per questo aspetto, la Corte Costituzionale si è richiamata ai criteri con i quali di regola conduce lo scrutinio di ragionevolezza, in ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, valutando se «il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti (sentenza n. 1130 del 1988)».
La Corte ha, quindi, osservato che, in ordine alla mutata natura del ristoro, «la norma prevede bensì la corresponsione di un indennizzo, ma determinato in misura corrispondente al valore venale del bene e con riferimento al momento del trasferimento della proprietà di esso, sicché non vengono in considerazione somme che necessitano di una rivalutazione» e , «quanto alle restanti censure, è appena il caso di sottolineare che l’aumento del 10 per cento previsto dal comma 2 dell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni non si applica a tutte le procedure, ma solo nei casi in cui sia stato concluso l’accordo di cessione (o quando esso non sia stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato, ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva), senza contare che ai destinatari del provvedimento di acquisizione spetta sempre un surplus pari proprio al 10 per cento del valore venale del bene, a titolo di ristoro del danno non patrimoniale».
In relazione al denunciato contrasto con l’42 Cost., la Corte Costituzionale ha evidenziato che «la norma censurata delinea pur sempre una procedura espropriativa, che in quanto tale non può non presentare alcune caratteristiche essenziali. ma non si deve trascurare, dall’altra parte, che si tratta di una procedura “eccezionale”, che ha necessariamente da confrontarsi con la situazione fattuale chiamata a risolvere, in cui la previa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera sarebbe distonica rispetto ad un’opera pubblica gi‧ realizzata. La norma censurata presuppone evidentemente una già avvenuta modifica dell’immobile, utilizzato per scopi di pubblica utilità: da questo punto di vista, non è congrua la pretesa che l’adozione del provvedimento di acquisizione consegua all’esito di un procedimento scandito in fasi logicamente e temporalmente distinte, esattamente come nella procedura espropriativa condotta nelle forme ordinarie».
Nè sussiste la violazione dell’art. 97 Cost., sia perché «il principio del “giusto procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati provvedimenti limitativi dei loro diritti), non può dirsi assistito in assoluto da garanzia costituzionale (sentenze n. 312, n. 210 e n. 57 del 1995, n. 103 del 1993 e n. 23 del 1978; ordinanza n. 503 del 1987)» sia perché il provvedimento ex art. 42 bis non si sottrae all’applicazione delle ricordate, generali, regole di partecipazione del privato al procedimento amministrativo, come, infatti, è riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa, che impone la previa comunicazione di avvio del procedimento.
La Corte Costituzionale ha disatteso la questione di legittimità costituzionale anche sotto il profilo del prospettato contrasto dell’art. 42 bis T.U. Espropriazione con l’art. 117 Cost., in quanto la norma sarebbe in contrasto con i principi della CEDU, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo, sotto due distinti profili: in primo luogo, l’art. 42 bis violerebbe la norma interposta di cui all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, rispetto al quale il fenomeno delle cosiddette “espropriazioni indirette” si porrebbe “in radicale contrasto”; in secondo luogo, l’art. 42 bis violerebbe la norma interposta di cui all’art. 6 CEDU, avendo la C. eur. dir. uomo ripetutamente considerato lecita l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti soltanto in presenza di «ragioni imperative di interesse generale».
nel confutare la tesi dei giudici remittenti, la Corte ha trattato questo profilo del possibile contrasto con l’art. 117 Cost. congiuntamente a quello del possibile contrasto, pure esso denunciato, con l’art. 111, co. 1 e 2, Cost., nella parte in cui, disponendo la propria applicabilità ai giudizi in corso, violerebbe i principi del giusto processo, con particolare riferimento alla condizione di parità delle parti davanti al giudice.
La Corte ha osservato in proposito che «è vero, infatti, che la norma trova applicazione anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, per i quali siano pendenti processi, ed anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato. ma è anche vero che questa previsione risponde alla stessa esigenza primaria sottesa all’introduzione del nuovo istituto (cos come del precedente art. 43): quella di eliminare definitivamente il fenomeno delle “espropriazioni indirette”, che aveva fatto emergere quella che la Corte EDU (nella sentenza 6 marzo 2007, Scordino contro Italia) aveva definito una «défaillance structurelle», in contrasto con l’art. 1 del Primo Protocollo allegato alla CEDU». Soprattutto - ha osservato il giudice delle Leggi - «le differenze rispetto al precedente meccanismo acquisitivo consistono nel carattere non retroattivo dell’acquisto (ci che impedisce l’utilizzo dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene al privato), nella necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione e, infine, nello stringente obbligo motivazionale che circonda l’adozione del provvedimento». In particolare «questo obbligo motivazionale, in base alla significativa previsione normativa, che richiede “l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione”, deve essere interpretato … nel senso che l’adozione dell’atto è consentita - una volta escluse, all’esito di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita - solo quando non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà».
La Corte ha, quindi, concluso che solo, se cos interpretata, la norma consente: a) di riconoscere, per le situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore, l’esistenza di “imperativi motivi di interesse generale” legittimanti l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti. Tali motivi consistono nell’ineludibile esigenza di eliminare una situazione di deficit strutturale, stigmatizzata dalla C. eur. dir. uomo; b) di prefigurare, per le situazioni successive alla sua entrata in vigore, l’applicazione della norma come extrema ratio, escludendo che essa possa costituire una semplice alternativa ad una procedura espropriativa condotta “in buona e debita forma”, come imposto, ancora una volta, dalla giurisprudenza della C. eur. dir. uomo; c) di considerare rispettata la condizione, posta dalla stessa Corte EDU nella citata sentenza Scordino del 6.3.2007, secondo cui lo Stato italiano avrebbe dovuto «sopprimere gli ostacoli giuridici che impediscono la restituzione del terreno sistematicamente e per principio»; d) di impedire alla pubblica amministrazione - ancora una volta in coerenza con le raccomandazioni della C. eur. dir. uomo - o di trarre vantaggio dalla situazione di fatto da essa stessa determinata; e) di escludere il rischio di arbitrarietà o imprevedibilità delle decisioni amministrative in danno degli interessati.
Successivamente alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 71/2015, la giurisprudenza amministrativa si è occupata dell’istituto di cui all’art.42-bis principalmente sotto due profili : 1) se sussista l’obbligo della Pubblica Amministrazione di provvedere sull’istanza di acquisizione sanate proposta dal proprietario del fondo oggetto di una occupazione illegittima; 2) quale sia il giudice titolare della giurisdizione sulle questioni indennitarie insorte dopo l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante da parte dell’amministrazione.
Sulla prima questione, i giudici amministrativi hanno dato risposta affermativa19, facendo leva sul dato normativo, di applicazione generale, dell’art. 2, l. 7.8.1990, n. 241, secondo il quale l’Amministrazione ha l’obbligo di concludere il provvedimento con un provvedimento espresso entro un determinato termine. nel caso di specie, non essendo previsto uno specifico termine nell’art. 42 bis, deve farsi riferimento all’ordinario termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento di cui all’art. 2, l. n. 241/1990.
Sulla seconda questione, invece, vi sono state delle pronunce dichiarative del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo20, sul rilievo che, una volta esercitato il potere di acquisizione sanante da parte dell’amministrazione e acclarato che lo stesso è stato legittimamente esercitato, ogni questione relativa al ristoro patrimoniale non può pi essere letta in chiave risarcitoria (nel presupposto teorico, anche implicito, che si verterebbe in fattispecie di illecito della P.A.), ma come inerente un indennizzo da atto lecito, in merito al quale può pronunciarsi solo l’autorità giudiziaria ordinaria, secondo il vigente criterio di riparto delle giurisdizioni21.
1 La Corte ha osservato, in proposito che questo richiamo alle possibili conseguenze per i funzionari che, nel corso della vicenda espropriativa, si siano discostati dalle regole di diligenza previste dall’ordinamento risponde ad un invito della stessa C. Eur. dir. uomo, 6.3.2007, Scordino c. Italia, secondo cui lo Stato convenuto dovrebbe scoraggiare le pratiche non conformi alle norme degli espropri in buona e dovuta forma, adottando misure dissuasive e cercando di individuare le responsabilità degli autori di tali pratiche».
2 C. cost., 30.4.2015, n. 71, in www.lexitalia.it.
3 Per l’inquadramento in via generale dell’istituto, con particolare riguardo all’evoluzione storica dello stesso, si riportano in via di sintesi i rilievi di cui a Raiola, I., Commento all’art. 42-bis T.U. Espropriazioni, in Codice dell’Espropriazione e della Perequazione Urbanistica, a cura di R. Garofoli e G. Ferrari, 2013, 782 ss, cui sia consentito il rinvio.
4 Stellin, G. Cingano, v., L’occupazione illegittima di un bene ad opera della P.A.: profili giuridici ed estimativi, in Giorn. dir. amm., 2012, 1127.
5 Cass., S.U., 24.2.1984, n.1464; Cass., S.U., 10.6.1988, n. 3940.
6 C. cost., 30.4.1999, n. 148.
7 Cass. civ., I, 18.2.2000, n. 1814; Cass. civ., I, 28.3.2001, n. 4451.
8 Rescigno, P., Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto privato, in Riv. dir. civ., 2002, 329.
9 Cass., S.U., 25.11.1992, n.12546, che opt per la fattispecie risarcitoria; Cass., S.U.6.7.2011, n.14840, sul conflitto di giurisdizione.
10 C. cost., 31.7.1990, n. 384; C. cost., 27.12.1991, n. 486; C. cost., 23.5.1995, n. 188; Id., 30.4.1999, n. 148.
11 C. eur. dir. uomo, 30.5.2000, n. 24638/94, Carbonara e Ventura; C. eur. dir. uomo, 30.5.2000, n. 31524/96.
12 Botta, C., Il ritorno dell’acquisizione coattiva tra tutela del proprietario e protezione dell’interesse collettivo, in Notariato, 2011, 672.
13 C. eur. dir. uomo, 17.5.2005, Scordino c. Italia.
14 Botta, C., op. cit., ibidem; sul punto, cfr. Cons. St., A.P., 29.3.2001, n. 4.
15 Raiola, I., op. cit., 786.
16 TAR Campania, napoli, v, ord. 28.10.2008 nn. 730 e 731.
17 C. cost., 8.10.2010, n. 293.
18 Cass. civ., S.U., 13.1.2014, n. 89; TAR Lazio, II, 12.5.2014, n. 163; TAR Lazio, II, 5.6.2014, n. 219.
19 Cons. St., Iv, 27.4.2015, n. 2126; TAR Emilia Romagna, Bologna, 29.5.2015, n. 505.
20 TAR Toscana, I, 11.6.2015, n. 890; TAR Emilia-Romagna, Parma, I, 29.6.2015, n. 203.
21 Gisondi, R., Rimedi risarcitori e restitutori contro le occupazioni illegittime alla prova dell’art.42-bis del t.u.e., in www.giustamm.it, 6.6.2015.