Legislazione e codificazione
La codificazione è una forma storica di legislazione. L'esperienza dei codici europei presuppone non soltanto il potere di legiferare, ma il primato della legge sulle altre fonti del diritto. Consolidatisi gli Stati assoluti, declinata la forza della nobiltà e dei ceti professionali, costruita la moderna teoria della sovranità, il diritto si definisce come posizione di norme statali. Diritto è il diritto legislativo dello Stato. Il vario mondo, in cui confluivano eredità romanistiche, diritti territoriali, consuetudini agricole e usi mercantili, responsi di antichi giureconsulti e regole canoniche; tutto questo intreccio converge a mano a mano, per una sorta di razionale semplificazione, nel soggetto della sovranità (v. Tarello, 1976, pp. 35 ss.). Qui è il supremo potere di stabilire ciò che è diritto, e così di accertare o selezionare il lascito del passato, di introdurre nuove regole e di ordinare l'intero patrimonio normativo di un paese. Il sovrano non trova, dinanzi e prima di sé, un intangibile e perenne diritto dei rapporti civili (della civitas, in cui la condizione naturale viene superata e trascesa): egli è fonte del diritto, e il diritto si esprime nella forma della legge. A ben vedere, le teorie del giusnaturalismo, delineando la transizione dallo stato originario alla civitas, mentre segnano (o s'industriano di segnare) limiti e argini al potere sovrano, insieme l'innalzano a principio costitutivo dell'ordine umano e della convivenza storica (v. Wieacker, 1972², tr. it., pp. 493 ss.; v. Fassò, 1970, vol. III, pp. 19 e 25). L'assolutismo politico, eretto sulle rovine della feudalità e dei corpi intermedi, si congiunge al razionalismo filosofico e scientifico: lo Stato riposa su criteri di potere funzionale, adeguati agli scopi della sovranità regia e dell'irrompente borghesia.
Questa razionalità o funzionalità - segnalata, con straordinaria efficacia, nelle pagine di Max Weber (v., 1922; tr. it., pp. 161 ss.) - è, da un lato, conseguenza del clima storico e delle necessità mercantili; dall'altro, generatrice di forme giuridiche e strumenti istituzionali. La borghesia europea, immersa nella prima rivoluzione industriale e protesa verso l'espansione e il dominio dei mercati, non può tollerare un diritto incerto o dubbio, di cui è già difficile stabilire le diverse fonti e accertare l'attuale vigore. Lo stato delle fonti semina di incognite e insidie lo svolgimento dei rapporti; favorisce l'inganno e la frode; rende incalcolabili i contegni di altri soggetti. Ma la calcolabilità è necessaria al capitalismo: dove, sostituendosi la produzione in massa alla produzione per singoli clienti, il capriccio individuale e l'incertezza normativa sono i rischi più alti e gravi. Occorre una matematica delle azioni, sicché ciascun soggetto del rapporto economico sia in grado di calcolare il comportamento degli altri e valutare vantaggi e svantaggi della scelta. Lo 'speculare' dell'imprenditore - questo vedere oltre il presente, puntando su fatti futuri (come offerta di merci o corso dei cambi o decisioni politiche o esiti militari) - sarebbe impossibile o in tutto arbitrario, se egli non disponesse almeno della calcolabilità giuridica, cioè della certezza dei significati. Questa certezza, come permette ai parlanti di istituire il dialogo e di rendersi l'uno all'altro intellegibili, così stabilisce l'ordine delle azioni, le quali si mostrano vicendevolmente nel loro significato e rispondono al calcolo predittivo delle singole parti. L'azione, trovando la propria misura nella legge, diventa controllabile dagli organi giurisdizionali: "La generale misurabilità è il presupposto della generale controllabilità" (v. Schmitt, 1928, tr. it., p. 179; v. Ascoli, 1928, pp. 70 ss.).
Il sovrano, appunto in forza della suprema potestà, è in grado di costruire la calcolabilità delle azioni. "E le leggi civili (per definirle) non sono altro che i comandi di chi è investito della potestà suprema sullo Stato, riguardo le azioni future dei cittadini" (T. Hobbes, De cive, VI, 9). L'incertezza non giova neppure al governo politico, dacché genera zone ambigue, in cui si annidano resistenze o privilegi di ceto. Tra disegni del sovrano e interessi della borghesia vi è piena concordanza. Né la cornice storica subisce mutamenti quando il potere sovrano è collocato nella volontà popolare (v. Wieacker, 1974; tr. it., p. 9): intanto, perché il ciclo della Rivoluzione si esaurisce nel regime napoleonico e si piega agli interessi della borghesia dominante; poi, perché la Ragione è dea comune e universale di tutte le classi; infine, perché la volontà popolare è volontà della nazione, e questa esige un diritto proprio e autonomo, sciolto da antiche eredità e da confuse genealogie. Anche sotto questo riguardo, la grande Rivoluzione fu preparata e favorita dall'assolutismo regio: essa dette l'estremo colpo a istituzioni, che già la monarchia aveva spogliato di qualsiasi funzione politica e che ormai sopravvivevano come odiosi privilegi e come ostacoli al libero svolgersi della borghesia mercantile. Demoliti i ceti feudali e corporativi, la Rivoluzione vi sostituì "un ordine sociale e politico più uniforme e più semplice, fondato sull'eguaglianza dei cittadini" (A. de Tocqueville, L'ancien régime et la Révolution, 1856). L'eguaglianza tra membri della stessa nazione, sottoposti a leggi comuni e giudicati da magistrati comuni, significa non soltanto unità e identità storica della nazione, ma pure necessaria condizione del libero commercio: che è libero perché intercorre tra soggetti uguali. I rapporti economici, nel loro costituirsi e svolgersi, sono resi calcolabili dall'eguaglianza giuridica dei soggetti: rimarrà soltanto - ma destinata, in molti paesi, ad attenuarsi o a scomparire - la divisione tra rapporti civili e rapporti commerciali (onde si daranno separati codici civile e di commercio). Questa divisione risponde, da un lato, all'eredità corporativa, convertendosi la separatezza di ceto in commercialità di singoli atti; dall'altro, al lento e difficile penetrare dell'impresa (come attività economica professionalmente esercitata) nell'ambito dei quotidiani rapporti di scambio. Ma tempo verrà (per l'Italia, nel 1942) in cui, considerandosi l'impresa quale forma moderna di produzione e di commercio di beni, e scorgendosi in essa il centro della nostra società, cadranno le ragioni della divisione e sarà ineluttabile raccogliere tutti i rapporti economici nel codice civile, sede unitaria del diritto privato.
Ebbene, anche sotto il riguardo dell'eguaglianza, la legge appariva come strumento necessario ed efficace: essa sola in grado di disboscare le antiche fonti di diritto, di sostituirle con discipline semplici e uniformi, di ordinarle in corpi sistematici. A questo riusciva utile l'indole generale delle prescrizioni legislative, che non regolano casi e fatti determinati, né si rivolgono ai singoli gruppi o a specifiche categorie di soggetti. Generalità e astrattezza vengono indicate come proprie della norma legislativa, l'una designando il carattere anonimo dei destinatari; l'altra, il carattere ipotetico delle azioni disciplinate. L'anonimo 'chiunque', il quale si trovi in una situazione puramente ipotizzata (e, dunque, soltanto possibile o probabile), è il simbolo della struttura egualitaria della legge. Eguaglianza dei cittadini e generalità della legge si tengono reciprocamente: il codice, non disciplinando casi e situazioni determinati, è statuto di soggetti eguali (v. Schmitt, 1928; tr. it., p. 209). I soggetti sono bensì unici e singolari nella concretezza dell'azione economica, ma l'uno all'altro uguali nella struttura obiettiva della norma. Onde può dirsi che "singolarità del soggetto giuridico e universalità della norma sono correlativi" (v. Mathieu, 1972, p. 108).
Tra la fine del XVIII secolo e i primi anni del successivo, si andava così determinando un groviglio di ideologie e di interessi economici, di razionalità ordinatrice e di unità politica, che trovò risposta nei codici europei. L'equazione, sopra evocata, tra norma giuridica e legge dello Stato sospingeva verso un'opera unificante, capace di affermare il primato della legge tra le fonti del diritto e di raccogliere in sistema la disciplina di un settore di vita. L'unità politica della nazione si esprime in unità legislativa; il codice assume l'importanza di un libro patriottico, con cui viene celebrata l'identità culturale del paese, l'eguaglianza dei cittadini, la continuità della tradizione e, insieme, l'audacia della modernità (v. Filomusi Guelfi, 1886, pp. 183 ss.; v. Sacco, 1992⁵, pp. 256 ss.; v. Coing, 1982). In Italia e in Germania la codificazione terrà dietro all'unificazione politica (v. Ghisalberti, 1985 e 1985³; v. Rescigno, 1992²).Il codice manifesta la potenza e l'orgoglio del potere legislativo: ne è, in certo modo, la misura più alta e perfetta. Il diritto si esprime nella forma della legge statale, e questa si svolge e organizza nella forma del codice. La tendenziale equazione fra diritto e codice è promossa dal monopolio legislativo dello Stato. Non si tratta di raccogliere vecchie norme o consuetudini, di consolidare il passato selezionandone i rami più freschi e vitali, ma di porre il diritto nella forma del codice. Qui, come sempre, la forma è tutt'uno con il contenuto: codificare non è un semplice mettere insieme, gettare un vincolo estrinseco tra norme diverse, quanto stabilire il diritto secondo una tavola di principî (v. AA.VV., 1992). La razionalità del codice risiede nel sistema interno, dove i principî (espressi o inespressi) orientano la soluzione dei singoli problemi e dettano il criterio per distribuire e collocare le materie regolate. L'ordine, che è carattere fisionomico dei codici, non si svolge all'esterno della materia (il che segue consuetamente nelle opere di consolidazione o nei testi unici: v. Irti, 1993, pp. 303 ss.; v. Chabas, 1994), ma all'interno di essa: questa subisce, per così dire, un trattamento in base ai principî accolti dallo Stato. Tali principî, che si lasciano disporre secondo gradi di generalità e di astrattezza, stabiliscono con le singole norme un circuito di feconda creatività, determinando - come ha notato Angelo Falzea (v., 1994, p. 21) - un flusso discendente dai principî alle norme, e uno ascendente da queste a quelli.
Il tema richiama alla memoria la celebre polemica fra Thibaut e Savigny, che fu veramente una colta e nobile disputa sull'unità del diritto: la quale pareva al primo garantita dal codice, come simbolo dell'identità tedesca e del patriottismo delle guerre antinapoleoniche; e invece a Savigny, messa in atto e sempre rinnovata dalla scienza giuridica. Si scorgeva già l'antitesi tra sistema interno, scelto dal legislatore e applicato nelle strutture dei codici, e sistema esterno, con cui il ceto dei giuristi è in grado di sorvegliare la genesi storica del diritto e di ordinarlo nell'unità di principî scientifici. Dettando nel 1814 il suo Über die Nothwendigkeit eines allgemeinen bürgerlichen Rechts für Deutschland, Thibaut parla bensì sotto la piena emotiva del nazionalismo, ma esprime pure stringenti necessità della borghesia mercantile: il frazionamento degli Stati, con il groviglio di antiche leggi e consuetudini, deve superarsi in un "codice emanato per tutta la Germania, sottratto all'arbitrio dei singoli governi" (v. Thibaut, 1814; tr. it., p. 57), e ormai indispensabile ai paesi tedeschi per intrattenere "vivaci e intime relazioni reciproche" (p. 58). Il codice civile, insomma, come "grande opera nazionale" (p. 64), elaborata nello spirito tedesco, e capace di conferire stabilità e certezza ai rapporti interni. Thibaut invoca, con fervore illuministico, una 'pura matematica del diritto', "su cui nessun carattere locale può esercitare un influsso decisivo" (p. 79): matematica - possiamo noi soggiungere - che attribuisca un previo valore alle singole azioni, e permetta così di antivederle e calcolarle. Il bisogno di sicurezza e di stabilità è pure avvertito da Savigny, il quale tuttavia indica "il mezzo giusto in una scienza giuridica in progresso organico, che possa essere comune a tutta la nazione" (v. Savigny, 1814; tr. it., p. 197). All'autorità del legislatore Savigny oppone l'intima energia del popolo, interpretata e sistemata dai giuristi: così l'elemento politico del diritto si congiunge con l'elemento tecnico (p. 100). La similitudine non corre più tra diritto e matematica, ma tra diritto e linguaggio (p. 99), poiché il diritto, come la parola, è una 'funzione del popolo', e, insieme con il popolo, nasce si sviluppa si estingue. La calcolante rigidità dei valori matematici cede all'instabile significato delle parole: i giuristi, come grammatici del diritto, sono chiamati da Savigny a sorvegliare e sistemare questo infinito movimento. A ben vedere tra le pieghe della contesa, ci accorgiamo che Thibaut chiedeva al codice civile di risolvere un problema politico, costituendo nella disciplina dei rapporti privati quella unità che i paesi tedeschi non riuscivano a raggiungere sul terreno statale; mentre Savigny, consapevole della storicità di costumi e di idee, coglieva la garanzia dell'unità soltanto nella comunanza del sapere giuridico. Per Thibaut, come per Hegel, il carattere del popolo è "il risultato, e non la radice della legislazione" (v. Rosenzweig, 1920; tr. it., p. 337); per Savigny, ne è fondamento vitale e generatore.La disputa, che appariva storicamente superata dall'espandersi universale dei codici, riprende forza nell'età della decodificazione, quando sui giuristi torna l'ufficio di ristabilire l'unità infranta dalle leggi speciali e di conciliare i principî del codice con i principî delle discipline di settore. La decodificazione apre nuovi e inattesi territori al diritto dei giuristi.
Al codice, come forma storica di legislazione, sembra appartenere il carattere della discontinuità. Esso non si limita a selezionare e raccogliere il patrimonio legislativo, a consolidare e ordinare le norme vigenti, ma si pone come fonte esclusiva di diritto. La storia legislativa di un paese incomincia, o ci appare scandita, dall'emanazione dei codici. L'esclusività del codice, segnalata già da Savigny (v., 1814; tr. it., pp. 103-104) e ribadita in innumerevoli testimonianze (basti pensare, per il rapporto tra Code Napoléon e norme anteriori, all'art. 7 della legge del 30 ventoso, anno XII), indica appunto l'inizio dell'epoca nuova, un principiare della storia di un paese.
Questo carattere ricollega il codice alla rivoluzione (v. Wieacker, 1972²; tr. it., p. 495), la quale segna, anch'essa, l'inizio e determina i criteri della nuova legalità (v. Cattaneo, 1960, pp. 40 ss.; v. Romano, 1953, pp. 220 ss.). Rivoluzione e codice sembrano ritrovarsi in rottura, discontinuità, esclusività: il corso delle cose s'interrompe, e il nuovo ordine pretende un dominio unico e totalitario. Il passato viene abrogato. Questa somiglianza o rappresentazione, se pure colga elementi comuni, ha un che di rigido e teatrale. Le rivoluzioni non riescono, mentre dura la tempesta rovente e distruttiva, a comporsi nell'alveo nuovo di un codice. Edgar Quinet (La Révolution, 1865) indica il 9 agosto 1793 come "la giornata più straordinaria, più imprevista della Convenzione": "Un uomo, poco immischiato alle lotte politiche, che pareva estraneo a ciò che lo circondava, salì alla tribuna. Era Cambacérès, e vi depositò il Codice civile". Eppure il progetto, redatto eroicamente in appena un mese, non fu mai approvato; i lavori preparatori "furono sommersi dalla gloria unica del primo console"; le leggi emanate nel periodo della Rivoluzione ebbero il fuggevole nome di droit intermédiaire e il codice della Convenzione è rimasto, nella memoria degli storici, come "l'impossible code civil" (v. Halpérin, 1992, pp. 287 ss.).
L'impossibilità derivava non soltanto dallo 'spirito filosofico' della Rivoluzione, riluttante alla sobrietà delle formule legislative, ma soprattutto dall'ostile riserbo della classe giuridica, senza la quale un codice né si concepisce né si elabora. Il compromesso sociale e il sostegno dei giuristi si troveranno sotto il primo console. L'esperienza francese dimostra che il codice è, insieme, un fatto politico e un fatto tecnico: la sua nascita richiede vigore di governo e autorità di decisione; la sua novità è nei contenuti di materia e nei criteri di disciplina; ma la forma che gli è propria, e che lo fa grandeggiare tra le fonti del diritto, sta nella tessitura dei principî e nella collaborazione dei giuristi. Questo spiega perché il codice sia segno a un tempo di continuità e discontinuità, e come esso raccolga il frutto di tradizioni scientifiche e di scuole di diritto. L'accento della rivoluzione cade sulla rottura, sull'illiceità (Unrecht) rispetto a un dato sistema di diritto; l'accento della codificazione, sull'ordine nuovo delle norme, che insieme accoglie e supera il passato (sulla continuità nel diritto v. Merkl, 1926, tr. it., pp. 213 ss.; v. Pugliatti, 1978, pp. 77 ss.).
Il ceto dei giuristi, custode di antiche tecniche e strumenti definitori, raffrena l'audacia politica e l'espansione ideologica, e dà il proprio tono all'opera codificatrice: così gli esegeti francesi e italiani nel 1804 e 1865, i pandettisti tedeschi nel 1896, e ancora i dogmatici italiani nel 1942 (v. Bonini, 1973, pp. 137 ss.). Questi codici testimoniano che le rivoluzioni politiche - dalla francese del 1789 all'Impero germanico, dall'unità nazionale italiana al regime fascista - hanno bisogno di consenso tecnico, e che il ceto dei giuristi svolge un'assidua funzione di moderazione e di controllo. Se nel Codice francese del 1804 confluirono non soltanto le conquiste laiche e liberali della Rivoluzione, ma anche l'eredità della vecchia Francia, ordinanze regie e coutumes e diritti locali; se il Codice italiano del 1942, pur accogliendo la figura dominante dell'impresa, fu appena lambito dal corporativismo; ebbene di questa saggezza di scelta siamo debitori alla classe dei giuristi, in cui l'ardimento delle idee trova sempre misura negli argini della tradizione (v. Santoro Passarelli, Senso di..., 1977, pp. 2-3).
La natura sistematica propria dei codici ottocenteschi, poi innalzatasi a carattere stesso dell'idea di codice (quale che ne sia il contenuto, borghese o proletario, individualistico o socialistico: v. Mengoni, 1994, p. 254; v. Ascarelli, 1949, pp. 41-81), quella natura è, insieme, effetto e ragione della completezza e coerenza dell'opera codificatrice. Poiché nella trama delle norme ordinarie giacciono, espressi o inespressi, principî generali, cioè criteri di trattamento dei casi, anche fatti non previsti possono trovarvi disciplina per il tramite dell'analogia. La duplice forma di analogia (legis e iuris) utilizza i principî del codice, ricavandone il regime di controversie non previste, e così garantendo al cittadino la risposta del diritto. Nel diritto statale, non c'è domanda senza risposta. Il mito, o la fede, della completezza - consegnato all'obbligo del giudice di non denegare la decisione della causa - accompagna tutta l'esperienza storica dei codici. Questo significa non tanto che i codici si considerano completi, quanto che riservano a se medesimi la scelta delle modalità integratrici: è piuttosto autosufficienza, cioè supremo potere di tracciare i confini del diritto statale e di allacciare rapporti con altri ordini di norme. La completezza non esclude relazioni con altri ordinamenti, ma li deferisce al potere sovrano dello Stato (v. Rescigno, 1992, pp. 335 ss.; v. Schulz, 1934).
Poiché nulla vieta che norme del codice siano vicendevolmente in conflitto, e che si riapra così l'antica incertezza, i principî provvedono anche alla soluzione delle antinomie. La coerenza è pregiata al pari della completezza: occorre che le norme (espresse o desunte per analogia) siano bensì in numero pari ai casi controversi, ma non in numero maggiore. Già Savigny (v., 1840-1849; tr. it., vol. I, p. 268) notava: "Quello che noi cerchiamo di stabilire è sempre l'unità: l'unità negativa col toglier di mezzo le contraddizioni; l'unità positiva col riempire le lacune" (v. specialmente Bobbio, 1960, pp. 125 ss.). Ogni domanda di diritto deve trovare una, e soltanto una, risposta. L'eccesso di risposte precipiterebbe i rapporti economici nel disordine, li renderebbe giuridicamente incalcolabili, e finirebbe per riconsegnarli all'arbitrio della forza.
L'autosufficienza, se da un lato garantisce l'esclusività nella produzione di norme e di criteri decisori, può dall'altro inaridire il sistema, renderlo estraneo alla vita sociale, ergerlo a difesa di un nucleo immobile di valori. Il problema del codice - o, più in generale, di un ordinamento giuridico - sta nel soddisfare, insieme, due bisogni: di espandersi a casi non previsti, accogliendo nuovi interessi e figure di azione; di proteggersi contro fattori eversivi, capaci di alterarne o demolirne l'ordine interno. Come osserva incisivamente Hegel (Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 216): "L'ambito delle leggi dev'essere, da un lato, una totalità chiusa; dall'altro, esso è il bisogno permanente di nuove determinazioni legali".
Una misura di difesa è, ad esempio, nella norma che restringe la sfera applicativa delle eccezioni (cfr. art. 14 delle disposizioni preliminari del Codice civile: "Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati"; v. Carnelutti, 1986, pp. 293-294). L'eccezione introduce una dissonanza di disciplina, e bene spesso reca in sé un criterio suscettibile di estendersi o di assumere dignità di principio generale (v. Irti, 1990, pp. 79 ss.). Nuovi interessi o soggetti marginali si affacciano al diritto sotto lo schermo di eccezioni: la storia ne conosce poi l'urto contro le regole, e non raro il trionfo (v. Betti, 1971², pp. 183 ss.; v. Ascarelli, 1934, pp. 451-494). Le lotte tra regola ed eccezione accompagnano la vita dei codici, fino al punto in cui o l'eccezione esaurisce la propria energia espansiva o prevale vittoriosa e si fa principio di un nuovo diritto regolare. Il predicato di eccezionalità è storicamente relativo: esso presuppone sempre il raffronto con una norma, assunta come regolare.
Urge pure - si è di sopra notato - il bisogno dei codici di allacciarsi con la realtà economico-sociale, e quindi di adottare dispositivi di flessibilità, i quali ne assicurino la costante modernità o ne ritardino l'invecchiamento. Soccorre allo scopo, come già si vide, l'analogia, cioè un metodo di produzione normativa che utilizza o la ratio di una singola norma o un principio generale (cfr. art. 12, comma 2, delle disposizioni preliminari del Codice civile). Il divieto di applicazione analogica blocca l'energia delle norme eccezionali, e le restringe ai casi e ai tempi in esse considerati; le procedure di analogia, messe in opera sulle norme regolari, ne espandono i criteri di disciplina. Il divieto esprime il principio conservativo; l'analogia, il principio evolutivo (dello sviluppo nella continuità della ratio legis). Il caso, non rientrante in una disposizione di legge, va tuttavia deciso: esso stimola la capacità sistematica del giurista, provoca la fecondità del dubbio, determina nuove letture di norme e principî generali. L'obbligo di decidere costringe a mobilitare e arricchire tutte le risorse valutative dell'ordinamento, che penetrano nel codice e ne animano le norme.
Il codice è immerso, per così dire, in un'atmosfera normativa, in un più largo universo di interessi e di criteri decisori: esso, insieme, dà e riceve; accoglie e restituisce. Le sue norme adoperano concetti di collegamento con la realtà sociale, come, ad esempio, buona fede ed equità. In essi non si perde il carattere di autosufficienza, poiché il legislatore - e soltanto il legislatore - decide di rivolgersi al di fuori e di immettere nel codice valutazioni esterne. Straordinario rilievo assume, o può assumere, l'equità, quando sia considerata non semplice mitigazione della legge o giustizia del caso singolo, ma regola di comunità, alle quali appartengano categorie di soggetti o facciano capo tipi di interessi (ad esempio, la comunità degli imprenditori: v. Oppo, 1994, p. 179).
Mentre l'influsso dei casi non previsti, dei principî generali di legislazione e dei concetti di raccordo si svolge in linea orizzontale, quello della costituzione opera in linea verticale. Specie in regime di costituzione rigida (come oggi in Italia), il codice civile è sovrastato dai principî costituzionali, che suscitano nuovi significati e correggono antiche letture degli interpreti. Il rapporto tra codice civile e costituzione assume, come subito vedremo, varietà di atteggiamenti storici, secondo che i principî generali dell'uno s'innalzino a statuto del singolo nei rapporti civili o si trovino invece subordinati a valori di grado più alto.
Il contenuto di principî dà ragione del carattere costituzionale dei codici ottocenteschi (v. Giorgianni, 1961, p. 399). I quali, in regimi di costituzione flessibile, provvedevano a enunciare e custodire la tavola dei valori comuni (libertà del negoziare, intangibilità della proprietà privata, sua circolazione per atto tra vivi e per il tempo dopo la morte). I rapporti mutano in regime di costituzione rigida, dove la costituzione permea i codici "con i suoi criteri e con i suoi valori" (v. Paladin, 1994, p. 88; v. Mengoni, 1992, p. 318). Clausole generali del codice civile, istituti soltanto accennati o appena introdotti, tutele di interessi emergenti trovano nei principî costituzionali nuova energia, e, raccordandosi verticalmente con essi (v. Oppo, 1991, pp. 475 ss.), si affermano ed espandono. Quando poi il codice si collochi storicamente dopo l'entrata in vigore di una costituzione, esso svolge la funzione di attuarla e di tradurla in norme ordinarie. Qui le norme costituzionali, interpretate alla luce delle leggi attuatrici, prendono o generano nuovi significati in proficua circolarità ermeneutica (v. Paladin, 1994, p. 89).
Costituzione e codice civile sono, di tempo in tempo, garanti dell'unità dell'ordinamento: se la costituzione ha carattere rigido, e affonda nelle radici storiche e nel sentire comune della società, allora essa si erge a protezione dell'intero diritto statale e ne custodisce i valori supremi; se invece la costituzione, rigida o flessibile che sia, è tema di contesa politica, o innalzata dai vincitori sulle spoglie dei vinti, o declina per l'affiorare di nuovi valori e interessi, allora il codice civile si rivela per intero come regime dei rapporti privati. Ed esso attraversa le crisi di sistemi politici, monarchie o governi di fatto; e scorre, discreto e sotterraneo, mentre infuria la tempesta sulle istituzioni pubbliche; e così garantisce la quotidianità della vita sociale, e offre quella minima sicurezza di cui tutti abbiamo pur bisogno: pronto a cedere di nuovo il primato, allorché il sereno sia stabilmente tornato e la garanzia dell'unità venga assunta da una nuova costituzione (v. Irti, 1992, pp. 46 ss.; v. Piovani, 1968³, pp. 145-146). Il codice civile non è tanto un argine contro la rivoluzione, quanto un rifugio dei singoli, poiché la vita sociale continua a svolgersi anche quando i fondamenti ne sono ridiscussi o ridefiniti, o quando la società civile dei bourgeois sembra separarsi e allontanarsi dalla società politica dei citoyens (v. Carbonnier, 1992, p. 37).
Questi rilievi lasciano cogliere appieno il significato storico e la funzione giuridica del codice civile. Esso nasce come carta della borghesia: dapprima dei proprietari terrieri, che stabiliscono e svolgono rapporti civili, e dunque rimangono estranei ai rapporti mercantili, affidati ad altra disciplina (v. Ascarelli, 1955², pp. 38-39 e 45 ss.), poi - confluiti i regimi delle due categorie di rapporti in un solo codice, e riconosciuto il primato dell'impresa - dell'uomo integrale, non più scisso in se medesimo, ma ritrovato nell'unità della vita. I principî del codice si espandono a tutte le classi, innalzandosi a valori della società moderna. Non appartengono più alla borghesia, contro cui si levino proletariato urbano e masse operaie, ma all'individuo del nostro tempo: al ceto medio, capace di omologare (direbbe un doloroso autore del Novecento italiano) borghesia e proletariato, di stabilire un universale regime dei consumi, di soffocare i conflitti nell'opaca neutralità del benessere. Il codice civile, perduta l'impronta originaria e dimentico delle radici storiche, si offre a tutte le classi, le attira a sé, e si fa, da statuto della borghesia, statuto della società media.
Acquista così una forza immensa, che si dispiega nelle stagioni di crisi e nel declino della vita politica. Allora gli individui della società media, riaprendo la scissione tra cittadini e borghesi, si rifugiano all'interno del codice civile, il quale ne salvaguarda gli interessi più vitali e profondi. Così, mentre guerre terribili dilaniano i territori, o la crudeltà di passioni partigiane ferisce la vita pubblica, e si abbattono dispotismi e rovinano antiche monarchie (penso all'Italia tra il luglio del 1943 e l'aprile del 1945), i rapporti civili (cioè della società retta dal codice civile) si stringono e svolgono con diffusa continuità. Il codice, in cui tutti i belligeranti si ritrovano e che nessuna delle parti in conflitto vorrebbe demolire o sconvolgere, si erge come legge dei rapporti extrapolitici. Illusione - si osserverebbe (v. Bobbio, 1977) -, poiché i rapporti civili sono, anch'essi, politici; ma illusione benefica e preziosa, se riesce a proteggere gli scambi elementari e i commerci, e a garantire la stabilità degli accordi privati.
La borghesia, vittoriosa sulla nobiltà e sui privilegi feudali, vide sorgere dinanzi a sé, quasi generato dal suo stesso trionfo, un nuovo e più temibile nemico, il proletariato delle fabbriche e dei campi. E poteva prevedersi o temersi che il codice civile fosse travolto nella lotta. La minaccia pesò a lungo. Ma oggi, saliti liberismo ed economia di mercato a principî planetari, e risolti, o occultati, i conflitti sociali nei consumi di massa e nella 'medietà' del benessere, il codice appare come costituzione di tutte le classi. Amici del codice, non soltanto i produttori, ma gli anonimi fruitori di beni, che trovano in esso le modalità giuridiche dello scambio: la società dei consumi è costruita con elementari istituti del codice civile. Perduto il significato politico delle origini, il codice non è più simbolo di rottura, ma di durevole certezza e di stabilità sociale. Per dirla con un dottrinario tedesco del secolo scorso, J.K. Bluntschli (Politik als Wissenschaft, 1876), "ogni uomo colto può leggere il codice e saper trovare molte cose, le quali gl'importino per la sua vita e per i suoi affari".
Il codice civile è lo statuto delle leggi (v. Santoro Passarelli, Le norme..., 1977, pp. 33-50; v. Pierandrei, 1965, pp. 151 ss.). Esso non soltanto regola i rapporti della vita privata, ma contiene altresì la disciplina delle altre leggi (leges legum): il Codice civile italiano del 1942 è preceduto da trentuno articoli, raccolti sotto il titolo Disposizioni sulla legge in generale. Fu già detto del significato costituzionale dei codici ottocenteschi, che provvedevano a garantire i diritti supremi dell'individuo, regolando la proprietà, la successione per causa di morte, l'autonomia contrattuale. La libertà del singolo, così nel dominio sulle cose come nei rapporti con altri soggetti, trovava la propria 'costituzione', il proprio fondamento legislativo, nel codice civile. Al rilievo politico e ideologico si congiungeva il prestigio della tradizione civilistica, di celebri scuole e maestri, i quali, riscoperta e dissodata l'eredità del diritto privato romano, lo avevano innalzato a regime dell'intera Europa. Insomma, il diritto civile, per perfezione tecnica e primato di contenuti politici, appariva propriamente come scientia altior: principio delle altre discipline e di ogni sapere giuridico. Donde la collocazione delle 'preleggi' nel vestibolo del codice civile, quasi esso ne sia testimone storico e sicuro custode. Il codice civile regola, insieme, sé e le altre leggi; la scienza del diritto civile comunica alle altre dottrine propri concetti e categorie ordinatorie (esemplare, fra tutti, il trapianto del negozio giuridico).
Ma le 'disposizioni sulla legge in generale' - disciplinando, appunto, in generale le fonti del diritto e l'applicazione della legge -, se esaltano la dignità della sede e il superiore ufficio del codice civile, lo riducono pure a legge tra le leggi. Esse dominano il loro artefice: lo statuto generale della legge è anche statuto del codice civile. Non si tratta di ingegnose metafore o di provvidenziali astuzie: è che il codice, distaccandosi dalle radici storiche e perdendo nel tempo l'alto significato delle origini, si trova all'interno di un ordinamento. Esso è un tutto, e insieme parte del tutto. Scriveva, con certa enfasi hegeliana, un colto civilista del principio del secolo, F. Filomusi Guelfi (v., 1917⁷, p. 98): "L'ordine [...] di un Codice esprime il tutto giuridico di un dato ramo del diritto, e quindi l'organismo di esso. Il Codice quindi è un sistema legislativo: è come una grande e complessa legge". Già in questa proposizione si coglie l'ambiguità del codice: che è bensì 'il tutto', ma soltanto di un 'dato ramo del diritto'; che è bensì 'sistema legislativo', ma pure 'grande e complessa legge' tra le altre leggi di uno Stato.
Questa ambiguità non si scioglie con il rilievo essere le norme del codice norme ordinarie, e perciò collocate, nell'interna gerarchia dell'ordinamento, accanto ad altre leggi; e subordinate, al pari di queste, alle norme costituzionali. La kelseniana Stufenbau dà risposta al quesito della validità di ciascuna norma, non già alla domanda storica e scientifica. La forza del codice è proprio nella distinzione tra ordinamento e sistema (v. Irti, 1990, pp. 82-83; v. Paradisi, 1991, p. 9): l'uno designa l'appartenere a un tutto, che trova la propria unità nella norma fondamentale (fondamento, appunto, di validità di ogni norma); l'altro designa l'appartenere delle norme a un tutto di principî, sicché in ciascuna norma si svolgano e manifestino comuni valori. I due ambiti non coincidono, poiché un ordinamento, per interne lacerazioni e dissonanze, può esprimere principî frammentari o rivelare conflitti tra principî generali. Il codice è un sistema, anche se l'ordinamento complessivo dello Stato sia percorso da impulsi contrastanti o da tensioni ideologiche. Qui sistema non è la totalità astratta delle norme, ma il concreto e tangibile codice civile (v. Sève, 1986, p. 81).
Si torna così alla notazione accennata poco sopra: il primato storico e sistematico del codice civile è sempre perduto e sempre riconquistato. Quando l'ordinamento generale ha vigore di principî e unità di volontà, allora il codice degrada a legge tra le leggi, a capitolo del sistema complessivo (sicché l'interpretazione delle sue norme, per farsi 'sistematica', dovrà varcarne i confini e slargarsi agli altri territori del diritto); quando, invece, l'ordinamento generale e le ragioni politiche dello Stato sono deboli o controversi, allora il codice civile riprende il primato e protegge la società civile nelle ore angosciose o nelle ardue transizioni.
Si toccò la separazione tra codice civile e codice di commercio. Essa, mentre accoglie l'eredità delle corporazioni professionali, rispecchia anche la diversità di due sfere: l'una, fondata sul godimento dei beni immobili, la continuità della famiglia, la singolarità dei rapporti; l'altra, sull'esercizio dell'impresa, la produzione di massa, l'uniforme ripetitività degli scambi. Questi ambiti appartengono al diritto privato e utilizzano spesso strumenti identici (la vendita e la locazione sono, di volta in volta, locazione civile o commerciale, vendita civile o commerciale, ecc.); ma la forza attrattiva e l'energia storica della disciplina commerciale sono dominanti. Basterà rammentare l'art. 54 del Codice di commercio italiano del 1882, secondo il quale "se un atto è commerciale per una sola delle parti, tutti i contraenti sono per ragione di esso soggetti alla legge commerciale": essa "ormai governa l'atto del cittadino che contrae con un'impresa mercantile" (v. Vivante, 1922⁵, p. 9; v. Galgano, 1976, pp. 86 ss.). Così, il regime degli atti di commercio si allarga a disciplina generale dei rapporti economici, e la sfera dell'individuo, membro della società civile, si dissolve nella sfera dei soggetti economici: il mercato, ideale luogo d'incontro tra produttori e consumatori, attira l'integrale vita del singolo. Il corso storico e la prepotente espansione dell'impresa segnano nel 1942 l'unificazione italiana dei due codici: i quali confluiscono sotto il titolo del codice civile, ancorché il codice di commercio permei di sé l'apparente vincitore. I principî delle obbligazioni commerciali diventano principî generali del diritto delle obbligazioni, e l'impresa si eleva a istituto di diritto comune (v. Asquini, 1961, pp. 101 ss.; v. Ascarelli, 1955², pp. 89 ss.; v. Santoro Passarelli, 1961, pp. 945 ss.; v. Cian, 1991, pp. 9 ss.). "È impresa - nota Giorgio Oppo (v., 1994, p. 173) - anche l'impresa agricola; è impresa, a livello dimensionale minore, anche quella dell'artigiano, del coltivatore diretto, del piccolo commerciante; lo è, all'estremo opposto, anche l'impresa pubblica".
Il rapporto dialettico tra codice civile e moderna economia, definito nell'unificazione del 1942, si è riaperto con il sopravvenire di leggi ordinatrici del mercato. La disciplina della libertà di concorrenza, della pubblicità commerciale, delle reti televisive, dei valori mobiliari; la tutela dei consumatori e risparmiatori; le regole di transizione dallo Stato imprenditore all'azionariato diffuso; tutti questi fenomeni legislativi si sono determinati, o si vanno ancora svolgendo, al di fuori del codice civile. L'estraneità, se da un lato tiene lontane dal codice vicende effimere o temporanee (così, ad esempio, il regime di transizione dal capitalismo di Stato all'azionariato diffuso), rischia, per l'altro lato, di separare di nuovo diritto dei rapporti civili e diritto dei rapporti economici, il quale ultimo ormai gravita intorno alla disciplina del mercato. Il Codice civile del 1942 affidava la tutela dell'interesse pubblico all'impresa di Stato e alla superiore vigilanza delle autorità; il nuovo diritto, costruendosi dopo mezzo secolo dalla caduta del corporativismo, vede lo Stato ritrarsi dall'economia e farsi regolatore del mercato. Nozione estranea, quest'ultima, al diritto del codice, che si restringe alla vecchia materia della concorrenza sleale e ignora i moderni problemi dell'economia di mercato. A ben vedere, l'economia si giuridifica proprio perché lo Stato diviene ordinatore di essa (il mercato è costruito non tanto dalla naturalità degli interessi, quanto dall'artificialità delle regole): cioè - per usare una parola inelegante - si legifica all'esterno del codice. Spetterà a questo, nelle forme della revisione o della novellazione, di riappropriarsi della materia, di superare il particolarismo giuridico del mercato, e di ristabilire l'unità (v. Irti, 1992; v. Sena, 1993, p. 302).
Il grido d'allarme lanciato da G. Ripert (v., 1949, pp. 37 ss.) "tout devient droit public" non risuona più; il problema si è spostato al centro stesso del diritto privato.
Ancor oggi, indicandosi dal Vanderlinden (v., 1967, pp. 163 ss.) gli attributi che rendono eccellente e perfetta l'opera della codificazione, si esalta la chiara semplicità del linguaggio. Soltanto il codice, tra i corpi di leggi e le raccolte organiche di norme, ha un proprio stile, sobrio e incisivo, razionale e assiomatico. Qui, com'è ovvio, si sale dalla molteplicità storica all'idea di codice: ogni codice ha un suo proprio stile; ma l'idea di codice (in cui le varie esperienze sembrano depositare i caratteri tipici e costanti) evoca di per sé uno stile, appunto lo stile dei codici. La semplificazione non riguarda soltanto le fonti del diritto e la dispersa folla delle leggi anteriori, ma pure il linguaggio: latinetti, arcaismi, parole dubbiose o ambigue, regole scolastiche, massime di giudici e di dottori. Il razionalismo filosofico, le ideologie democratiche, gli interessi della borghesia esigono un comune e semplice linguaggio, che garantisca la stabilità dei significati.Nell'universo del diritto, l'ordine delle azioni è ordine del linguaggio: le azioni si collocano sotto le norme, e prendono la qualifica che esse attribuiscono. Vendita, mutuo, illecito, e innumerevoli altre, sono parole che esprimono il significato giuridico delle azioni. La stabilità di senso è, insieme, problema linguistico e problema di controllo giuridico della società. Il diritto prende possesso delle azioni mediante le parole. Si spiega così lo stile dei codici, i quali, come voce della ragione e della sovranità, non debbono né commuovere né persuadere: il loro ufficio è di ordinare i rapporti tra soggetti eguali; di rendere prevedibili e calcolabili i comportamenti dei singoli.
La lingua dei codici si distingue per proprietà di significati (cfr. art. 12, comma 1, delle disposizioni preliminari del Codice civile), semplicità di nessi sintattici, razionale procedere dalla nozione alla disciplina. Essa traccia così un piano interno che distribuisce la materia in sezioni di varia misura (libri, titoli, capi, ecc.), e la regola secondo il fondamentale rapporto di genere a specie. Così la disciplina italiana della locazione, dedicato un gruppo di articoli alle 'disposizioni generali', si divide nelle varie specie di locazione; quella dell'affitto, che è specie della locazione, si dirama, a sua volta, in una nuova serie da sub-genere a sub-specie. Ordine linguistico e ordine logico disegnano insieme la struttura interna del codice.È vecchia la disputa sulle definizioni, che taluni reputano estranee all'ufficio del legislatore, e altri invece necessarie per prevenire ambiguità di linguaggio e di disciplina (v. Belvedere, 1977). Certo è che il legislatore, dove definisce la materia regolata, indica i requisiti di un fatto, ossia le condizioni di una qualifica e di una disciplina giuridica. La definizione non sta a sé, ma è appunto descrizione del fatto disciplinato e dunque elemento costitutivo della stessa norma. Può ben accadere che la definizione sia in conflitto con il contenuto della disciplina, e allora l'interprete, sciolto da ogni vincolo, riprende la propria libertà critica e confuta o rettifica il dottrinarismo legislativo.
Il codice, come epilogo storico e sistema di norme, non è un qualsiasi oggetto della scienza giuridica. Qui l'oggetto, già percorso da una logica ordinatrice, si raccoglie intorno a una tavola di principî generali (espliciti o impliciti): ha, insomma, tale pienezza di valori tecnici e politici da sovrastare l'interprete. Il codice - osserva Fritz Schulz su orme savignyane - "conduce all'interpretazione letterale e allontana dalla considerazione della natura delle cose" (v. Schulz, 1934; tr. it., p. 11).
L'analisi permette di distinguere tra diverse figure storiche. Vi sono codici, che nascono eminentemente come opera del legislatore (e spesso di un legislatore postrivoluzionario): allora la novità e il vigore dei principî politici costringono l'interprete nelle forme del commentario, lo piegano al servizio della legge, risolvono l'indagine in esegesi. "Je ne connais pas le droit civil, je n'enseigne que le Code Napoléon": è, questo, il detto famoso, attribuito al Bugnet, in cui si compendiano il metodo della scuola francese e il rapporto della scienza giuridica con il proprio oggetto. Sarà lenta e dura la fatica per sciogliersi da un legame così rigido: fatica, non ignota agli studi italiani, che dapprima si tennero sulla strada francese e applicarono quel metodo al Codice civile del 1865 (anch'esso, opera di un legislatore postrivoluzionario), e poi, con maggior ardimento, si volsero alle scuole germaniche e salirono dall'esegesi al sistema scientifico (v. Irti, 1982).
Vi sono invece codici, che nascono come opera della dottrina: esempi insigni, il Codice civile tedesco del 1896 e il Codice civile italiano del 1942. In essi il fattore tecnico raffrena e argina il fattore politico, ancorché l'un codice non sia storicamente disgiungibile dall'unificazione dell'Impero germanico e l'altro dallo Stato fascista. Ma pure la dottrina vi raccoglie e fissa i risultati di una stagione scientifica (la pandettistica, in Germania; la dogmatica, in Italia). Tra scuola e codice si stabilisce così un nesso di produttiva circolarità, poiché la dottrina offre al codice propri schemi e concetti, e il codice, mercé il contenuto e l'ordine delle soluzioni legislative, stimola e orienta nuovi studi. Nesso che non pregiudica né l'autonomia dell'interprete né la diversità tra sistema legislativo e sistema scientifico (si pensi che la materia del diritto privato è ancora scandita nella triade gaiana di personae, res, actiones; v. Oppo, 1992, pp. 219 ss.). Felice e assidua è la dialettica tra concetti legislativi e concetti dogmatici: ora gli uni si svolgono e raffinano negli altri; ora i secondi integrano o rettificano i primi; sempre concorrono nella rappresentazione scientifica di singoli istituti o categorie di istituti. Le costituzioni e i codici chiudono questo fervore logico nel circolo della positività, cioè nel riconoscimento che i concetti sono ausili ermeneutici, e servono a spiegare norme e a comporre conflitti di interessi.
Leggi speciali e decodificazione - fenomeni a cui tra poco ci volgeremo - riaprono in certo modo il problema e sospingono verso metodi di neo-esegesi (v. Irti, 1982, III-XI; v. Bixio, 1988, pp. 28 ss.). Muovendosi sotto l'impulso di contingenze economiche o emergenze politiche, estranee a qualsiasi scrupolo tecnico o preparazione dottrinaria, le leggi speciali si esauriscono nella lettura esegetica. Accade tuttavia - come pure vedremo - che codeste leggi, iterandosi e consolidandosi, esprimano principî di settore e si compongano in microsistemi. Il giurista dei nostri tempi si trova così scisso tra sistema del codice ed esegesi delle leggi speciali, o tra grande e piccoli sistemi, sicché il suo ufficio si fa più arduo, e spesso l'occhio non riesce a percorrere l'orizzonte complessivo dell'ordinamento. Da un lato, la robusta continuità del codice civile e della tradizione dottrinaria; dall'altro, l'effimera 'contingenza' o l'inattesa 'emergenza', approdate a testi di scarsa o punta serietà tecnica. Si determina una sorta di divaricazione culturale, che scinde i metodi di studio e spesso conduce - dove manchi equilibrio di giudizio storico - o allo splendido isolamento nei confini del codice civile o alla precaria dispersione nelle leggi speciali. Posizioni sterili, poiché la prima si preclude di cogliere segni di modernità e di novità, e la seconda rinuncia alle risorse tecniche e ai principî unitari del sistema.
Per tre motivi - osserva Franz Wieacker (v., 1974; tr. it., pp. 133-134) - l'impegno del cittadino non è più rivolto alle grandi codificazioni nazionali: il primo è nel declino dell'idea di Stato nazionale; il secondo, nell'odierno Stato sociale, in cui il pathos della libertà cede al pathos della solidarietà; il terzo, infine, nel carattere negoziale delle leggi, che spesso estendono i poteri del giudice e ne modificano il rapporto con il diritto obiettivo. L'analisi va allargata ad altri fenomeni, e resa più complessa e problematica.
Il nazionalismo, di cui Wieacker segnalava il declino, ha ripreso nuova energia dopo il crollo del sistema sovietico. La fine della 'guerra fredda', e delle tensioni tra i grandi universi politico-ideologici, ha sprigionato il particolarismo etnico, ridestato singolarità di tradizioni culturali, messo in crisi anche il disegno della Comunità Europea. Si può prevedere che vecchi o nuovi Stati diano mano a codici nazionali, offrendovi testimonianza della propria identità storica. Per altro lato, c'è da replicare al Wieacker che l'idea di codice si è sciolta dall'originario nazionalismo, e che ormai essa designa - come avverte il Mengoni (v., 1994) - una pura forma tecnica, capace di ordinare il diritto e di comporre gli interessi secondo categorie sistematiche. Il senso dell'unità concettuale non si identifica più con il senso dell'unità politica.
Quanto al pathos della solidarietà, esso non è di certo incompatibile con la forma tecnica del codice: principî dello Stato sociale, che non abbiano carattere episodico e frammentario, possono ben acquistare vigore entro le norme del codice. La fonte negoziale delle leggi, indicata ultima dal Wieacker, è vero ostacolo per l'elaborazione di nuovi codici e grave minaccia per i vecchi. Essa soddisfa il problema centrale delle moderne democrazie: che è di costruire il consenso intorno alla legge o, se si vuole, di costruire la legge sul consenso. Questa adesione non riguarda l'intera collettività, quale si esprime nell'esercizio del voto e nel mandato parlamentare, ma specifiche categorie di soggetti. Gli 'interessati', le 'parti' o 'controparti' di singoli problemi, svolgono trattative e raggiungono intese. Lo Stato, che fu o 'parte' del negoziato o spettatore di esso, si limita ad accoglierne i risultati nella forma della legge. Il potere sovrano non decide, ma registra la decisione esterna, sostenuta dal consenso delle parti (v. Bobbio e altri, 1984; v. Forsthoff, 1964, tr. it., pp. 31 ss.; v. Gurvitch, 1942, tr. it., pp. 342 ss.). Il conflitto di interessi si autocompone: la legge ha la forza del contratto (v. Irti, 1986², p. 23). Lo Stato borghese di diritto, fondato sulla neutrale sovranità della legge, cede qui ai caratteri dello Stato democratico: le divisioni della società e gli accordi tra le parti sociali penetrano nelle procedure produttive di norme.
È, questa, una tra le radici o cause storiche della decodificazione (ibid., pp. 3-39; per il dibattito sulla decodificazione v. Caroni, 1988, pp. 96 ss.; v. Schmidt, 1985; v. Castronovo, 1993, vol. II, pp. 475-497), termine tecnico con cui si descrive la fenomenologia della legge contemporanea: la quale, attui principî costituzionali o specifichi criteri di disciplina o registri accordi delle categorie economiche, si svolge al di fuori del codice. Accade che codeste leggi - raggiunto, nel loro iterarsi e stratificarsi, un qualche grado di stabilità - esprimano principî generali, diversi o contrarî a quelli accolti nel codice; e diano quindi luogo a microsistemi, dotati di vigore normativo e provvisti di peculiari linguaggi. Allora, in certe materie o ambiti di rapporti, la disciplina del codice civile degrada a funzione residuale. L'antitesi tra sistema del codice e microsistemi, il conflitto tra principî regolatori, la diversità di metodi interpretativi (organico o frammentario, logico o esegetico), l'incapacità o neutralità del legislatore: tutti questi elementi affidano un'alta responsabilità storica al ceto dei giuristi. Esso è chiamato, da un lato, a comporre nuclei di leggi speciali nell'unità dei microsistemi; dall'altro, a collocare e questi e codice e norme episodiche nell'orizzonte complessivo del diritto statale. Le leggi speciali restituiscono ai giuristi quell'ufficio di sistematizzazione che i codici sembravano aver tolto loro per sempre. Il diritto dei giuristi rinasce (come suole accadere nel corso storico) sulla dispersione frammentaria delle leggi.
Sembra che il nostro discorso, muovendo dal diritto dei codici, si concluda nel diritto dei giuristi, e che Savigny ottenga definitiva e inattesa vittoria nella disputa con Thibaut. Ma la lotta non è più così netta e aspra: i codici sono depositari della tradizione scientifica, e usano quel materiale di concetti e figure tecniche che è proprio della dottrina. Non c'è diversità di linguaggio, ma un parlare unico e continuo, che, raccoltosi appena nella struttura del codice, prosegue poi e si svolge e arricchisce nell'opera dei giuristi. Il diritto dei giuristi ha in sé il diritto del codice, ma pure va oltre di esso: insieme, lo contiene e lo trascende.
I fenomeni di decodificazione e novellazione, dei testi unici e delle leggi speciali, la stessa domanda "L'Europa dei codici o un codice per l'Europa?" (v. Mengoni, 1994, pp. 254 ss.; v. Trabucchi, 1992, pp. 187 ss.; v. Iudica, 1993, pp. 458-473), si risolvono nel diritto dei giuristi (v. Allorio, 1957, pp. 47 ss.; v. Pugliese, 1993, pp. 170-171): cioè, in una nuova e più grave responsabilità della scienza. Il sostegno della codificazione è, e tuttora rimane, nell'autorità dello Stato: nella classe politica che, interprete del sentire collettivo e forte di capacità mediatrice, raccolga e ordini le leggi intorno a una tavola di principî. Né sistema di leggi né classe di governo sono concepibili senza principî, i quali, sostituendo l'argomentare giuridico all'arbitrio dei singoli e alla lotta politica, diano risposta alla domanda di decisione. Orbene, negli anni in cui l'antica tavola di valori è infranta e la nuova fatica a stabilirsi; e fondamenti o miti costitutivi delle repubbliche sono controversi; e la storia stessa delle nazioni viene discussa o riscritta; allora non c'è forse alcuna condizione né per elaborare un codice né per rivedere o modificare il vecchio.
Il ceto dei giuristi, depositario di figure concettuali e categorie sistematiche, si trova solo dinanzi alle leggi. Bisogna mettere ordine nelle cose, cogliere fili sottili di raccordo, raggruppare le leggi con criteri di stabilità e unità. Nel sistema, o nella pluralità di sistemi, le leggi trovano un luogo di ordine e di significati. Le norme più caduche ed effimere sono isolate, e subito si esauriscono nella loro singolarità. (V. anche Costituzioni; Diritto; Giurisprudenza).
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