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Legge elettorale
Le discipline elettorali degli ultimi decenni, volte ad assegnare stabilità all’esecutivo, non hanno assicurato tale esito. La sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, che ha dichiarato incostituzionale la l. 21.12.2005, n. 270 per l’assenza di preferenze e per l’assegnazione di un eccessivo premio di maggioranza, ha introdotto, quale “normativa di risulta”, una legge elettorale proporzionale con preferenza unica. E’ stato avviato l’iter per l’approvazione di una nuova legge elettorale della Camera dei deputati (nella riforma in itinere il Senato diventa non elettivo), senza preferenze e con elevate soglie di sbarramento e premio di maggioranza (che può giungere fino al 15% dei seggi) al raggiungimento di almeno il 37% dei voti (con ballottaggio in caso contrario). La disciplina in itinere appare non sempre conforme alle indicazioni poste dalla sent. n. 1/2014, mentre ricalca l’impianto della l. n. 270/2005 che, oltre alla lesione dei ricordati principi costituzionali, non ha assicurato né stabilità né efficienza del quadro politico.
In Costituzione non si rinviene una esplicita opzione per un determinato sistema elettorale anche se è indubbio che i costituenti presupponessero un sistema di tipo proporzionale. In dottrina si era da tempo affermato (Esposito, Lavagna) che dal principio di democraticità (artt. 1, 48, 49 e 56 Cost.) debba trarsi il principio di “proiettività” secondo cui la composizione degli organi rappresentativi debba avvenire secondo il sistema proporzionale al fine di riflettere i diversi orientamenti presenti nel corpo elettorale.
La mancata “costituzionalizzazione” del sistema elettorale proporzionale ha consentito l’affermazione di contrapposte dottrine fra le quali appare preferibile quella secondo cui l’ordinamento costituzionale, pur non vietando un sistema maggioritario, proibisce l’adozione di sistemi elettorali che impediscano la rappresentanza di consistenti minoranze e che finiscano per sovrarappresentare eccessivamente alcune forze politiche1.
La legge in vigore fino al 1993 prevedeva, per la Camera, un sistema proporzionale a scrutinio di lista, mentre per il Senato era vigente un sistema elettorale misto (con collegi uninominali) che di fatto funzionava secondo una logica proporzionale. Negli anni ottanta cresce un orientamento che vede nel sistema proporzionale un ostacolo all’evoluzione dell’ordinamento verso obiettivi di maggiore efficienza.
Si apre così la stagione dei “referendum elettorali”, tramite i quali,modificando la legge elettorale, si mira a “riformare” l’intero sistema politico-istituzionale.
Nel 1991 è la legge elettorale della Camera ad essere oggetto di referendum nella parte in cui consentiva preferenze plurime e ad un referendum del 1993 (avente ad oggetto la legge elettorale del Senato) si assegna il significato di decisione del corpo elettorale a favore del sistema maggioritario. Viene così approvata una nuova legge elettorale per Camera e Senato (l. 4.8.1993, nn. 276 e n. 277 e d.lgs. 20.12.1993, nn. 533 e 534) basata su un sistema misto prevalentemente maggioritario (il 75% dei seggi assegnato in collegi uninominali) ma con correzione proporzionale (25% dei seggi distribuito con metodo proporzionale).
Con la l. n. 270/2005 viene introdotto un sistema con lista bloccata (cioè senza possibilità di preferenze) con collegi circoscrizionali nei quali la ripartizione dei seggi avviene secondo il sistema proporzionale, ma con premio di maggioranza per la lista (o coalizione) che abbia ottenuto il maggior numero di voti e con diverse soglie di sbarramento.
Notevoli le diversità fra Camera e Senato. Per la prima, l’Ufficio centrale nazionale determina per ciascuna lista (o coalizione) la cifra elettorale nazionale (cioè la somma dei voti ottenuti da ogni lista sul territorio nazionale) ed esclude dalla ripartizione dei seggi le liste che non abbiano raggiunto almeno il 4% dei voti (il 2% se la lista è in una coalizione); indi si divide per 617 la cifra elettorale nazionale delle liste ammesse al riparto ottenendo così il quoziente elettorale nazionale e ad ogni lista è assegnato il numero di seggi pari al quoziente intero risultante dalla divisione della cifra elettorale nazionale di ciascuna lista per il quoziente elettorale nazionale. Al termine di queste operazioni: se una lista (o coalizione) ha conseguito almeno 340 seggi (cioè il 54% dei seggi), il riparto dei seggi fra tutte le liste avviene con metodo proporzionale; qualora invece non si raggiunga tale maggioranza, alla lista (o coalizione) che abbia conseguito il maggior numero di voti viene assegnato un premio (in numero di seggi) pari alla differenza intercorrente tra i seggi acquisiti e 340 seggi (per consentire il raggiungimento del predetto 54%); in questo secondo caso i 277 seggi rimanenti sono assegnati alle restanti liste in proporzione ai voti ottenuti. Anche per il Senato la distribuzione dei seggi avviene secondo il predetto schema, ma il premio di maggioranza è conferito a livello regionale (la soglia di sbarramento è pari all’8% o al 3% se la lista è in una coalizione), sicché il sistema acquista un elemento di imprevedibilità giacché non garantisce che la lista (o coalizione) che abbia raggiunto il maggior numero di voti a livello nazionale abbia anche la maggioranza dei seggi ponendo invece le condizioni perché si abbia un sostanziale pareggio o una maggioranza diversa rispetto alla Camera.
La l. n. 270/2005, pur presentandosi come proporzionale, ha un evidente spirito maggioritario giacché l’assegnazione proporzionale dei seggi rispetto ai voti ottenuti opera solo se una lista o coalizione raggiunga almeno il 54% dei seggi, altrimenti tale risultato viene comunque raggiunto in virtù dell’assegnazione di un premio di maggioranza alla lista (o coalizione) che abbia ottenuto il maggior numero di voti. Questa caratteristica inizialmente (elezioni 2006) ha spinto le forze politiche a formare ampie ed eterogenee coalizioni con gravi difficoltà sulla successiva stabilità dell’esecutivo, mentre nelle elezioni del 2008 i due maggiori partiti, decidendo di non allearsi con alcune forze politiche minori, hanno “condannato” queste ultime a non avere alcuna rappresentanza parlamentare, pur continuando a dar vita a coalizioni eterogenee che infatti (sia quella di maggioranza che di opposizione) si sono progressivamente dissolte durante la legislatura2.
Nelle elezioni del 2013 infine la l. n. 270/2005, fondata su una logica multipartitica ma bipolare, ha confermato la propria inadeguatezza in un sistema multipolare, inadeguatezza peraltro già mostrata in tutte le precedenti elezioni in cui aveva trovato applicazione.
E già da tempo chi scrive aveva manifestato dubbi sulla conformità a Costituzione della l. n. 270/2005, in particolare con riguardo sia all’inesistenza di qualunque soglia minima per l’assegnazione del premio di maggioranza, sia con riguardo all’esito che si produce in ragione della possibilità di pluricandidature all’interno di “liste bloccate”, con il risultato che, successivamente allo svolgimento delle elezioni, sono le segreterie dei partiti a scegliere fra gli eletti, “deviando” la volontà degli elettori con grave ingerenza anche sull’indipendenza dei prescelti.
La dichiarazione di incostituzionalità della l. n. 270/2005 ha aperto numerosi profili problematici relativi, fra l’altro, all’efficacia della stessa e ai vincoli per il legislatore futuro.
2.1 La sent. n.1/2014 e la normativa vigente
Nel maggio 2013 la Cassazione (ordinanza, 17.5.2013, n. 12060) ha sollevato questione di costituzionalità della l. n. 270/2005 con riguardo all’attribuzione del premio di maggioranza e all’esclusione del voto di preferenza, perché manifestamente irragionevoli, lesive dei principi di uguaglianza del voto (art. 48 Cost.), di rappresentanza democratica (artt. 1 e 67 Cost.), nonché del diritto di scelta dei deputati e senatori (artt. 56 e 58 Cost.). Con riguardo al Senato veniva inoltre evidenziato che l’attribuzione del premio di maggioranza a livello regionale aumenta il tasso di “irrazionalità intrinseco” del meccanismo.
Problematici apparivano i profili di ammissibilità di tale giudizio con riferimento sia alla rilevanza delle questioni di costituzionalità (in ragione del nesso di pregiudizialità che deve intercorrere fra la questione di costituzionalità ed il petitum del giudizio principale), sia alla natura della legge elettorale quale legge “costituzionalmente necessaria” (di cui dunque non sarebbe possibile la mera espunzione dall’ordinamento). La Corte supera lo scoglio dell’ammissibilità con un raffinato percorso argomentativo riscontrando che dinanzi al giudice a quo è stata proposta un’azione di accertamento finalizzata ad acclarare la portata del diritto di voto quale “diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione” e che le questioni relative alla legge elettorale, ponendo questa le regole relative alla composizione del Parlamento (organo essenziale per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo), non possono essere escluse dal sindacato di costituzionalità. E la scelta della Costituzione, che ha lasciato alla discrezionalità del legislatore l’opzione del sistema elettorale, non può comportare che il sistema elettorale possa ritenersi “esente da controllo”.
La Corte (che già aveva rivolto “moniti” al legislatore) sottopone dunque le impugnate disposizioni ad uno scrutinio “di proporzionalità e di ragionevolezza”.
Per la Corte infatti l’obiettivo di assicurare la stabilità dell’esecutivo, se costituzionalmente legittimo, non può essere perseguito mediante un meccanismo premiale che non si limita ad introdurre un correttivo al sistema di trasformazione dei voti in seggi, ma che finisce per rovesciare la ratio stessa della formula elettorale (proporzionale) prescelta dalla legge del 2005 (e che deve essere volta ad “assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare”).
L’assegnazione di un premio di maggioranza indipendentemente dai voti ottenuti finisce per dar vita ad una “eccessiva divaricazione” tra la composizione del Parlamento (“organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione”) e la volontà dei cittadini (quale “principale strumento di manifestazione della sovranità popolare”) con conseguente alterazione del circuito democratico. La mancata previsione di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione) di maggioranza relativa, consente una “illimitata compressione” della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali che vedono il Parlamento sede esclusiva della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.) e a cui sono affidate fondamentali funzioni costituzionali. Queste argomentazioni crescono di consistenza con riguardo alle disposizioni relative al Senato ove l’attribuzione del premio di maggioranza su scala regionale produce l’effetto di un “risultato casuale di una somma di premi regionali”.
Con riguardo alla preferenza, per la Corte la lesione del diritto di voto (e del principio democratico) risiede nella sottrazione all’elettore, con riguardo alla “totalità dei parlamentari eletti”, di ogni facoltà di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, ferendo la logica della rappresentanza e coartando la libertà di scelta degli elettori.
La sentenza 13.1.2014, n. 1 dichiara incostituzionale la l. n. 270/20053 con riguardo al conferimento del premio di maggioranza indipendentemente dalla percentuale dei voti ottenuti e alla assoluta mancanza per gli elettori di una possibilità di scelta fra i vari candidati delle singole liste. Tale dichiarazione di incostituzionalità non determina la caducazione dell’intera legge elettorale la quale (depurata dalle norme dichiarate incostituzionali) non solo resta in vigore, ma continua “a garantire il rinnovo” dell’organo parlamentare giacché l’eliminazione del premio di maggioranza lascia operante il meccanismo di trasformazione proporzionale dei voti in seggi (per l’attribuzione di tutti i seggi), in relazione a circoscrizioni elettorali che rimangono immutate.
Inoltre (secondo la Corte) la dichiarazione di incostituzionalità ha l’effetto anche di consentire un voto di preferenza. A questo proposito la Corte dichiara che “eventuali apparenti inconvenienti” nel riconoscimento all’elettore di un voto di preferenza, comunque «non incidono sull’operatività del sistema elettorale» e ben possono essere risolti mediante l’interpretazione delle norme vigenti alla luce di quanto dichiarato nella sent. n. 1/2014 o mediante interventi normativi secondari (“meramente tecnici ed applicativi” della pronuncia della Corte).
Molto si è discusso (in dottrina e nel dibattito politico) circa una “delegittimazione” del vigente Parlamento in conseguenza della dichiarazione di incostituzionalità della legge in base alla quale il medesimo è stato formato, ma è stata la stessa Corte ad assegnare effetti solo pro futuro alla propria sentenza, la quale (precisa la Corte) «produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camera». Per la Corte, la dichiarazione di incostituzionalità non incide sugli atti posti in essere durante il vigore delle norme annullate (dagli esiti delle elezioni già svolte agli atti adottati dal Parlamento) in quanto “fatto concluso”, né può ritenersi “ridotta” l’operatività del Parlamento fino alle prossime consultazioni elettorali in ragione del “principio fondamentale della continuità dello Stato” essendo le Camere organi costituzionalmente necessari ed indefettibili di cui non è pensabile la cessazione di esistenza o la perdita della capacità di deliberare.
2.2 La riforma in itinere
In base ad un accordo fra le maggiori forze politiche, alla Camera è stato approvato (marzo 2014) il disegno di legge “Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati” (il Senato nella riforma costituzionale in itinere diventa non elettivo), in base al quale l’elezione dei deputati avviene mediante liste concorrenti in collegi plurinominali (da tre a sei seggi) riuniti in circoscrizioni elettorali. A questo fine si prevede il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei collegi plurinominali che devono corrispondere “di norma” all’estensione territoriale della provincia (anche se proprio l’istituzione provinciale è in corso di soppressione!).
Il sistema elettorale resta nominalmente di tipo proporzionale,ma con l’attribuzione di un premio di maggioranza (fino al 15% dei seggi) qualora una lista o una coalizione abbia conseguito un numero di voti pari almeno al 37% del totale nazionale. In caso contrario si ricorre ad un turno di ballottaggio nel quale non sono consentiti ulteriori apparentamenti. Dal punto di vista della rappresentanza di genere, è previsto che a livello circoscrizionale per ciascuna lista nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore al 50% e che nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali non possono esservi più di due candidati consecutivi del medesimo sesso. Pur prevedendosi l’indicazione dei nominativi dei candidati sulla scheda (che nelle ultime elezioni era già di notevoli dimensioni), non vi è possibilità di preferenza ed anzi il disegno di legge precisa che se l’elettore traccia un segno sul nominativo di un candidato “il voto è comunque attribuito alla lista” (che resta bloccata ed in cui l’assegnazione dei seggi avviene secondo l’ordine numerico dei candidati).
Con riguardo alle pluricandidature, si pone il tetto del numero massimo di otto collegi in cui un candidato possa essere contemporaneamente candidato.
Con riguardo alla soglia di sbarramento, al riparto dei seggi sono ammesse le coalizioni che abbiano raggiunto almeno il 12% dei voti e che contengano almeno una lista che abbia conseguito sul piano nazionale almeno il 4,5% dei voti oppure le liste non collegate che abbiano conseguito sul piano nazionale almeno l’8% dei voti, nonché le liste delle coalizioni che non hanno superato la percentuale del 12% ma che abbiano conseguito sul piano nazionale almeno l’8%.
Bisogna aggiungere che il testo, approvato dalla Camera (e che è attualmente all’esame del Senato) è oggetto di ampia discussione all’interno delle forze politiche (anche di maggioranza) anche se con riguardo non all’impianto di base della legge, ma alle varie soglie (premio di maggioranza, clausole di sbarramento ecc.) e alla possibilità dell’introduzione delle preferenze.
L’analisi delle discipline succedutesi negli ultimi decenni e delle dinamiche della forma di governo dimostra come ilmito della “governabilità” impedisca di vedere che è proprio il sistema maggioritario (che impone coalizioni disomogenee) a determinare instabilità, mentre il sistema proporzionale abitua le forze politiche a riconoscere che la vita politica non si esaurisce nel momento elettorale. Nel discorso tenuto in occasione della rielezione, il Presidente della Repubblica Napolitano ha giustamente definito una forma di regresso culturale l’approccio tendente a vedere negativamente e a “bollare” come “inciucio” ogni accordo fra maggioranza e opposizione, ma bisogna aggiungere che tale esito è frutto proprio di un ventennio di “maggioritario coatto” che ha disabituato le forze politiche (e anche l’opinione pubblica) alla virtù del confronto e del compromesso. All’obiezione (ricorrente nei confronti del sistema proporzionale) del rischio della paralisi decisionale è facile replicare che nei due decenni di maggioritario tale esito non è stato comunque raggiunto a dimostrazione che le ragioni della frammentazione politico-partitica non attengono al sistema elettorale.
Appare inoltre evidente l’erroneità dell’approccio che crede di poter incidere sulle dinamiche istituzionali semplicemente cambiando la formula elettorale ignorando le ragioni più profonde che muovono gli assetti politici, sacrificando invece sull’altare della (comunque non raggiunta) “governabilità” esigenze fondamentali quali la tutela delle minoranze, del pluralismo e degli istituti di garanzia. Anche la Corte costituzionale, nella sent. n. 1/2014, ha precisato che l’obiettivo della stabilità dell’esecutivo non può determinare una eccessiva compressione della rappresentanza politica e dell’eguale diritto di voto, pena il rischio di dar vita ad una “alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”.
1 Così Politi, F., Diritto pubblico, Torino, 2013 (ma v. già edizione del 2010, 123).
2 Sul rapporto fra sistema elettorale e gruppi parlamentari v. in questa Sezione, 1.1.4 Gruppi parlamentari e partiti politici.
3 Tale pronuncia ha ricevuto ampi commenti in dottrina: v., per tutti, i commenti apparsi in Rivista Aic in www.associazionedeicostituzionalisti.it.