LEBENA (Λεβήν, Lebena)
Città situata nella parte meridionale dell'isola di Creta, sul golfo libico, tra il Capo Leon e la Punta Psamidomuri, in una conca riparata da ogni parte dai monti e aperta verso S, nel luogo della odierna Λέντας. Fu emporium di Gortina, a cui la sua storia è legata: non batté infatti moneta e quindi non ebbe autonomia politica; nel 219 circa a. C. fu occupata dai rivoluzionarî di Gortina (Polib., iv, 55, 6).
Il nome sembra essere pregreco. Ricordata da Strabone (x, 478), Plinio (Nat. hist., iv, 12, 59), Tolomeo (Geog., iii, 15,3), Filostrato (Apoll. Tyan., iv, 34) e dai tardi itinerarî, era stata identificata fin dal 1586 dal veneto O. Belli, che ne aveva percorso il territorio.
Gli scavi condotti nel 1900 e nel 1910 dalla Missione Italiana, avevano messo in luce solo la città ellenistico-romana con l'importante santuario di Asklepios. Ma, recentemente, ulteriori e fortunati scavi (1958-1960) da parte dei Greci, hanno portato alla scoperta di una finora sconosciuta città che si deve identificare con la L. minoica, situata su di una bassa collina connessa col Capo Leon. Le abitazioni, di cui si possono vedere resti di muri, circondavano la collina dove si sono trovati anche cocci e pietre lavorate di età preistorica sparse in superficie.
La città deve essersi costituita probabilmente nell'Antico Minoico, sopravvivendo nel Medio Minoico. La datazione è confermata e precisata dal ritrovamento di tombe intatte appartenenti appunto al periodo Minoico Antico, l'importanza delle quali è accresciuta anche dal fatto che esse offrono la possibilità di studiare, nella loro successione stratigrafica, i rinvenimenti, ricchissimi, perché le tombe restavano in uso a lungo.
La prima di queste tombe, esplorata nel 1958, è situata ad O del picco roccioso del Capo Leon. Di forma circolare, con un diametro interno di m 5 ed una entrata ad E chiusa da una lastra di pietra trovata in loco, conteneva, oltre alle ossa sovrapposte delle sepolture successive, offerte funerarie, consistenti in rasoi di ossidiana, vasi, sigilli in gran numero, collane di steatite e grani di faïance. Il ritrovamento più prezioso è un diadema d'oro con pendenti. Importante dal punto di vista cronologico è il ritrovamento di uno scarabeo egiziano, databile alla XII dinastia (1991-1778), trovato in un vaso attribuibile al Medio Minoico I.
Gli scavi del 1959, ugualmente fruttuosi, hanno portato alla scoperta, circa tre miglia a O del Capo Leon, di una costruzione monumentale, sempre del periodo Minoico Antico, consistente in tombe circolari adiacenti e in una serie di vani rettangolari esterni, che devono essere serviti al culto dei morti.
La maggiore delle tombe ha un diametro interno di circa 5 metri. Era originariamente coperta da una vòlta, le cui pietre, cadute probabilmente insieme, sono state trovate ancora nel loro originario ordine circolare. Anche l'insoluto problema della forma di copertura di questo tipo di tombe, è quindi stato chiarito da queste ultime scoperte.
La tomba fu usata per circa 500 anni: lo si deduce dalla grande differenza che intercorre tra la ceramica trovata negli strati superiori e quella degli strati inferiori. I vasi più antichi, a contatto col pavimento, che mostrano i caratteri della ceramica subneolitica, sono seguiti da ceramica dell'antico stile minoico di Pyrgos e Haghios Onuphrios, che offre una variata serie di forme plastiche. Gli strati successivi danno ceramica del cosiddetto stile di Vasiliki; gli ultimi oggetti posti nella tomba appartengono agli inizî del Medio Minoico. Anche gli altri ambienti rettangolari hanno dato materiale ceramico in gran parte dello stile di Vasiliki.
Nell'altra tomba rotonda, che giace vicino alla precedente, ma è più piccola, gli strati di ossa bruciate, forse per facilitare l'uso successivo della tomba stessa, sono separati da strati di sabbia; in tal modo sono nettamente distinguibili due periodi: l'Antico Minoico II e il Medio Minoico I (l'Antico Minoico III dell'Evans è completamente mancante in tutte tre le tombe di Lebena).
Altri due scarabei, non più antichi della XII dinastia, provengono dagli strati superficiali di questa tomba.
Il complesso di costruzioni che si riunisce intorno al tempio di Asklepios, non può invece risalire, nel suo impianto, oltre il IV sec. a. C. circa, data a cui va attribuita la fondazione del santuario che, completamente distrutto, forse durante il terremoto del 46 d. C., fu totalmente ricostruito in epoca romana.
Esso fu fondato dai Gortinî che importarono il culto da Epidauro o, secondo una tradizione meno probabile, dalla città cirenea di Balagre.
Il tempio, costruito su una spianata artificiale, nella parte centrale della conca che si apre sulla baia, sostenuta da un terrapieno e da un muro di terrazzamento, era orientato verso E.
I muri della cella, addossati alla roccia scavata a vano quadrangolare, conservati fino all'altezza di m 3,40, sono di conglomerato rivestiti con laterizi su cui si sovrappongono lastre di marmo bianco venato, simili a quelle che ornavano la parte centrale del pavimento, il quale era incorniciato da un mosaico tra le pareti e le colonne di cui due sole sono conservate davanti alla parete di fondo. La copertura era impostata all'altezza di m 3,50 (si conserva l'attaccatura esterna in calcestruzzo).
Alla parete di fondo della cella si appoggia un basamento rivestito di pietre squadrate su cui sono state applicate lastre di marmo bianco e che, probabilmente, deve essere servito di sostegno alle statue di culto di Igea e Asklepios. Davanti a questo basamento le due colonne rimaste, alte m 4,70, presentano un solco verticale dalla parte dell'intercolumnio dove probabilmente si incastrava una transenna.
Accanto alla colonna di sinistra restano due basi in marmo bianco, una delle quali sosteneva la statua di Asklepios offerta da un tale Xenion, non si sa se dedicante o scultore, che è stato posto in rapporto con l'omonimo Xenion che pose la sua firma sul basamento marmoreo che sosteneva le statue di M. Aurelio e L. Vero nel Capitolium di Cirene. I rapporti, testimoniati anche dalle fonti, tra L. e Balagre, città cirenea, potrebbero dare credito a questa ipotesi.
Dalla parete settentrionale del tempio si dipartono due muri paralleli, lunghi circa 27 m, distanti fra loro m 4,30, probabilmente un portico con annessi vani per i sacerdoti e il personale del tempio, come fanno supporre le tre soglie conservate e l'anta di testata a N, in laterizio, la base marmorea di una colonna e le fondamenta in calcare di altre basi.
Sotto questo portico occidentale, a N-E del muro della cella, a m 1,50 di profondità si scoprì un mosaico, formato di ciottoli neri e rossi su fondo a ciottoli neri, diviso in due riquadri: l'uno ornato di un cavallo marino incorniciato da una zona di spirali ricorrenti, l'altro da due grandi palmette che si elevano dal mezzo di spirali divergenti. Si può datare al periodo ellenistico e il paragone più vicino è il mosaico del pronao del tempio di Giove ad Olimpia.
Questo pavimento in mosaico, danneggiato già in antico, copriva la bocca del più antico "tesoro", il quale è un pozzo quadrangolare di m 0,95 di lato, profondo m 1,90, rivestito con sette filari di blocchi calcarei squadrati; il sesto, sporgendo di m 0,10, sosteneva il filare di chiusura circolare, fornito di battente su cui posava il blocco cilindrico che serviva da coperchio e che era fornito, in basso, di due sporgenze che si incastravano in due analoghe rientranze dell'imboccatura. Il coperchio, rotto da antichi violatori, fu trovato in fondo al pozzo. Molti blocchi sono marcati con la lettera A (forse l'iniziale del nome del dio) di carattere arcaico, sebbene la costruzione non sia più antica dell'iscrizione dedicatoria (II-I sec. a. C.) incisa in caratteri tardo-ellenistici su due lastre di pietra, che appartenevano al tesoro stesso.
Al tempio e all'annesso portico si saliva da E mediante un'unica grandiosa scalinata marmorea lunga circa 35 m di cui restano solo otto gradini all'estremità settentrionale. Questa scalinata è limitata verso N da un muro obliquo che va in direzione N-O S-E e forma la parete di fondo di un altro portico (m 18 × 5,10 circa) di cui si conservano lo stilobate, alcune basi in marmo bianco, tronchi di colonne in cipollino, resti di lastre di rivestimento marmoreo: era forse l'àdyton o l'àbaton riservato ai soli fedeli. Frammenti epigrafici qui trovati, che si datano ad un periodo precedente a quello romano e menzionano una stoà, fanno supporre che questa costruzione sia anteriore al tempio quale noi lo vediamo, e che, dopo gli ultimi restauri, sia stato incorporato nel tempio nuovo. Questo giustificherebbe anche la sua diversa orientazione rispetto agli edifici occidentali.
Attraverso una porta questa stoà comunicava con un vano provvisto di acqua e ornato all'esterno di due absidi in laterizio (ninfeo?).
A circa m 4,50 a S del muro di terrazzamento del tempio scorreva una fonte a cui forse erano attribuite virtù terapeutiche: essa era sistemata architettonicamente con una facciata di blocchi calcarei interrotta da un archivolto in laterizio. Poco più a S della fonte, e forse in connessione con essa, si trovano alcune grandi vasche rivestite di laterizi, allineate in direzione E-O, due delle quali, attigue e comunicanti, erano adatte per bagni ad immersione completa.
Verso S-O, per circa cento metri, corrono i resti di due muri paralleli, distanti 10 m uno dall'altro, divisi, mediante muri trasversali, in piccoli ambienti rettangolari aperti verso il mare. Il muro di facciata era adorno di mezze colonne aggettanti in laterizio; l'edificio, che forse doveva servire di alloggio per malati e pellegrini, terminava ad O con una terrazza belvedere di 12 m di diametro.
Più vicino al mare, nell'angolo occidentale della baia, si trovano resti non bene identificati di un edificio rettangolare (m 32 × 20) a cui si appoggia una costruzione moderna.
Il corso di uno dei tre torrenti che attraversano la baia, e precisamente quello che sfocia nel mare ad E, doveva essere antico, perché conserva tracce delle testate di un ponte.
Al di là del ponte e più vicino al Capo Psamidomuri, sorge la chiesa greca di Haghios Joannis, del XIV-XV sec., vicino alla quale si sono trovati resti di una chiesa bizantina anteriore al IX sec. che riutilizzava in massima parte colonne e capitelli del santuario di età romana.
Quasi tutti questi resti si datano in età romana; del santuario più antico, del IV sec. circa, non si vedono vestigia, tuttavia ad esso o all'àdyton appartenevano i blocchi iscritti a cui i sacerdoti affidavano le ricette o il racconto delle cure prodigiose, trascrivendole dalle tavolette di legno offerte dai fedeli.
Bibl.: F. Halbherr, in Rend. Accad. Lincei, 1901, p. 300 ss.; G. G. Porro, in Studi Romani, II, 1914, p. 373 ss.; E. Kirsten, in Pauly-Wissowa, supp. VII, 1940, cc. 336-371, s. v.; M. Guarducci, Inscr. Cret., I, 1935, p. 150 ss.; L. Pernier-L. Banti, Guida degli scavi italiani in Creta, Roma 1947; S. Alexiou, in Arch. Anz., 1958, 1-9; id., in Ill. London News, agosto 1960, pp. 225-227; Bull. Corr. Hell., LXXXIV, 1960, p. 844 ss.