Leandro Alberti e Girolamo Borgia
I rapporti di Giovio con Leandro Alberti (Bologna 1479-forse ivi 1552) sono stati oggetti di rilettura recente. L’autore della Descrittione di tutta Italia, avviata intorno al 1530, domenicano, divenuto inquisitore nel 1544, fu in gioventù tra i collaboratori di Giovanfrancesco Pico, e volgarizzò (1524) l’infame libretto Strix con il quale il principe filosofo difendeva le sbrigative condanne a morte comminate a Mirandola negli anni 1522-23. L’esame di una lettera di Giovio (1543, con quella sua tagliente e icastica definizione di Alberti, «dolce cosmografo e brusco inquisitore, leccardo del arrosto di carne umana») e della sottile rete di allusioni che vi affiora, mostra che Giovio era al corrente dei fatti di Mirandola e del ruolo in essi svolto da Alberti; inoltre, l’espressione «dolce cosmografo» rivela contezza non solo della gestazione di un’opera come la Descrittione, la cui pubblicazione avverrà solo nel 1550, ma anche dei rapporti di Alberti con la cerchia di Alessandro Manzoli, nella quale non mancavano spiriti forti, dalle evidenti tinte erasmiane. Gli interessi corografici di Giovio, sfociati nelle Descriptiones, dovettero propiziare tra di loro una circolazione di testi: lo provano due citazioni del Larius, ancora inedito, nella Descrittione. Ma mentre nella chorographia di Giovio le vicende degli uomini sono il fuoco dell’ellisse anche quando si descrive un territorio, nella corographia di Alberti il territorio è al centro anche quando egli ‘destratifica’ la vicenda civile di un insediamento urbano.
Plurime e iterate furono invece le intersezioni biografiche tra Girolamo Borgia e Giovio. Nato nel 1479 a Senise, da famiglia filoaragonese, allievo di Giovanni Pontano, giovane precettore di Francesco Ferdinando d’Avalos, prese parte nel 1503 alla guerra tra francesi e spagnoli, entrando al servizio di Bartolomeo d’Alviano, che seguì in Veneto. Membro del cenacolo intellettuale promosso da questi, nel quale spiccava Marco Musuro, dopo Agnadello Girolamo tornò a Napoli, ove si legò nuovamente alla famiglia d’Avalos e, dopo un breve soggiorno romano, alla famiglia Farnese. A Napoli rimase in stretto legame con la cerchia ischitana raccolta intorno a Vittoria Colonna, ma anche in rapporto d’amicizia con Paolo III Farnese, cui nel 1544 dedicò il manoscritto delle Historiae, venendo compensato con il vescovado di Massalubrense. Morì nel 1550, forse a Napoli.
Tuttora inedite, le Historiae di Borgia sono tramandate da due manoscritti che si integrano, con parziale sovrapposizione: un codice della Biblioteca Marciana di Venezia (libri I-XII, XVI-XVIII) e uno della Biblioteca Apostolica Vaticana (libri XIII-XXI). Scritte in latino, coprono il medesimo arco temporale delle Historiae gioviane, dalla discesa di Carlo VIII nel 1494 alla battaglia di Mühlberg nel 1547. Tra le due opere sono state individuate incontestabili tangenze, anche se entrambe richiederebbero un’indagine che le inscriva entro una più larga circolazione di testi tra storici legati da relazioni personali: ne è prova la guicciardiniana Storia d’Italia, nel tessuto della quale è stato ipotizzato il riuso di materiali gioviani e sono presenti estratti borgiani (del pari, dichiarata è la rielaborazione, nelle Historiae di Borgia, del De bello italico di Bernardo Rucellai). Appare, dunque, prematura la tesi che Giovio abbia utilizzato (seppur limitatamente all’impresa di Tunisi) le Historiae di Borgia. Nel valutare l’ipotetica mutuazione gioviana occorre considerare il ben noto ruolo di Giovio nella ripresa dell’attività storiografica di Borgia nel 1535, e l’accesso, a quest’ultimo consentito, al libro gioviano, allora iniziato, sull’impresa di Tunisi. Nulla prova il fatto che Borgia abbia concluso la propria opera prima di Giovio. Semmai, di una larga accessibilità dei manoscritti gioviani a Borgia potrebbero essere indizio aspetti delle Historiae de bellis italicis che trovano sorprendente consonanza con il gioviano Dialogus, composto a Ischia negli anni 1528-1529, ma rimasto ‘cantiere aperto’ per almeno un decennio.