Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’Europa dell’Ottocento l’ambiente fisico viene profondamente trasformato. Crescono ovunque città di diversa grandezza e nei Paesi più sviluppati, per la prima volta, fabbrica e città insieme creano ampie distese dalle quali è bandita ogni parvenza di naturalità. Nelle campagne la coltivazione si estende, divenendo sempre più intensa e diversificata.
Rivoluzione industriale e crescita urbana
Nel XIX secolo le trasformazioni dell’ambiente fisico europeo risultano incomprensibili senza fare riferimento alla rivoluzione agricola e alla rivoluzione industriale. I processi investono l’Europa proprio in questo secolo – eccettuata la Gran Bretagna che ha conosciuto questo fenomeno già nel Settecento – e in molte zone europee si realizzano solo nel secolo seguente.
La rivoluzione industriale implica per definizione il passaggio di una quota rilevante della popolazione ad attività non agricole; ma tale passaggio è possibile se e dove si ha un incremento di produttività dell’agricoltura, in modo tale che nel complesso i coltivatori possano nutrire con il loro lavoro un numero crescente di non coltivatori: siano questi addetti ad attività industriali di fabbrica o artigianali, di commercio o servizio.
Le città attirano al loro interno o nelle immediate vicinanze una parte preponderante del lavoro non agricolo, anche se in molte campagne europee esiste un’antica tradizione manifatturiera, articolata su una miriade di laboratori o sul lavoro a domicilio; così, nel corso dell’Ottocento, la popolazione urbana nel suo insieme aumenta a livelli mai visti. Anche i secoli precedenti hanno visto il sorgere in Europa di grandi città, ma si tratta di casi isolati (ad esclusione delle Fiandre e dell’Italia del centro-nord), spiegabili con un accentramento del tutto eccezionale di funzioni politiche, commerciali o manifatturiere. Comunque i valori di punta registrati qualche secolo addietro – come gli strabilianti 200 mila abitanti di Milano nel XIV secolo – a fine Ottocento riguardano decine di città europee, per effetto di un moto generale di crescita che coinvolge centri piccoli, medi e grandi; mentre la popolazione di Londra, la prima città d’Europa, conta entro i soli confini amministrativi 4 milioni e mezzo di abitanti.
Già in termini generali, l’incredibile aumento della popolazione nei centri urbani permette di comprendere il forte impatto fisico sul territorio: il fenomeno richiede la formazione di nuove e ampie appendici urbane, per abitazioni, manifatture e, a partire dal 1830, scali ferroviari; dove esistono, le antiche mura urbane vengono perlopiù demolite e in ogni caso il loro tracciato viene travalicato più o meno ampiamente.
Se considerato sull’intero arco dell’Ottocento, questo processo interessa pressoché tutto il territorio europeo, comprese le zone in ritardo nella crescita economica, come l’Europa orientale e meridionale: tali aree vengono coinvolte nella seconda metà del secolo, forse con l’unica eccezione del Portogallo. Tuttavia nell’est e nel sud d’Europa, e in porzioni rilevanti degli stessi Stati all’avanguardia nell’industrializzazione, la crescita si attua in modo da confermare, eventualmente potenziandola, la trama urbana ereditata dai secoli passati; in alcuni casi essa decreta la preminenza di alcuni centri nel quadro regionale (è il caso in Italia di Bologna o di Bari), ma non arriva a sconvolgere la trama urbana fino a renderla illeggibile. In altre aree dei Paesi sviluppati esiste invece un secondo e più radicale tipo di impatto, per spiegare il quale è necessario riferirsi ad altri caratteri economici e tecnici del processo di industrializzazione.
La concentrazione spaziale dell’industria: ragioni e conseguenze
Nel Paese culla della rivoluzione industriale, la Gran Bretagna, la prima fase della crescita avviene precocemente, quando l’industria tessile è ancora l’attività trainante rispetto alla metallurgia, e quando l’applicazione dell’energia meccanica all’industria è episodica. Ma già in questa fase la potenza del processo permette di cogliere casi di addensamento fisico di attività e di uomini che alterano i tradizionali rapporti fra città e campagna: per esempio, la produzione di cotone e di lana provoca la crescita abnorme non solo di Manchester e Leeds, ma anche di miriadi di villaggi rurali delle rispettive contee che si popolano di lavoranti a domicilio.
Con l’avvento del sistema di fabbrica e l’applicazione sistematica dell’energia meccanica alla produzione, tale addensamento riceve una spinta mai sperimentata prima, né dopo, che introduce studiosi come Patrick Geddes e Lewis Mumford a individuare proprio nella concentrazione fisica il carattere di fondo di una specifica fase dell’organizzazione del territorio, da essi definita “paleotecnica”. Il nodo della questione è in alcuni vincoli tecnici della principale fonte di energia ottocentesca, la macchina a vapore. Essa vede decrescere il proprio rendimento (già basso) in misura più che proporzionale al decrescere delle dimensioni; d’altra parte l’energia così prodotta è pressoché intrasportabile. Ne deriva da un lato la convenienza all’impiego nell’industria di macchine a vapore della massima potenza possibile, dall’altro la necessità per tutti i reparti produttivi dipendenti da ciascuna macchina di situarsi entro un raggio massimo di quattrocento metri da essa (distanza a cui la forza motrice può essere trasferita mediante alberi e cinghie di trasmissione), da cui consegue una spinta alla concentrazione del maggior numero possibile di lavorazioni in spazi ristretti.
Gli effetti così prodotti alla scala delle singole fasi o cicli di produzione sono poi moltiplicati dalla tendenza all’intasamento dello spazio espressa a un’altra scala: quella regionale. Fino al XVIII secolo, la collocazione delle manifatture seguiva infatti la geografia di fonti di energia relativamente diffuse sul territorio, come l’acqua e il legno, mentre per le lavorazioni usufruenti di solo lavoro umano seguiva la disponibilità di manodopera, anch’essa relativamente ben distribuita. Con l’avvento della macchina a vapore viene invece selezionato un numero assai più ristretto di siti adatti, ossia quelli che permettono il facile approvvigionamento del combustibile più efficiente, il carbon fossile; quindi in primo luogo i distretti carboniferi e in subordine i siti con importanti facilitazioni di trasporto (porti, fiumi, canali navigabili e ferrovie).
I luoghi che consentono importanti facilitazioni di trasporto coincidono in buona parte con le aree urbane. Le città, d’altra parte, hanno di frequente una solida tradizione protoindustriale (casi illustri sono quelli di Sheffield, Lione e Solingen) e una buona disponibilità di manodopera. Tutti questi vantaggi aumentano il ruolo delle aree urbane come poli di localizzazione industriale rispetto ai secoli precedenti; ma dove i vantaggi generali si cumulano con quelli speciali – come la presenza di carbon fossile – la crescita diviene abnorme e la rete urbana preesistente viene alterata, fino a perdere le tracce di un ordine definito nell’arco dei secoli. In queste aree sorgono fitte agglomerazioni in spazi ristretti che, fondendosi anche fisicamente in una sorta di supercittà, nel 1915 ispireranno a Geddes l’uso del termine “conurbazioni”.
Le aree carbonifere vedono il loro ruolo esaltato dall’attrazione che esercitano sull’industria trainante del secolo: la siderurgia. In effetti tale attività tende a localizzarsi sui giacimenti di carbone piuttosto che su quelli di ferro, a meno che non si frammettano ostacoli come i confini statali (è il caso della Lorena che per il trattamento del suo ferro attinge carbone dalla Saar, cioè da una regione che prima del 1870 è oltre confine).
È in seguito a questi vincoli che in Gran Bretagna, soprattutto nella prima metà del secolo, e nell’Europa continentale, soprattutto tra il 1850 e il 1870, si definiscono una serie di aree in cui la concentrazione fisica delle industrie e della popolazione rivoluziona gli assetti precedenti. In molti casi, tali aree industriali sono destinate a rimanere le principali dei rispettivi Paesi fino alla metà del XX secolo e oltre, nonostante dopo il 1890-1900 in campo energetico si diffondano innovazioni che permettono una libertà localizzativa molto maggiore, quali l’energia elettrica e il motore a combustione interna. Si tratta, in Gran Bretagna, di alcuni distretti tessili (in particolare quello di Manchester, il primo del mondo) e poi dei distretti carboniferi e siderurgici del Galles meridionale, del Black Country di Birmingham, del bassopiano centrale scozzese intorno a Glasgow; un po’ più tarda la crescita dei distretti dell’Inghilterra di nord-est (tra cui le contee del Tyne, di Durham e Cleveland) e di nord-ovest (nord del Lancashire). I distretti scozzese e inglese di nord-est ricevono poi un’ulteriore spinta all’urbanizzazione dalle concentrazioni di industria chimica.
Nell’Europa continentale l’esempio più impressionante è quello della regione renano-vestfalica, con i filoni carboniferi del bacino della Ruhr che ancora verso il 1840 giacciono in quantità insospettate sotto i verdi campi della regione, e che verso il 1870 si presenta già come la massima concentrazione industriale d’Europa. Qui l’estrazione di carbone si moltiplica per sette nel ventennio antecedente al 1869, permettendo una crescita spettacolare della produzione siderurgica (da 5 mila tonnellate a 227 mila fra il 1852 e il 1860), meccanica e chimica, e fornendo energia per la crescita di altre industrie, come quelle tessili.
Ma, fra 1850 e 1870, la crescita mineraria e siderurgica ha un impatto territoriale rilevantissimo anche in Belgio, lungo l’asse da Mons a Liegi, attraverso le valli della Sambre e della Mosa, e in Francia, nei dipartimenti del Nord e di Calais (che con il Belgio e la Vestfalia formano un’enorme regione industriale quasi continua) e della Lorena. L’impatto industriale sul territorio continentale è invece più tardo, come la crescita (dopo il 1860) dell’antico distretto carbonifero e metallurgico dell’alta Slesia per la maggior parte posseduto dalla Germania, ma che nell’Ottocento ricade anche nei territori di Russia e Austria; o come il bruciante decollo della chimica a partire dal 1870 nei territori tedeschi del medio e basso Reno (Ludwigshafen, Leverkusen) e nell’area di Basilea. Ancor più tarda (verso il 1890) è la formazione di un’altra regione industriale densa, radicata sul carbone del Donez e sul ferro del Krivoj Rog, in Ucraina.
Si tratta di aree in cui l’impatto fisico delle nuove produzioni è pesantissimo, più di quanto non appaia oggi, dopo le riconversioni e i restauri ambientali che in molti casi hanno avuto luogo: fabbriche, scali ferroviari, abitazioni operaie, impianti minerari, accumuli di detriti si susseguono caoticamente e spesso senza soluzione di continuità. Tale concentrazione, unita alla mancanza di efficaci contromisure, induce gravi compromissioni ambientali, dell’acqua, dell’aria e del suolo (per non parlare della qualità delle abitazioni); e anche se nell’Ottocento interessano spazi ancora percentualmente limitati dell’Europa, si tratta di spazi in cui vive una quota di popolazione continuamente crescente. Gli effetti della crescita repentina di ambienti urbano-industriali con una pessima qualità della vita sono vistosi in Gran Bretagna nella prima metà dell’Ottocento, e ne abbiamo documentazione impressionante da inchieste pubbliche e private dell’epoca (notissima quella condotta da Friedrich Engels tra il 1842 e il 1844); e anche lo sviluppo più tardo non risparmia tali effetti alle altre agglomerazioni. Nel bacino della Ruhr l’acqua del fiume Emscher, appestata oltre ogni immaginazione dai rifiuti industriali lungo decine di chilometri, è definita in un’inchiesta all’indomani dell’epidemia di tifo del 1901 “il più disgustoso liquido del mondo”.
Le trasformazioni della copertura vegetale: lo spazio agricolo
La crescente domanda di prodotti agricoli – alimentari e non – della popolazione europea, in forte aumento dal 1750 in poi, nella prima metà del secolo XIX si indirizza in gran parte all’interno dell’Europa stessa. Le operazioni a cui lo spazio agricolo viene sottoposto per far fronte a tale domanda sono di due tipi (dei quali comunque l’uno non esclude l’altro).
Il primo è quello dell’estensione della superficie messa a coltura; la scelta viene praticata soprattutto nelle aree relativamente poco popolate d’Europa, che presentano ancora ampi spazi dissodabili, come l’Europa orientale, la Scandinavia, le penisole iberica e balcanica. Degno di nota nei Balcani è il movimento di discesa verso le pianure di popolazioni fino allora arroccate in montagna, con i dissodamenti che ne conseguono.
Nelle aree più popolate e insieme a debole sviluppo economico, come l’Italia, le nuove coltivazioni interessano invece terre via via più marginali, di debole resa e di problematico mantenimento.
L’altra modalità per aumentare la produzione è l’intensificazione della coltura, che chiama in causa il concetto di rivoluzione agraria se ricorrono due ordini di fenomeni: la piena appropriazione privata della terra, ottenuta attraverso la divisione delle terre comuni e la liquidazione degli usi civici, e l’abolizione del tradizionale riposo periodico dei terreni (maggese), ottenuta sostituendo nelle rotazioni agrarie il periodo di riposo con la semina di piante aventi esigenze nutritive complementari a quelle già coltivate. In tal modo la produzione può arrivare a raddoppiare, permettendo sia di nutrire il bestiame prima mantenuto al pascolo nelle terre comuni e nei maggesi, sia di far fronte all’aumento demografico.
Come per la rivoluzione industriale, la trasformazione agricola avviene – e quindi dispiega i suoi effetti sullo spazio fisico – con ampio scarto temporale da un paese all’altro o anche all’interno dello stesso Paese: per limitarci all’aspetto agronomico, l’abolizione dei maggesi ha luogo in buona parte della Gran Bretagna già dal Settecento (e in epoca ancor più antica in parte della Lombardia, del Belgio e dei Paesi Bassi), dove a metà del secolo è sostanzialmente compiuta, mentre nell’Europa continentale, ancora negli anni Venti dell’Ottocento, è un’eccezione, e al chiudersi del secolo il maggese è ancora largamente presente, per esempio, in Podlachia (regione dell’attuale Polonia orientale).
Via via che la rivoluzione agraria procede, oltre ai cereali nei campi si coltivano piante che entrano a far parte delle nuove rotazioni: alcune leguminose da foraggio (trifoglio, erba medica), crocifere, come la rapa e il navone, e soprattutto la patata e la barbabietola da zucchero: la patata è già piuttosto diffusa nella metà del Settecento (e in Irlanda a fine Seicento), mentre la diffusione della barbabietola è tutta ottocentesca e il suo uso si generalizza solo nella seconda metà del secolo.
Quanto all’Europa mediterranea, l’intensificazione delle colture – dove avviene – si realizza per altre vie: inserendo nella rotazione piante particolari (per esempio leguminose più adattabili al clima locale, come la lupinella o la sulla), o accentuando una possibilità tradizionale delle terre a moderata aridità estiva, come la piantagione di alberi fruttiferi, e più radicalmente ricorrendo all’irrigazione. Pratica di antica tradizione, l’irrigazione è riferibile a due principali modelli: quello delle oasi, che rinvia a remote pratiche di origine araba, e quello dei grandi canali irrigui del Nord Italia. Le prime, usufruenti di acque superficiali o sotterranee (famose in proposito le huertas iberiche, in primo luogo quella di Valencia), vedono una lenta espansione nel corso del secolo, motivata dall’espandersi di colture di pregio (ortaggi, agrumi, cotone) e favorita anche dal diffondersi della macchina a vapore per il sollevamento dell’acqua. Per quanto riguarda i canali del Nord Italia – anch’essi di tradizione medievale – nel corso dell’Ottocento vengono realizzate poche ma importanti nuove realizzazioni (come il canale Cavour) e soprattutto viene infittito il reticolo dei condotti secondari.
Con l’irrigazione, nell’Ottocento, aumenta la coltivazione di piante quali il mais e il riso, che hanno un ruolo crescente nell’alimentazione, accanto ai cereali più diffusi (frumento nel sud e segale nel nord) e a quelli meno diffusi o in declino (avena, orzo, grano saraceno). Le esigenze biologiche di mais e riso ne restringono tuttavia la presenza all’Europa centro-meridionale, e in quest’ambito a settori con estati relativamente umide o a zone irrigate. Il mais, già usuale nel Nord del Portogallo, Galizia, Asturie e nelle pianure lombarda e veneta, diviene nell’Ottocento il cereale più diffuso nelle pianure danubiane, rendendo l’Impero austro-ungarico di gran lunga il primo produttore d’Europa e fra i primi del mondo. Il riso, presente da secoli in aree vaste e frammentate dell’Europa mediterranea, nell’Ottocento caratterizza soprattutto la pianura piemontese.
Dopo la metà del secolo, nell’Europa occidentale l’incremento dei seminativi si arresta, a causa della progressiva specializzazione degli spazi agro-pastorali a scala mondiale, per cui una quota crescente di prodotti base giunge da Paesi oltremare (infatti il fenomeno si presenta in anticipo in Gran Bretagna, facilitata nell’accesso a tali prodotti) o dall’Europa orientale: è noto l’afflusso dall’Ucraina di grandi quantità di frumento dopo il 1875. Sotto tale spinta, lo spazio agrario europeo richiede in misura crescente prodotti speciali; richiesta favorita dall’incremento del tenore di vita medio e dal miglioramento delle tecniche di trasporto e di conservazione. Aumentano così gli spazi destinati alla barbabietola e al riso, ai suini e ai bovini da carne e da latte (ramo in cui si specializzano soprattutto Danimarca, Svizzera e Francia), e gli orti e i frutteti si estendono un po’ in tutte le cinture periurbane; inoltre, si espandono molto anche alcune colture arboree meridionali di antica tradizione: viti, ulivi (che anche in passato, del resto, avevano un motivo di diffusione nell’uso industriale dell’olio) e, nell’estremo sud delle penisole mediterranee, agrumi.
Le trasformazioni della copertura vegetale: i boschi
Il regresso, e in qualche caso il progresso, della copertura forestale europea si può considerare un caso particolare delle trasformazioni dei terreni agropastorali; del resto all’inizio del XIX secolo i boschi sono ancora, ove più ove meno, luogo di pascolo e di coltivazione estemporanea. Nel loro complesso le superfici forestali europee toccano il loro minimo storico nel corso dell’Ottocento, anche se la situazione del continente è molto varia e le valutazioni sono difficili, dovendo tenere conto anche del deperimento boschivo.
Per definire la pressione esercitata dalle attività umane sui boschi si deve considerare, oltre all’espansione delle coltivazioni e dei pascoli, anche la domanda di legno. I mille impieghi tradizionali del legno (per combustione domestica e industriale, direttamente o attraverso la trasformazione in carbone vegetale, come per manufatti vari, edilizia, cantieri navali ecc.) nell’Ottocento sono in gran parte confermati, e il loro volume cresce seguendo la crescita economica generale. È vero che in alcuni settori la domanda decresce: la metallurgia, infatti, rinuncia gradualmente alla combustione del carbone vegetale, soppiantato dal carbon fossile già nel Settecento in Gran Bretagna (ma solo a Ottocento inoltrato nell’intero continente e a fine secolo in un’area molto ricca di foreste come la Scandinavia), e a metà secolo gli scafi in ferro prendono il sopravvento su quelli in legno nelle costruzioni navali. In compenso, però, emergono nuovi formidabili consumatori come le ferrovie che, a dispetto del nome, almeno inizialmente utilizzano quantità di legno anche superiori a quelle di ferro.
Dunque, nell’Ottocento, in conseguenza del consumo di legno e dell’incremento della coltivazione prosegue una riduzione o un sovrasfruttamento delle superfici forestali che non è certo una novità. La situazione è comunque differenziata: in alcuni Paesi – come la penisola iberica e l’Italia, ma anche la Gran Bretagna – la copertura forestale non diminuisce di molto, perché è già stata intaccata in passato, mentre in altre zone – come la pianura russa sull’asse Smolensk-Mosca – la diminuzione è concentrata nel periodo.
Comunque, nelle montagne geologicamente giovani dell’Europa meridionale, con versanti ripidi, anche una riduzione moderata dei boschi ha conseguenze rilevanti, perché si indirizza ormai alle aree marginali e perché fino a metà secolo coesiste con una fase plurisecolare di rincrudimento del clima (piccola età glaciale, 1550-1850 circa). Come conseguenza, le erosioni e il dissesto dei bacini fluviali si presentano fra Settecento e Ottocento con una gravità prima ignota, richiamando in varia misura l’attenzione dei governi.
Anche dove i boschi permangono, presentano con sempre maggiore evidenza i segni dell’intervento umano: aumentano i cedui (che assicurano una maggiore produzione di legno) a scapito dei boschi di alto fusto, ovvero cambiano le specie prevalenti, e le conifere per esempio regrediscono a vantaggio dei faggi nelle montagne dell’Europa meridionale e delle betulle nell’Europa settentrionale. Il regresso delle conifere è per la verità un fenomeno di lunga data che ora inizia a essere contrastato dall’azione degli organismi forestali governativi. Questi organismi nell’Ottocento migliorano decisamente le cognizioni tecniche in loro possesso (un ruolo fondamentale in tale senso è da attribuirsi alle scuole forestali dell’Europa centrale) e la loro capacità di intervento, intensificando anche la pratica dei rimboschimenti, indotta da considerazioni economiche (crescita dei prezzi del legname), di stabilità del suolo e anche di igiene: il più rilevante esempio di rimboschimento ottocentesco in Europa è probabilmente quello che interessa le Landes d’Aquitania, vastissima regione pantanosa e sabbiosa nel sud-ovest della Francia, ripiantata in prevalenza a pino marittimo a partire dal Secondo Impero.
Le trasformazioni idrauliche: bonifiche e canalizzazioni
L’incremento delle superfici a coltura si esercita anche a spese di aree “anfibie” delle pianure alluvionali, soprattutto nei Paesi che hanno una più antica tradizione in tal senso, come l’Italia e i Paesi Bassi; nelle bonifiche per prosciugamento ci si avvale anche della nuova forza del vapore. Nella prima metà dell’Ottocento, nelle pianure costiere della Toscana e dell’Italia meridionale vengono eseguite numerose ma frammentate operazioni di prosciugamento, mentre dopo l’unità i lavori più imponenti hanno luogo attorno al corso inferiore del Po e soprattutto nel Ferrarese. Nei Paesi Bassi la più grande realizzazione del secolo è il prosciugamento del lago di Haarlem nel 1852. In una terra che ha risentito per tempo dell’esperienza olandese, i fens dell’Inghilterra orientale, le bonifiche proseguono anche nel corso dell’Ottocento. In Ungheria è da segnalare nella seconda metà del secolo l’ampia opera di drenaggio del bacino del Tibisco (Tisza).
Per quel che riguarda le vie di navigazione interna europee, l’Ottocento non registra un impegno costruttivo generalizzato, e anzi dopo il primo trentennio vede più o meno lentamente decadere in termini di quote di traffico la rete spesso cospicua delle canalizzazioni realizzate nei decenni o nei secoli precedenti in Gran Bretagna, Paesi Bassi, Francia, Germania del Nord e Italia del Nord. Alla radice del fenomeno è il forte ridursi del tradizionale vantaggio della via d’acqua rispetto alla via di terra, per effetto di più fenomeni concomitanti: la forbice dei costi con modi di trasporto alternativi si riduce grazie ai miglioramenti stradali, all’avvento del cabotaggio a vapore (in Gran Bretagna) e soprattutto della ferrovia; il formarsi di una rete ferroviaria a scala continentale è infatti una possibilità che alla via d’acqua è preclusa; nel caso specifico dei canali artificiali, inoltre, in genere costruiti per imbarcazioni a debole pescaggio, pesa il crescere dei volumi trasportati, al quale molte vie d’acqua non potrebbero far fronte.
Si salvano, tuttavia, dalla decadenza quelle vie d’acqua, naturali o artificiali, che sono adatte a intensi volumi di traffico e nel contempo toccano città e regioni sviluppate: anzitutto il Reno, ma anche la Schelda, la Mosa, l’Elba, e alcuni affluenti e canali connessi. Queste vie d’acqua vengono mantenute in esercizio e diventano oggetto d’interventi di miglioramento: tramite importanti lavori di costruzione fluviale (Strombau), nel corso del secolo, la navigabilità del Reno viene estesa verso monte alle imbarcazioni oltre le mille tonnellate, prima a Mannheim e poi a Strasburgo (solo dopo il 1900 a Basilea). Anche in Francia, dopo il 1880, i canali vengono migliorati e la loro funzione a nord di Lione e a ovest di Parigi viene rafforzata, mentre nei Paesi Bassi il complesso delle vie d’acqua interne riesce a mantenere la sua importanza per tutto il corso del secolo.