Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In buona parte dell’Europa occidentale, nel corso della prima età moderna, parallelamente all’affermazione del potere monarchico si sviluppa una riflessione sulla natura, i mezzi e i fini della regalità. Le teorie politiche che sostengono l’esercizio della sovranità emancipata da ogni obbligo si vanno articolando a partire dalla seconda metà del Cinquecento e raggiungono piena maturità nel corso del Seicento. Esse danno vita a dibattiti filosofici e politici di raggio europeo, dove non mancano le voci contrarie all’ampliamento delle prerogative regali a danno della nobiltà, delle istituzioni ecclesiastiche e dei corpi rappresentativi dei ceti e delle comunità.
La ragion di Stato
Il termine assolutismo risale al tardo Settecento. Tuttavia la delineazione di un sistema politico in cui il sovrano è la figura centrale da cui derivano i poteri di tutte le istanze operanti su un determinato territorio è molto antica. Le teorizzazione della potestas absoluta (potere assoluto), il profilo del princeps legibus solutus (sovrano sciolto da ogni vincolo legislativo), l’affermazione secondo cui quod principis placuit legis habet vigorem (ciò che viene approvato dal principe ha valore di legge) sono del giurista romano Ulpiano, le cui massime vengono riportate nel Corpus iuris civilis dell’imperatore romano d’Oriente Giustiniano. Nel corso del Medioevo la discussione su tali principi è molto vivace; tuttavia, dalle varie voci che vi partecipano non viene mai messa in dubbio la possibilità che il potere regio possa essere libero dai vincoli dati dalla legge divina e dalla legge di natura.
Con l’espressione “ragion di Stato” si indica, alla fine del Cinquecento, una serie di concetti politici in grado di fornire un terreno estremamente fertile per lo sviluppo delle teorie assolutiste. Nonostante il trattato Della ragion di Stato di Giovanni Botero, pubblicato nel 1589, sia privo – come notano già i contemporanei – di concettualizzazione e di coerenza interna, esso analizza il vincolo fra dominante e dominati, fra sovrano e sudditi, con l’obiettivo di fondare, conservare o ampliare un dominio. La preoccupazione di Botero è quella di conciliare nuovamente morale e politica, dopo l’affermazione delle disincantate dottrine di Niccolò Machiavelli e la riduzione della religione, da parte di quest’ultimo, a strumento del potere. Da questo punto di vista, la teorizzazione di Botero appare fragile. Il successo del volume, di cui negli anni si moltiplicano le traduzioni (in spagnolo, francese, latino e tedesco), è dovuto alla sistematica riflessione su una nutrita serie di argomenti significativi per l’esercizio del potere monarchico: fiscalità, organizzazione militare, attività produttive, amministrazione della giustizia e così via. Inoltre il testo boteriano risponde alle esigenze di una realtà che vede spegnersi progressivamente la concezione patrimoniale dello Stato ed è alla ricerca di argomentazioni a sostegno dei processi di rafforzamento del potere regio e di gerarchizzazione delle molteplici forze e interessi che agiscono nella sfera politica.
Un caposaldo: i Six livres de la République di Jean Bodin
Nella Francia del primo Cinquecento le riflessioni sulla politica e il potere vertono sulla natura dell’autorità regale. Concezioni fra loro opposte sono espresse da Claude de Seyssel, che ne La Monarchie de France, pubblicato nel 1515, sottolinea l’imprescindibilità dei freni all’azione della corona, e da Guillaume Budé, che, con Le livre de l’institution du Prince (1548), sostiene l’origine divina del potere sovrano, al quale il suddito deve prona obbedienza.
Nella seconda metà del Cinquecento, quando la Francia è scossa dalle guerre di religione e l’autorità della corona è messa in discussione dal potere politico e militare delle fazioni in lotta, alcuni intellettuali al servizio della monarchia propongono un’immagine del sovrano quale supremo garante della pace e della giustizia, al di sopra delle parti. Il tema è di stringente attualità in anni in cui il potere regio appare in balia delle fazioni nobiliari e religiose. Nel 1576 Jean Bodin pubblica il volume Six livres de la République, un testo dall’enorme successo editoriale: otto edizioni tra il 1576 e il 1580, sette tra il 1580 e il 1590 e cinque negli anni immediatamente successivi. Bodin, facendo tesoro di una riflessione secolare, sostiene l’unità, l’indivisibilità e la perpetuità della sovranità dello Stato. Il sovrano incarca lo Stato e possiede summa in cives ac subditos legibusque soluta potestas, ossia il sommo potere sui suoi sudditi e concittadini, sciolto dall’obbligo di osservare qualunque legge. Egli non deve sottostare ai dettami stabiliti dai suoi predecessori. In ciò consiste la potestas absoluta, il potere incondizionato del sovrano, che ha come unici limiti la legge divina, le leggi di natura e le leggi fondamentali del regno. Ciò distingue la monarchie royale dalle monarchie tiranniche e dispotiche e comporta per il sovrano, fra l’altro, il rispetto del diritto di proprietà dei sudditi. Quest’ultimo punto ha conseguenze importanti sul piano del prelievo fiscale, in quanto obbliga il sovrano, quando vuole imporre nuove tasse, a convocare l’assemblea rappresentativa – in Francia, gli Stati generali – dove trovano espressione i diversi ceti del regno. Dunque in questo caso il sovrano deve sottostare alla volontà della rappresentanza cetuale.
Il dibattito sulle magistrature
Nel 1594 l’ingresso a Parigi di Enrico IV di Borbone segna l’avvio del ripristino dell’autorità regia in Francia. Nei decenni successivi i dibattiti si concentrano non più sul potere del sovrano, ma sul ruolo dei funzionari regi. Viene in particolare messa in discussione l’ampiezza del raggio di intervento dei commissari nominati direttamente dal re e dai suoi ministri, per controllare l’operato delle magistrature locali. Il giurista Charles de Loyseau, nei Cinq livres du droit des offices (1609), teorizza che tali funzionari debbano avere nel territorio di destinazione un ambito ben delimitato di azione. I commissari regi rimangono peraltro figure contraddistinte da un’autorità straordinaria, la cui legittimità è effettiva solo dopo che le autorità locali abbiano ufficialmente registrato – ossia accettato come conformi alle leggi del regno e ai privilegi del luogo – i decreti regi di nomina.
Tuttavia ben presto la prassi politica mette in serio dubbio tali affermazioni di principio: all’interno dei diversi breviari politici pubblicati negli anni Trenta del Seicento viene sottolineato come la ribellione nei confronti dei commissari regi debba essere assimilata al reato di lesa maestà. Così si esprime, per esempio, nel suo Testament politique , Armand Jean du Plessis, cardinale Richelieu, ministro favorito di Luigi XIII, che definisce il profilo degli intendenti quali veri e propri emissari del potere centrale nelle province.
Diritto divino e neostoicismo
Sempre nel corso del Seicento, in tutta Europa, si fa strada la teoria – assente in Bodin – della natura divina della sovranità regia. L’idea che l’autorità politica abbia carattere divino e che la figura del monarca sia l’immagine vivente di Dio sulla terra trova la sua prima formulazione in Francia: con i ventisei libri del De Republica (1578) il giureconsulto tolosano Pierre Grégoire arricchisce le formulazioni di Bodin innestandovi la teoria del diritto divino. Per Grégoire il sovrano è responsabile solo di fronte a Dio, dal quale deriva direttamente il suo potere che deve esercitare liberamente, senza ricorrere in alcun caso alle assemblee rappresentative. In virtù dell’indivisibile sovranità che riposa nella sua persona, il sovrano può scegliere i mezzi con i quali imporre l’ordine interno piuttosto che difendere il suo regno dall’aggressione esterna. In ogni caso i sudditi gli devono obbedienza incondizionata.
Un tassello importante dei dibattiti sull’assolutismo è la diffusione fra le élite europee del pensiero di Giusto Lipsio. Nelle sue opere, dall’edizione commentata di Tacito (1576) al trattato De constantia (1584) agli impegnativi Politicorum sive civilis doctrinae libri sex (1589), è delineata una concezione che separa nettamente gli ambiti di azione dei governati e del governante. I primi devono esercitare l’arte del vivere e obbedire, senza soverchie illusioni, al sovrano, nella consapevolezza che la vera patria del saggio non è la nave che ha come nocchiero il principe, ma la terra e il cielo.
Teorico e sovrano: Giacomo I Stuart
Particolare importanza, per il fatto di essere elaborate in prima persona da un sovrano, sono le teorie di Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra e di Scozia, nei trattati The Trew Law of Free Monarchies e Basilikon, pubblicati anonimi rispettivamente nel 1598 e nel 1599. Un ruolo fondamentale nella teoria di Giacomo I è la valenza religiosa alla figura del sovrano. Quest’ultimo è imago Dei, immagine di Dio; pertanto solo a questi, e non al popolo sul quale governa, deve rendere conto delle sue azioni. Per rafforzare ulteriormente in senso assolutistico il profilo del princeps, Giacomo I interpreta in maniera peculiare l’aggettivo “libero”, tradizionalmente preposto nelle formule ufficiali all’espressione “monarchia d’Inghilterra” e “monarchia di Scozia”. Scozia e Inghilterra sono libere monarchie non perché nazioni indipendenti, ma perché il potere che il re vi esercita è libero. Egli, scegliendo liberamente i mezzi da utilizzare, senza alcun controllo e senza l’obbligo di rispettare le leggi esistenti, preserva la comunità dal disordine politico e religioso: impossibile non sentire in tali affermazioni il desiderio di un sovrano, in crescente dissidio con il Parlamento, di risolvere i conflitti in via autoritaria.
Charles Loyseau
Sovranità e stato vanno di pari passo
Trattato sulle signorie
La sovranità non può essere separata dallo stato; se ciò accadesse, non vi sarebbe più uno stato. La sovranità è la forma che dà vita allo stato; stato e sovranità sono in concreto sinonimi, e lo stato è così chiamato perché la sovranità è il compimento e l’espressione di quel potere grazie al quale lo stato ha un ordine e un’esistenza... (La sovranità) consiste in un potere assoluto (...) perfetto, completo sotto ogni riguardo, (...) e come la corona non può esistere se non è una circostanza continua, così la sovranità non può esistere se è in qualche modo limitata.
in Storia del mondo moderno, Cambridge University Press, vol. IV: “La decadenza della Spagna e la guerra dei Trent’anni”, a cura di J.P. Cooper, Milano, Garzanti, 1971
Armand-Jean du Plessis, cardinale di Richelieu
Sui consiglieri di Stato
Testamento politico
Dopo aver esaminato e riconosciuto le qualità necessarie a coloro che debbono essere impiegati come ministri dello Stato, non posso fare a meno di sottolineare che, come la pluralità dei medici causa talvolta la morte del malato invece di favorirne la guarigione, così lo Stato ricaverà piuttosto danni che vantaggi se il numero dei Consiglieri è alto. Aggiungo che non può con buon frutto averne più di quattro, e inoltre bisogna che tra loro ve ne sia uno che abbia l’autorità principale e che questi sia come il primo mobile che muove tutti gli altri luoghi senza essere mosso che dalla sua intelligenza.
Ho qualche difficoltà nel decidermi ad avanzare questa proposta perché può sembrare che io voglia parlare nel mio interesse.
Ma, considerando che mi sarebbe agevole provarlo con numerose autorità della Scrittura, dei Padri e dei politici, e che la confidenza particolare, di cui Vostra Maestà mi ha sempre onorato per tutto il tempo in cui le è piaciuto farmi partecipare alla direzione dei pubblici affari, non ha bisogno in sua difesa di altro principio oltre a quello che è stato necessario perché si formasse, cioè la sua volontà, che sarà agli occhi dei posteri la giusta ragione dell’autorità che io ho avuto nei suoi consigli, io trovo che posso parlare su questo argomento senza essere sospettato e che debbo farlo per provare col ragionamento ciò che l’onore che ho sempre ricevuto dalla vostra bontà autorizzerà con l’esempio.
La naturale invidia, che si trova ordinariamente tra potenze uguali, è troppo conosciuta da tutti perché ci sia bisogno d’un lungo discorso per far vedere la verità dell’affermazione che ho avanzato.
Esperienze diverse mi hanno reso così saggio su tale materia che mi riterrei responsabile davanti a Dio se questo testamento non recasse l’esplicita affermazione che non c’è niente di più pericoloso in uno Stato di diverse autorità uguali nell’amministrazione degli affari.
Ciò che è intrapreso dall’uno è intralciato dall’altro e, se l’uomo più dabbene non è anche il più abile, quand’anche le sue proposte fossero le migliori, sarebbero sempre eluse da colui che ha lo spirito più acuto.
Ciascuno avrà i suoi seguaci che formeranno diversi partiti nello Stato e ne divideranno le forze invece di riunirle insieme.
Come le malattie e la morte degli uomini derivano solo dal cattivo accordo degli elementi di cui essi sono composti, così è certo che il contrasto e la scarsa unione che si trova sempre tra potenze uguali altererà la tranquillità degli Stati di cui esse avranno la guida e produrranno diversi incidenti, che alla fine potranno distruggerla.
Se è vero che il governo monarchico imita meglio di qualunque altro quello di Dio, se tutti i politici sacri e profani insegnano che questo genere di regime supera tutti quelli che sono stati messi in pratica da sempre, si può tranquillamente affermare che, se il sovrano non può o non vuole lui stesso avere continuamente l’occhio sulla carta o sulla bussola, ragion vuole che ne dia incarico particolare a qualcuno al si sopra di tutti.
Come diversi piloti non mettono mai mano tutti insieme al timone, così ce ne vuole uno solo che tenga quello dello Stato.
Egli può, naturalmente, accettare i pareri degli altri, talvolta deve addirittura farne ricerca. Ma tocca a lui esaminarne la bontà e muovere la mano da un lato o dall’altro, a seconda di quel che stima più adatto per evitare la tempesta e seguire la sua rotta.
Tutto sta nel fare buona scelta in questa occasione e nel non sbagliare.
Niente è più facile che trovare un primo mobile che muova tutto senza essere mosso da alcuna autorità superiore che non sia quella del suo padrone. Ma niente è così difficile quanto trovarne uno che muova bene senza poter essere mosso da nessuna considerazione che possa sviare il suo movimento.
Ciascuno si crederà, seguendo il suo giudizio, capace di questa funzione. Ma, nessuno potendo esser giudice nella propria causa, il giudizio in materia così importante deve dipendere da coloro che non hanno nessun interesse che possa bendare loro gli occhi.
C’è chi non può esser mosso dalle pratiche e dai doni dei nemici dello Stato e potrà esserlo dai loro artifici.’è chi è capace di farsi muovere da interessi che di per sé non sarebbero criminali e che, tuttavia, causerebbero gravi pregiudizi allo Stato.
Si trova spesso chi morrebbe piuttosto che far fare un passo falso alla sua coscienza e che, tuttavia, non sarebbe utile alla comunità perché incapace di resistere alle insistenze o alle tenerezze che ha per quelli che ama.
C’è chi è incapace di essere mosso da qualsivoglia interesse e potrebbe esserlo dal timore, dallo sbigottimento e dal terror panico.
So bene che la capacità, la probità e il coraggio e, in una parola, la qualità che abbiamo attribuito ai Consiglieri di Stato possono rimediare a tali inconvenienti. Ma, a dire il vero, come il ministro di cui parliamo deve essere al di sopra degli altri, così bisogna che abbia tutte le qualità in grado eminente e, di conseguenza, bisogna fare un esame accurato prima di deciderne la scelta.
Il Principe deve conoscere di persona colui che incaricherà di una carica così importante e, sebbene questa persona debba essere eletta solo da lui, la scelta che egli farà deve possibilmente essere accompagnata da una approvazione pubblica; poiché, se ha i consensi di tutti, sarà maggiormente capace di ben fare.
Come quelli che sono più bravi nei calcoli astronomici non potrebbero sbagliarsi di un solo minuto senza che i giudizi che ne traggono non siano soggetti ad ogni genere di errori, così è pur vero che, se le qualità di colui che deve governare gli altri sono buone solo apparentemente, la sua condotta sarà pessima e che, se tali qualità sono solo mediocri, il suo governo non sarà eccellente.
È facile dipingere le qualità che deve avere questo primo ministro; ma è difficile trovarle riunite in un soggetto.
Tuttavia è vero che la felicità o l’infelicità degli Stati dipende dall’elezione che di tale ministro sarà fatta. Il che obbliga strettamente i sovrani o a prendersi personalmente cura dei loro stati oppure a scegliere così bene colui sul quale vogliono scaricarla che la loro azione sia approvata dal cielo e dalla terra.
in La storia moderna attraverso i documenti, a cura di A. Prosperi, Bologna, Zanichelli, 1974
Voci contrarie
Nell’incandescente clima dei conflitti religiosi e politici che contraddistinguono la seconda metà del Cinquecento, le argomentazioni a favore della sovranità incontrastata dei monarchi sono oggetto di critiche e opposizioni. Da parte protestante si insiste sui limiti dei poteri del monarca nei confronti della fede religiosa e delle proprietà dei sudditi; qualora il sovrano venga meno ai suoi obblighi in questi ambiti si ha lo scadimento del potere regio in tirannia. Nel 1579 vedono la luce le Vindiciae contra tyrannos, generalmente attribuite allo scrittore politico francese di fede ugonotta Hubert Languet e il De iure regni apud Scotos dell’umanista scozzese George Buchanan, due testi al cui interno si sottolineano i limiti dell’azione regia. In ambedue i testi, in modi diversi,viene affermata la liceità del tirannicidio nel caso in cui il sovrano si trasformi in tiranno.
Anche in campo cattolico si moltiplicano le voci che, in vario modo, manifestano un’opposizione alle dottrine assolutistiche. Il teologo gesuita – nonché cardinale dal 1599 – Roberto Bellarmino, con i volumi Tractatus de potestate Summi Pontifici (1610) e De officio principis cristiani (1619), distingue la potestà assoluta del papa, come vicario di Cristo, nelle materie spirituali, dalla sua potestas indirecta, ossia mediata dall’autorità dello Stato, in quelle temporali. Ancora più radicali appaiono le posizioni di due gesuiti spagnoli Juan de Mariana, autore del De rege et regis institutione (1599) e Francisco Suárez, che pubblica nel 1613 la Defensio fidei. Costoro sostengono che la potestas ecclesiastica, che appartiene al pontefice, sebbene indiretta, non può essere in alcun modo scalzata dalla potestas temporalis dei sovrani; in altre parole, l’autorità regia risulta di fatto sempre subordinata a quella della Chiesa.
I dibattiti secenteschi
Sin dal tardo Cinquecento a coloro che sostengono, con le parole di san Paolo, che nulla potestas nisi a Deo e che esaltano la figura del principe cui attribuiscono un potere supremo che scaturisce dalla sacralità della sua persona, si contrappongono quanti sottolineano con forza la necessità di limitare l’autorità del sovrano. Nel 1581 viene pubblicato dal giurista scozzese Adam Blackwood il trattatello Adversus Georgii Buchanani. Qualche anno più tardi, nel 1600, Guillaume Barclay, un altro giurista scozzese, dà alle stampe il De regno et regali potestate adversus Buchananum, Brutum et reliquos monarcomacos libri VI. In questi testi, concepiti in aperta polemica con il monarcomaco George Buchanan, si ribadisce come il sovrano non necessiti dell’approvazione dei sudditi e come nessuna legge positiva possa in qualche modo limitare le sue prerogative, in quanto il suo potere deriva da Dio ed è quindi assoluto. Per questo stesso motivo egli può emanare disposizioni anche in materia religiosa, poiché Dio è l’unico al quale deve rendere conto del suo operato.
Un’autentica summa dei principi assolutistici è l’opera del funzionario francese Cardin Le Bret (1558-1655) De la souveraineté du roi (1632). Per Le Bret, molto vicino al cardinale Richelieu e memore della tormentata stagione delle guerre di religione, il fine principale dell’esercizio del potere del sovrano è la tranquillità del regno. Lo strumento per giungervi è l’obbedienza dei sudditi al sovrano. Dunque obbedire al sovrano, buono o malvagio che sia, diviene fondamentale. Il dovere dei sudditi di prestare totale obbedienza al sovrano è anche connesso al fatto che la sovranità dipende da Dio ed è limitata solo dalla legge divina e dalle leggi di natura. Malgrado la sovranità sia indivisibile, come il punto geometrico, i commissari nominati direttamente dal re partecipano di essa e la possono esercitare nei luoghi deputati. Le Bret è contrario alla venalità degli uffici – ossia la prassi della corona francese di vendere le cariche pubbliche ai migliori offerenti – poiché essa crea autentiche dinastie burocratiche forti di privilegi quanto la nobiltà di spada. Egli infatti pretende che i funzionari di diretta nomina regia non possano essere in alcun modo contestati. Di fronte a loro, non solo le autorità locali non hanno alcuna possibilità di resistenza, ma un’eventuale ribellione farebbe incorrere nel delitto di lesa maestà.
Il pensiero di Jacques Bénigne Bossuet
I testi sacri e la letteratura teologica rappresentano gli arsenali delle argomentazioni del più compiuto teorico dell’assolutismo seicentesco: il vescovo francese Jacques-Bénigne Bossuet, autore de La Politique tirée des propres paroles de l’Écriture Sainte (1679) e dei Discours sur l’Histoire universelle (1704). Anche per Bossuet, convinto sostenitore di Luigi XIV e precettore del Delfino di Francia dal 1670 al 1680, il potere deriva al re direttamente da Dio, sotto la cui protezione esso agisce. Pertanto, le monarchie sono forme di governo legittime anche dal punto di vista religioso: rovesciarle non solo è contrario alla stabilità politica, ma anche al volere divino. Il sovrano, illuminato dalla vera fede e orientato da un autentico timor di Dio, esercita sul suo popolo un’autorità sacra, paterna e assoluta. E come figli devoti con il padre, anche in caso di episodi di oppressione, di violenze o di persecuzioni, i sudditi non devono opporgli alcuna resistenza. Del resto, è solo dinanzi a Dio che il sovrano è responsabile. Infatti, secondo Bossuet, la critica o, peggio, la resistenza alla corona priverebbe l’atto del governo dell’attributo dell’assolutismo, ossia dell’indipendenza da ogni altra autorità umana.