Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia dell’ottica fisica nel Settecento consiste essenzialmente in un confronto tra i diversi modelli della luce: quello particellare newtoniano, quello del fluido e quello vibratorio. Il dibattito sulla natura della luce interagisce profondamente con le conquiste sperimentali, che portano al perfezionamento degli strumenti ottici. La progressiva diffusione di questi strumenti esercita, infine, un’influenza sulle concezioni della scienza e sulle teorie filosofiche.
Premessa
Nel Seicento si sono affermate due diverse concezioni della luce: una, di derivazione cartesiana, difesa da Robert Hooke e Christiaan Huygens, considera la luce – analogamente al suono – un moto ondulatorio attraverso un mezzo sottile; l’altra, trasmessa al Settecento come newtoniana, fa della luce una sostanza materiale corpuscolare. In realtà Newton, scrivendo a Hooke, afferma che i suoi esperimenti sono compatibili sia con l’ipotesi corpuscolare, sia con quella ondulatoria: la scelta dell’una o dell’altra dipende dal tipo di problema di volta in volta trattato. Entrambe le ipotesi presentano qualche difficoltà: per esempio, se la luce è un movimento ondulatorio, come mai si propaga in linea retta? E ancora: perché si formano ombre dietro gli ostacoli? D’altra parte, se la luce è di natura corpuscolare, perché i diversi raggi non si disturbano, intersecandosi? E come mai attraversano i corpi trasparenti? Per avere risposte esaurienti a questi problemi bisognerà attendere l’Ottocento.
Quanto alla concezione dei colori, dopo che Hooke e Huygens ne identificano due fondamentali (rispettivamente il rosso e il blu, e il giallo e il verde), Newton espone, nel 1672, la sua “nuova” teoria: i colori sono “intrinseci” alla luce, e consistono nei diversi gradi di rifrangibilità dei raggi che compongono la luce bianca, dal grado minimo (al quale è associato il colore rosso) fino al grado massimo (al quale è associato il colore viola).
La teoria newtoniana della luce godrà di ampi consensi nel Settecento; quanto alla sua teoria dei colori, con la notevole eccezione di Goethe, non verrà affatto posta in discussione. I problemi più dibattuti nel secolo dei Lumi sono – oltre a quello teorico della natura della luce – quelli sperimentali relativi all’eliminazione dell’aberrazione cromatica delle lenti e al conseguente perfezionamento degli strumenti ottici.
Il dibattito sulla natura della luce
Il modello largamente dominante nel Settecento tra i filosofi naturali è, come si è detto, quello attribuito a Newton (si veda, ad esempio, la domanda XXIX dell’Ottica): secondo tale concezione, la luce sarebbe composta di particelle discrete, proiettate dai corpi luminosi e soggette a forze attrattive e repulsive. Si tratta di un modello agevolmente matematizzabile - a questa proprietà William Whewell attribuisce la predilezione newtoniana per i corpuscoli -, associato spesso a una metodologia induttivistica. Tra i principali sostenitori del modello corpuscolare della luce figurano il metafisico Andrew Baxter, l’enciclopedista Ephraim Chambers, il medico George Cheyne, il filosofo e prelato Samuel Clarke, il medico studioso di ottica William Porterfield, il teologo e filosofo naturale Joseph Priestley, il matematico cieco Nicholas Saunderson, lo studioso di ottica Robert Smith. Il gesuita Ruggero Giuseppe Boscovich, pur essendo un divulgatore entusiasta della fisica di Newton, muove ad essa importanti obiezioni. Egli considera la luce – come tutta la materia – composta di punti immateriali e inestesi, dotati di forza d’inerzia e di una forza attiva, attrattiva o repulsiva quando la distanza tra i punti tende a zero. La propagazione rettilinea della luce viene ritenuta un semplice assunto, verificato solo per distanze brevi.
Tra i modelli alternativi, quello vibratorio è il più importante; esso presuppone una diversa teoria della materia rispetto al modello corpuscolare: l’etere – un fluido elastico – prende il posto degli atomi e del vuoto, nel quale agiscono forze a distanza. La luce consisterebbe, cioè, nelle vibrazioni del mezzo etereo, che si propagano come le onde sonore e le correnti elettriche. Diffusa soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo, questa teoria annovera tra i suoi sostenitori una delle figure più rilevanti dell’ottica settecentesca, il matematico svizzero Leonhard Euler, oltre a Johann Bernoulli figlio, a Benjamin Franklin e a William Wollaston. A partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, la teoria vibratoria tende a identificarsi con le esposizioni popolari della dottrina ondulatoria.
All’inizio dell’Ottocento, a opera di Thomas Young e Augustin-Jean Fresnel, il modello vibratorio della luce si trasforma infatti nella teoria matematica del moto ondulatorio, fondata sul metodo ipotetico-deduttivo. A partire dagli anni Trenta, questa teoria risulta dominante: la difendono, tra gli altri, gli astronomi William Hamilton e John Herschel, oltre allo storico e filosofo della scienza William Whewell.
C’è, infine, il modello – di origine neoplatonica ed ermetica – della luce come fluido di natura divina, che viene ripreso agli inizi del Settecento da Hermann Boerhaave – nell’opera Elementa chemiae –, dal teologo John Hutchinson e dal filosofo (con forti interessi ottici) George Berkeley (Siris). La metodologia associata a questa dottrina – decisamente non matematizzabile e antinewtoniana – è prettamente analogica: la luce è un fluido, l’effetto sensibile del fuoco, che è la “causa universale di tutti i cambiamenti in natura ”(per dirla con Boerhaave), è simile ai fluidi calorico ed elettrico. I sostenitori di questa teoria condividono l’adesione alla “filosofia chimica” (o almeno la conoscenza di essa), l’attenzione all’esegesi biblica e gli interessi cosmologici. Dalla fine del secolo il modello della luce come fluido tende a diventare sempre più marginale nell’ottica fisica.
George Berkeley
Su Isaac Newton
Siris
L’ordine e il corso delle cose, oltre alle nostre esperienze quotidiane, dimostrano l’esistenza di una Mente che governa e muove questo sistema mondano come un agente effettivo o la sua causa propria e reale; mostrano anche che la causa strumentale inferiore è il puro etere, il fuoco, ovvero la sostanza della luce (...). Come la Mente Infinita applica e determina questa causa inferiore nell’universo o macrocosmo con un potere illimitato e secondo regole stabilite, così la mente umana la applica, con poteri e capacità limitate, nel microcosmo. (...)
A giudizio di Sir Isaac Newton, qualcosa di ignoto rimane in vacuo, dopo che è stata aspirata l’aria: egli chiama etere questo mezzo sconosciuto, e ritiene che abbia una natura più sottile e un movimento più veloce rispetto alla luce, che pervada liberamente tutti i corpi e si espanda ovunque nei cieli in virtù della sua immensa elasticità. Si suppone che la densità di questo mezzo sia maggiore negli spazi liberi e aperti che dentro i pori dei corpi compatti; man mano che si allontana dai corpi celesti, l’etere diventerebbe sempre più denso, facendo sì che quei grandi corpi gravitino gli uni verso gli altri, e le loro rispettive parti verso il centro: ciascun corpo, infatti, cerca di passare dalle parti più dense del mezzo verso quelle più rare.
Si ritiene che l’estrema piccolezza delle parti di questo mezzo e la velocità del loro movimento, insieme alla sua gravità, densità e forza elastica, ne facciano la causa di tutti i movimenti naturali dell’universo. A questa causa si attribuiscono la gravità e la coesione dei corpi; anche la rifrazione della luce è ritenuta un effetto della diversa densità e forza elastica del mezzo etereo in luoghi differenti. Si suppone che le vibrazioni di tale mezzo - ora sommandosi ai movimenti dei raggi luminosi, ora opponendosi ad essi - producano gli impulsi di facile riflessione e trasmissione. Grazie alle vibrazioni di quel mezzo, si ritiene che la luce comunichi il calore ai corpi. Anche il movimento animale e la sensazione si spiegherebbero con i moti vibratori del mezzo etereo, che si propagano attraverso i filamenti solidi dei nervi. Insomma, sembra che tutti i fenomeni e le proprietà dei corpi che prima erano stati attribuiti all’attrazione, si debbano ascrivere, in ultima analisi, all’etere, comprese le diverse forme di attrazione.
Ma, nella filosofia di Sir Isaac Newton, gli impulsi (come vengono chiamati) di facile trasmissione e riflessione si possono spiegare anche con le vibrazioni suscitate nei corpi dai raggi di luce, e con la rifrazione della luce prodotta dall’attrazione dei corpi. Spiegare le vibrazioni della luce con quelle di un mezzo più sottile equivale a far uso di una spiegazione sconosciuta; la gravità, poi, non mi pare un effetto della densità e dell’elasticità dell’etere, ma piuttosto di qualche altra causa. Sir Isaac stesso insinua che questa era anche l’opinione di quegli antichi, i quali assumevano il vuoto, gli atomi e la gravità degli atomi come i principî della loro filosofia, attribuendo tacitamente la gravità (come egli giustamente osserva) a una causa diversa dalla materia, dagli atomi e di conseguenza dall’etere omogeneo o fluido elastico. Si suppone che l’elasticità di tale fluido dipenda, si lasci definire e misurare dalla sua densità, e che questa a sua volta dipenda dalla quantità di materia presente in una particella, moltiplicata per il numero delle particelle contenute in uno spazio dato. Si suppone, inoltre, che la quantità di materia di ogni particella o corpo di una certa grandezza sia determinata dalla sua gravità. Ma la gravità, allora, non è una proprietà originaria, un’ipotesi primaria? D’altra parte, ove si consideri la forza a prescindere dalla gravità e dalla materia, come esistente solo in determinati punti o centri, non si tratterebbe di una forza astratta, spirituale e incorporea?
Per spiegare i fenomeni, non c’è bisogno di ipotizzare un mezzo più attivo e sottile della luce o fuoco. Dal momento che la luce si muove alla velocità di dieci milioni di miglia al minuto, che bisogno c’è di supporre un altro mezzo dalle parti ancora più piccole e più mobili? Mi sembra che l’etere sia la stessa cosa della luce o fuoco: così lo intendevano gli antichi, e questo è ciò che il termine greco implica. Esso pervade tutte le cose (...) ed è presente ovunque. Questo stesso mezzo sottile, a seconda delle sue varie quantità e determinazioni, e dei suoi diversi movimenti, dà luogo a differenti effetti o apparenze, mostrandosi come etere, luce o fuoco.
G. Berkeley, Opere scelte, a cura di S. Parigi, Torino, UTET, 1996
Le conquiste sperimentali
Il fenomeno dell’aberrazione cromatica consiste nelle variazioni dell’indice di rifrazione di un mezzo trasparente al variare della lunghezza d’onda dei raggi luminosi: la conseguenza è che l’immagine di un punto appare circondata da un alone iridescente. Newton giudica irresolubile questo problema, ritenendo erroneamente la dispersione cromatica proporzionale alla rifrangenza. Si dedica quindi alla costruzione di telescopi riflettenti (attività che gli vale l’ingresso nella Royal Society), perché ritiene che il “disturbo del colore” sia una caratteristica di tutti i telescopi che usano lenti rifrangenti.
Basta invece combinare lenti di vetro diverso per realizzare obiettivi acromatici, ottenendo telescopi e microscopi a rifrazione che danno immagini nitide: nel 1757, il problema viene risolto dall’inglese John Dollond e dallo svedese Samuel Klingenstierna, indipendentemente l’uno dall’altro. Euler fornisce la spiegazione matematica nella Dioptrica del 1769, dimostrando che rifrangenza e dispersione non sono proporzionali. Anche i telescopi riflettenti vengono perfezionati nel corso del secolo.
Un altro settore dell’ottica che si sviluppa nel Settecento è la fotometria, cioè la misura dell’intensità di illuminazione (o illuminamento) in relazione all’intensità luminosa di emissione: Pierre Bouguer (Traité d’optique) e Johann Heinrich Lambert (Photometria) vengono considerati i fondatori di questa disciplina.
Nel corso del secolo, gli studi sulla fosforescenza – dopo la scoperta della “pietra bolognese” capace di emettere luce nell’oscurità, trovata dal calzolaio Vincenzo Casciarolo sul monte Paderno, nei pressi di Bologna, nel 1602 – hanno un significativo impulso, soprattutto nell’ambiente newtoniano dell’Accademia delle scienze di Bologna (Marsili, Zanotti, Beccari, Galeazzi, Laurenti) e all’interno della parigina Académie des Sciences (C.F. Dufay).
I filosofi e gli strumenti ottici
La diffusione di strumenti ottici come il microscopio e il telescopio, nei secoli XVII e XVIII, ha importanti ripercussioni non solo sulla metodologia scientifica (con la “rappresentazione grafica” che si sostituisce sempre più spesso alla “descrizione verbale”), ma anche sulle immagini della scienza e sulle concezioni filosofiche relative alla realtà e alla sua conoscibilità. I filosofi seicenteschi, quando non sono essi stessi costruttori di strumenti o tagliatori di lenti, hanno comunque frequenti contatti con gli artigiani, dirigono il loro lavoro e si interessano ad esso.
Gli atteggiamenti dei filosofi verso il microscopio, e gli usi “filosofici” di questo strumento, nel Seicento e nel Settecento, sono più vari di quanto si ritenga solitamente. Accanto alla “curiosità” di filosofi come Cartesio, Huygens e Hobbes e di poligrafi come Kircher, c’è lo smarrimento di Pascal per la fragilità dell’uomo, sospeso tra il “tutto” cosmico e il “niente” microscopico. Accanto alla teologia naturale di Hooke, c’è la diffidenza di filosofi “empiristi ” come Locke e Berkeley verso il microscopio, giudicato inutile e persino dannoso nella vita quotidiana, e lo scetticismo opposto di Malebranche riguardo all’affidabilità dei sensi umani. Alla radice di questi diversi atteggiamenti vi è la scoperta della natura relativa delle percezioni di grandezza: la realtà perde la sua assolutezza; i sensi umani si rivelano, nello stesso tempo, incapaci di metterci in contatto con l’autentica natura delle cose e insostituibili per gli scopi della quotidiana sopravvivenza.
Lo stretto legame tra artigiani, microscopisti e filosofi, caratteristico del Seicento, si incrina nel secolo dei Lumi, mentre si approfondisce il divario tra l’esperienza comune, che non necessita di strumenti, e l’esperienza scientifica, che integra, corregge e contraddice i sensi con diverse combinazioni di lenti e di concetti astratti. Nel XVIII secolo, il microscopio e il telescopio non cessano però di essere considerati strumenti utili e dilettevoli, capaci di appagare la curiosità, di vincere la noia e di ridurre l’orgoglio dell’uomo, rivelandogli la precarietà e la marginalità del posto che occupa nella scala naturae. Tali strumenti, rendendo accessibili i due estremi della creazione, servono anche a scopi apologetici: il primo rivela, nella struttura dell’infinitamente piccolo, la potenza, la saggezza e la bontà del Creatore. Per quanto riguarda il telescopio, nel racconto Micromégas (1752) Voltaire ironizza sui danni dell’“illustre vicario Derham”, che si vanta di aver visto il cielo empireo “in fondo al suo cannocchiale”. Nel corso del Settecento altri strumenti a altre tecniche sperimentali suciteranno l’interesse di vasti settori del pubblico colto: in primo luogo le apparecchiature per la produzione di fenomeni elettrici.