Le soglie nei reati tributari e il diritto UE
La riforma dei reati tributari del 2015, innalzando le soglie di punibilità di alcuni fattispecie delittuose – e in particolare del reato di infedele dichiarazione – ha dato luogo ad una parziale abolitio criminis, i cui effetti potrebbero risultare incompatibili con gli obblighi di incriminazione contenuti nei Trattati UE e nella Convenzione PIF. Il contributo, messi a fuoco i riferimenti normativi di tale possibile contrasto, individua due strade alternative per farvi fronte de lege lata.
Sul tavolo dei non facili rapporti tra scelte di politica criminale interne, da un lato, e necessità di adeguamento al diritto dell’Unione europea, dall’altro, la riforma dei reati tributari – operata con il d.lgs. 24.9.2015, n. 158 – ha aggiunto nuove questioni problematiche, tra le quali spicca, non ultima, quella relativa all’innalzamento delle soglie di punibilità di alcuni reati fiscali.
Le “soglie”, nella maggior parte dei casi, indicano un importo di imposta evasa, superato il quale la condotta descritta dalla norma incriminatrice acquista rilevanza penale. Esse – secondo l’orientamento prevalente1 – rappresentano elementi costitutivi del fatto di reato e non mere condizioni obiettive di punibilità. Il loro innalzamento ha pertanto determinato una parziale abolitio criminis di reati come la dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.lgs. 10.3.2000, n. 74 (ove la soglia è passata da 50 mila euro, quale era prima della riforma, agli attuali 150 mila euro), omessa dichiarazione di cui all’art. 5 (ove la soglia è passata da 30 a 50 mila euro), omesso versamento dell’IVA di cui all’art. 10 ter (la cui soglia è salita a 250 mila euro) e omesso versamento di ritenute dovute o certificate di cui all’art. 10 bis (ove la soglia è ora pari a 150 mila euro).
Fatta eccezione per il reato di mancato versamento di ritenute d’imposta ex art. 10 bis (che non sarà quindi oggetto di analisi), le fattispecie appena citate sono suscettibili di offendere le finanze dell’Unione europea, laddove riguardino dichiarazioni relative all’IVA, una quota della quale è trasferita dagli Stati al bilancio UE2. Pertanto, di seguito, si cercherà di sondare la compatibilità di tali disposizioni rispetto al diritto dell’Unione (infra, n. 2) e di valutare quali scenari siano prospettabili qualora si concludesse per l’esistenza di un’effettiva antinomia (infra, n. 3).
Nell’intento di vagliare la compatibilità di tali novità normative rispetto agli obblighi di incriminazione discendenti dal diritto dell’Unione europea, è utile anzitutto rammentare come l’art. 4, § 3, TUE sancisca il principio di cd. “leale collaborazione” tra Unione e Stati membri, da cui vengono fatti notoriamente discendere i due corollari dell’assimilazione e dell’efficacia-proporzionalità3.
Una specificazione di tali principi, nell’ambito della protezione degli interessi finanziari dell’UE, si trova poi contenuta nell’art. 325 TFUE, il quale prevede che gli Stati membri combattono la frode e le altre attività illegali lesive delle finanze dell’Unione mediante misure che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace, ribadendo altresì che gli Stati devono adottare, per la lotta contro tali frodi, una tutela equivalente a quella approntata per combattere le frodi che ledono gli interessi finanziari nazionali.
Il concetto ivi contenuto di “frode” trova un’espressa definizione nell’art. 1 della Convenzione PIF, cui il nostro ordinamento ha dato attuazione con la l. 29.9.2000, n. 300, ove si precisa che con tale termine si intende qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa: a) all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti; b) alla mancata comunicazione di un’informazione in violazione di un obbligo specifico; c) alla distrazione di un beneficio lecitamente ottenuto, sempreché ne consegua un’offesa alle finanze dell’Unione4.
All’art. 2 della medesima Convenzione, si impone agli Stati membri di prevedere per tali condotte «sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive» e di comminare, nei casi di “frode grave”, pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione. La medesima disposizione provvede altresì a definire il concetto di “frodi gravi”, individuandole nelle condotte riguardanti un importo minimo che può essere determinato da ciascuno Stato membro ma che non può essere superiore a 50 mila euro.
Il quadro che se ne ricava è chiaro: dal Trattato e dalla Convenzione PIF discende l’obbligo di punire con lo strumento della pena gli illeciti lesivi delle finanze dell’Unione che rientrino nella citata nozione di “frode” e che comportino un’evasione superiore a 50 mila euro.
Ma allora, possono le novità normative citate nel precedente paragrafo dirsi rispettose di tali obblighi europei di incriminazione?
Una valutazione prima facie positiva può operarsi rispetto all’innalzamento della soglia del reato di omessa dichiarazione ex art. 5, ove è stato semplicemente eguagliato il limite di 50 mila euro imposto dalla Convenzione PIF. Per quanto attiene al reato di omesso versamento di IVA ex art. 10 ter, ci sembra doversi escludere che tale fattispecie rientri nell’ambito di applicazione della Convenzione PIF, giacché la condotta tipica incriminata non è riconducibile al concetto di “frode” ivi delineato. Si tratta, invero, di una fattispecie che s’inserisce in un contesto di regolarità dichiarativa a cui, semplicemente, non segue il versamento dell’imposta dichiarata. Altra questione, peraltro già al vaglio della Corte di giustizia5, è quella se la nuova soglia di tale reato (pari a 250 mila euro) non conduca comunque a violare gli obblighi discendenti dall’art. 325 TFUE.
Una valutazione più approfondita merita, invece, la nuova soglia (pari a 150 mila euro) prevista per il reato di infedele dichiarazione di cui all’art. 4, la cui condotta tipica consiste nell’indicazione in dichiarazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi inesistenti. Tale reato, infatti, rientra evidentemente nella citata nozione di “frode” – la quale, come visto, può consistere nell’utilizzo di dichiarazioni false, inesatte o incomplete – e, qualora riguardi dichiarazioni in materia di IVA, è certamente suscettibile di offendere interessi finanziari dell’Unione.
Qualora si condivida quest’ultima osservazione, difficile sarebbe negare che la nuova soglia di punibilità prevista per il reato di infedele dichiarazione di cui all’art. 4 è incompatibile con il diritto dell’Unione europea. Il fulcro del problema risiede allora nell’individuazione delle conseguenze giuridiche che possono farsi discendere da tale conclusione.
Due strade sembrano potersi prospettare, in un’ottica di adeguamento de lege lata del nostro ordinamento al diritto dell’Unione.
A) La prima ipotesi in astratto prospettabile potrebbe essere quella della disapplicazione, da parte del giudice penale, della nuova – illegittima – soglia di punibilità, in modo che riviva la soglia – legittima – prevista dalla precedente disposizione. A tal fine, sembra ragionevole ritenere comunque opportuno un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia nel quale chiedere ai giudici di Lussemburgo se le citate disposizioni europee vadano effettivamente interpretate nel senso che ostino ad una legislazione interna che lasci esente da sanzioni penali – e anche amministrative, qualora il reo sia l’amministratore di una società6 – condotte di infedele dichiarazione fino a 150 mila euro7.
Va inoltre precisato che la via della disapplicazione della nuova soglia prevista dall’art. 4 sarebbe prospettabile solo qualora la Corte di giustizia, in esito al rinvio pregiudiziale, riscontrasse un’incompatibilità della norma interna8 con una norma europea dotata di effetti diretti, com’è ad esempio l’art. 325 TFUE, rispetto al quale gli artt. 1 e 2 della Convenzione PIF potrebbero avere la funzione di conferire maggiore e sufficiente specificità, attraverso l’indicazione di un parametro quantitativo preciso – 50 mila euro – idoneo a rendere determinati i termini “pene dissuasive” e “protezione efficace” ivi contenuti. In tal modo si porterebbe, per così dire, alle estreme conseguenze il principio di preminenza del diritto UE, risalente alla nota sentenza Simmenthal9.
Un ostacolo importante a tale soluzione potrebbe invero ravvisarsi nel precedente rappresentato dalla “sentenza Berlusconi”10 del 2005, ove la stessa Corte di giustizia aveva affermato che una direttiva non può essere invocata dal giudice per disapplicare una norma interna, se da tale disapplicazione discende la punibilità di un soggetto che, altrimenti, andrebbe esente da responsabilità penale. Ma a tale obiezione si potrebbe replicare, facendo leva sul fatto che in quel caso si trattava di un contrasto con una direttiva, e non già con una norma del Trattato dotata di effetti diretti. O addirittura si potrebbe ritenere quel precedente in effetti superato dalla più recente sentenza Taricco11, ove la Corte di giustizia ha affermato che «in forza del principio del primato del diritto dell’Unione, le disposizioni dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE hanno l’effetto, nei loro rapporti con il diritto interno degli Stati membri, di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente … ».
Una simile replica presterebbe comunque il fianco all’ulteriore obiezione in base alla quale neppure la sentenza Taricco rappresenterebbe un precedente in termini, giacché riguardante la disapplicazione di un istituto – la prescrizione – ritenuto dalla Corte di giustizia di natura processuale e, in quanto tale, svincolato dai principi di stretta legalità e irretroattività tipici del diritto penale sostanziale; mentre tale qualificazione non potrebbe certo operarsi nel caso ora in esame, nel quale a venire disapplicata sarebbe una norma che regola un elemento – la soglia di punibilità – di evidente natura sostanziale. Ancor più pregnanti si farebbero dunque qui le accuse di un vulnus ai fondamentali principi costituzionali, per tutelare i quali è stato invocato innanzi alla Consulta il ricorso ai cd. “controlimiti”12.
Gli argomenti per tentare di superare anche quest’ultima obiezione potrebbero allora essere i seguenti. Anzitutto, diversamente dal caso ora in esame, con la sentenza Taricco si avrebbe un effetto in malam partem consistente nell’applicazione di un regime di prescrizione che, per quel reato, non è mai stato previsto dal legislatore (da cui il paventato rischio di una riscrittura della norma incriminatrice ad opera di una sentenza della Corte di giustizia, in violazione dei principi fondamentali sanciti dagli artt. 25, co. 2 e 101, co. 2, Cost.13); rischio, invece, che non pare ravvisabile nel caso ora prospettato, poiché la disapplicazione della disposizione che ha introdotto la nuova soglia farebbe sopravvivere integralmente quella prevista ex lege prima della riforma, senza alcun effetto manipolativo del precetto legislativo. Inoltre, i diritti di un imputato – per un fatto, immaginiamo, di infedele dichiarazione superiore ai 50 ma inferiore al 150 mila euro – potrebbero essere garantiti ritenendo punibili solo i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma e quelli commessi dopo la pronuncia della Corte di Lussemburgo, mandando invece esenti da pena i fatti commessi dopo la riforma ma prima della pronuncia della Corte di Giustizia, in ragione di un difetto di colpevolezza, consistente nell’impossibilità di sapere, rectius prevedere, che la neointrodotta soglia sarebbe stata ritenuta illegittima. In tal modo, nessuna condanna verrebbe pronunciata per fatti che non erano previsti come reato dalla legge al momento della loro commissione o per reati che l’imputato avesse ragionevolmente confidato essere stati aboliti.
Eppure, realisticamente, la soluzione appena proposta potrebbe comunque esporsi alla più radicale critica secondo cui sarebbe inammissibile che dal diritto dell’Unione discendano effetti diretti in malam partem, consistenti nel fondare o aggravare la responsabilità penale, essendo gli effetti diretti concepiti, dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia, come strumenti per tutelare i diritti del privato contro un comportamento inadempiente dello Stato (o, al limite, di un altro privato, nel caso di effetti diretti “orizzontali” discendenti da atti di diritto primario), non già per permettere allo Stato di esercitare i propri poteri punitivi a danno del singolo14.
Verrebbe a questo punto da chiedersi se da tale assunto discenda ineludibilmente la conclusione per cui il rilevato contrasto sia sanabile esclusivamente da parte del legislatore. Il che, verosimilmente, implicherebbe di rassegnarsi a vedere a lungo applicata una legge probabilmente illegittima, e quindi inadempiuti gli obblighi assunti con la stipulazione del Trattato dal nostro Paese, quanto meno sino a che non intervenga una procedura di infrazione ex artt. 258 e 259 TFUE.
Orbene, non ci pare che questa sia una risposta obbligata: al contrario, una seconda via sembra percorribile.
B) L’alternativa, in particolare, è rappresentata dalla possibilità di sollevare una questione di legittimità costituzionale della disposizione del d.lgs. n. 158/2015 che ha modificato l’art. 4, invocando un contrasto con l’art. 117 Cost. e 11 Cost., in quanto adottata in violazione di un obbligo imposto dal diritto dell’Unione europea.
L’obiezione che potrebbe sorgere spontanea è quella per cui si tratterebbe di una pronuncia di incostituzionalità con effetti in malam partem, pertanto esorbitante dai poteri della Consulta, se non altro per un difetto di rilevanza15.
Tale obiezione non sarebbe, tuttavia, del tutto persuasiva. A ben vedere, infatti, quella che si solleciterebbe in questo modo alla Corte costituzionale sarebbe una sentenza del tutto in linea con diversi suoi precedenti, frutto di un’evoluzione giurisprudenziale che – volendone ripercorrere per cenni le tappe essenziali – ha preso le mosse dalla sentenza n. 148/1983, nella quale – relativamente alla questione di legittimità di una speciale causa di non punibilità – si è affermato come la “rilevanza” possa riconoscersi anche in una potenziale incidenza sulla formula assolutoria, sul dispositivo, o addirittura sullo schema argomentativo o sulla ratio decidendi. In senso analogo si è poi espressa la sentenza n. 394/2006, relativa all’illegittimità di una “norma di favore” che permetteva di punire meno gravemente il falso elettorale rispetto al falso previsto dal codice penale. Si è aggiunta, da pochi anni, la sentenza n. 28/2010, che ha dichiarato illegittima una legge sopravvenuta – in quel caso intermedia e più favorevole al reo – per contrasto con una direttiva comunitaria e, dunque, per violazione (proprio) dell’art. 117 e 11 Cost. È stata poi la nota sent. n. 32/2014, in tema di stupefacenti, ad estendere espressamente il sindacato di costituzionalità sulle “norme di favore” ai casi di leggi sopravvenute. In quest’ultima pronuncia, infatti, ad essere censurata dalla corte non è stata una disposizione che coesisteva con altre norme “generali” contemporaneamente in vigore e suscettibili di espandere la propria portata incriminatrice al venir meno della prima. Al contrario, la sentenza ha fatto rivivere le disposizioni legislative vigenti prima della declaratoria di incostituzionalità, anche quelle meno favorevoli per il reo.
Non sembrano esservi, insomma, convincenti argomenti contrari ad un’ipotetica pronuncia di incostituzionalità della disposizione del decreto di riforma che ha innalzato la soglia di punibilità del reato tributario.
Ciò non toglie – è fondamentale sottolinearlo – che spetterebbe poi al giudice a quo, e parimenti ad ogni giudice ordinario, conciliare tale pronuncia di illegittimità con le regole sull’applicazione della legge nel tempo e con i sottostanti principi fondamentali di legalità, colpevolezza e ragionevolezza. Con le parole della Corte costituzionale: «altro, infatti, è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile»16.
In concreto, ciò significherebbe che, in seguito a questa ipotetica sentenza della Corte costituzionale, i fatti di infedele dichiarazione compresi tra i 50 e 150 mila euro:
• sarebbero punibili solamente se commessi prima dell’entrata in vigore della riforma (in applicazione della legge vigente al momento del fatto, quella successiva non potendo essere applicata retroattivamente perché costituzionalmente illegittima) oppure dopo la declaratoria di incostituzionalità (essendo la norma di riforma stata rimossa dalla sentenza della Consulta);
• non sarebbero invece punibili, per difetto di colpevolezza, se commessi dopo la riforma, ma prima della pronuncia della Corte costituzionale17.
In sintesi, quand’anche si reputi che la strada della disapplicazione della norma interna contrastante con il diritto dell’Unione da parte del giudice comune sia sbarrata allorché ne discendano effetti in malam partem, resterebbe pur sempre aperta la via dell’incidente di costituzionalità, attraverso il quale sarebbe possibile conseguire il duplice vantaggio, da un lato, di adeguare l’ordinamento agli obblighi discendenti dall’Unione e, dall’altro, di garantire che nessun imputato subisca una condanna per fatti che non costituivano reato ai sensi della legge in vigore al momento della loro commissione (o per reati che questi poteva ragionevolmente considerare aboliti). In questo modo, inoltre, potrebbe non essere indispensabile per il giudice ordinario sollevare, prima ancora della questione di legittimità costituzionale, un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ben potendo quest’ultimo essere eventualmente azionato dalla stessa Corte costituzionale, così da innescare incidentalmente un dialogo “diretto” tra Corti.
Note
1 Cfr., ad esempio, Cass. pen., S.U., 28.3.2013, n. 37424 e Cass. pen., 5.11.2015, n. 3098. In dottrina, cfr. ad esempio, Lanzi, A.Aldrovandi, P., Diritto penale tributario, Padova, 2014, p. 248 s. Contra, qualificando la soglia come condizione obiettiva di punibilità, cfr. ad es., Cass. pen., 16.12.2014, n. 6705.
2 Che l’IVA rientri nell’ambito di applicazione del diritto UE è ormai un dato pressoché unanimemente riconosciuto (cfr. anche i rilievi sul punto espressi nelle recenti pronunce della C. giust., 26.2.2013, C617/10, Åkerberg Fransson; C. giust., 8.9.2015, C105/14, Taricco).
3 Ciò almeno a partire dal noto caso del “mais greco” (C. giust., 21.9.1989, C68/88, Commissione c. Grecia).
4 La definizione dovrebbe rimanere sostanzialmente invariata anche secondo la più recente proposta di direttiva PIF, cfr., ad es. Venegoni, A., La definizione del reato di frode nella legislazione dell’Unione dalla Convenzione PIF alla proposta di direttiva PIF, in corso di pubblicazione in www.penalecontemporaneo.it.
5 Il riferimento è al rinvio pregiudiziale sollevato dall’ordinanza del g.i.p. di Varese, 30.10.2015, n. 588, consultabile in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Zoli, L., La disciplina dei reati tributari al vaglio della Corte di giustizia UE, 15.4.2016.
6 Cfr. art. 7, co. 1, d.l. 30.9.2003, n. 269, conv. in l. 24.11.2003, n. 326.
7 L’occasione per un simile giudizio incidentale potrebbe essere offerta da un procedimento a quo relativo ad un fatto di infedele dichiarazione commesso prima della riforma del 2015 per un importo superiore alla precedente soglia di 50 mila euro, ma inferiore alla nuova soglia di 150 mila euro.
8 Si tratterebbe, più precisamente, dell’art. 4 d.lgs. n. 158/2015, che ha modificato la previgente versione dell’art. 4 d.lgs. n. 74/2000.
9 C. giust., 9.3.1978, C106/77, Simmenthal.
10 C.giust.,Grande Sezione,3.5.2005,C387/02, Berlusconi e a.
11 C. giust., Grande Sezione, 8.9.2015, C105/14, Taricco.
12 Questioni di legittimità costituzionali sono state sollevate sia dalla Corte d’appello di Milano (ord. 18.9.2015) sia dalla III sezione della Cassazione (ord. 30.3.2016, n. 28346). In dottrina, si veda, per tutti, Manes, V., La «svolta» Taricco e la potenziale «sovversione di sistema»: le ragioni dei controlimiti, in www.penalecontemporaneo.it, 6.5.2016 (e ivi per ult. rif.).
13 Cfr. Manes, V., La “svolta” Taricco, cit.
14 Cfr., ad esempio, Bin, L., Taricco, una sentenza sbagliata: come venirne fuori?,in www.penalecontemporaneo.it,4.7.2016,p.3.
15 Di questo avviso sembra ad esempio essere Zoli, L., La disciplina, cit.
16 Cit. C. cost., 9.5.1983, n. 148, § 3; cfr. nello stesso senso C. cost., 23.11.2006, n. 394 e 28.1.2010, n. 28.
17 In tal caso la rilevanza della questione risiederebbe proprio nel diverso dispositivo assolutorio che si avrebbe nel giudizio a quo, cfr. supra, C. cost. n. 148/1983.