Le società a tempo indeterminato
Cass., 22.4.2013, n. 9662, ha per la prima volta affrontato il problema dell’equiparabilità ad una società a tempo indeterminato di una società di capitali costituita a tempo determinato ma per un tempo particolarmente lungo, dando a tale quesito risposta affermativa. Le conseguenze di questa scelta sono particolarmente rilevanti, perché così anche a quest’ultima tipologia societaria sono applicabili quelle norme codicistiche (artt. 2437 e 2473 c.c.) che consentono al socio di recedere, purché previa concessione alla società di un periodo di preavviso, anche in assenza del verificarsi di un qualche evento di rilievo quale la trasformazione della società, il trasferimento della sede all’estero, la modifica dell’oggetto sociale. Si tratta di norme chiaramente ispirate dall’esigenza di venire incontro alla necessità, tipica del socio investitore, di non rimanere “prigioniero” della società, allo scopo di renderne più appetibile ai finanziatori l’ingresso, in ragione della consapevolezza della possibilità di una (relativamente) agevole uscita.
In tema di società di capitali, il co. 3 dell’art. 2437, c.c., dettato in tema di s.p.a., stabilisce che «se la società è costituita a tempo indeterminato e le azioni non sono quotate in un mercato regolamentato il socio può recedere con il preavviso di almeno centottanta giorni; lo statuto può prevedere un termine maggiore, non superiore ad un anno». Una norma del tutto analoga è prevista dall’art. 2473, co. 2, c.c. a proposito delle s.r.l.: «nel caso di società contratta a tempo indeterminato il diritto di recesso compete al socio in ogni momento e può essere esercitata con un preavviso di almeno centottanta giorni; l’atto costitutivo può prevedere un periodo di preavviso di durata maggiore purché non superiore ad un anno».
Cass. n. 9662/2013, ha per la prima volta affermato che in una s.r.l. la previsione statutaria di una durata della società per un termine particolarmente lungo (nella specie, l'anno 2100), tale da superare qualsiasi orizzonte previsionale anche per un soggetto collettivo, ne determina l'assimilabilità ad una società a tempo indeterminato; ne consegue che, in base all'art. 2473, co. 2, c.c., compete al socio in ogni momento il diritto di recesso, in quanto sussite la medesima esigenza di tutelare l'affidamento del socio circa la possibilità di disinvestimento della quota da una società sostanzialmente a tempo indeterminato. La Cassazione giunge a questa decisione rilevando che nelle società la previsione della loro durata ha lo scopo di determinare il progetto di attività delle società stesse, per cui una durata eccessivamente lunga impedisce tale delimitazione. Si sottolinea altresì l’ampliamento delle ipotesi di recesso a seguito della riforma, come contropartita delle ampie facoltà attribuite ai soci di maggioranza.
Gli artt. 2437 e 2473 c.c. disciplinano il diritto di recesso dei soci dalle società di capitali e sono fra le norme che più hanno avuto delle modifiche significative con la riforma del 2003, a causa del notevole ampliamento, rispetto al passato, delle ipotesi in cui tale recesso è consentito. Per comprendere al meglio il senso e la portata di tali novità, occorre guardare al diritto di recesso non isolatamente, ma parallelamente alla disciplina dell’alienazione delle partecipazioni, riuscendosi solo così ad avere una visione d’insieme delle reali possibilità per il socio di “uscita” dalla società. Secondo una ormai acquisita distinzione infatti, i membri di un’organizzazione collettiva, nel caso in cui non condividano le scelte della maggioranza, hanno due possibilità: far sentire il proprio dissenso, rimanendo all’interno del gruppo (potere di voice), oppure abbandonare o minacciare di abbandonare il gruppo (potere di exit, che può realizzarsi con l’alienazione delle azioni o della quota o con il recesso)1.
Il termine exit è mutuato dal linguaggio economico e accomuna fenomeni giuridici, quali il recesso e l'alienazione di partecipazioni, che pur essendo molto diversi hanno, dal punto di vista economico, una notevole interdipendenza, la quale con la riforma del 2003 è stata presa in considerazione anche dal diritto: ad esempio alcuni vincoli alla circolazione delle partecipazioni sono validi solo in quanto sia consentito al socio che non abbia votato a favore degli stessi di recedere dalla società2.
Con la riforma è stato dunque tracciato un nuovo punto di equilibrio tra le esigenze di evitare la perdita di risorse da parte della società (che inevitabilmente si verifica con il recesso) e quelle della società stessa di attrarre finanziamenti, consentendo un rapido smobilizzo degli stessi: la riforma ha cioè non soltanto allargato l’ambito dell’autonomia statutaria, ma anche aumentato le ipotesi legali di recesso, correndo il rischio di un più facile depauperamento delle stesse pur di poter attrarre maggiori investimenti.
2.1 Il socio investitore
È un risultato che può dirsi ormai acquisito che la propensione all’investimento aumenta quando si è consapevoli dell’esistenza della possibilità di un pronto e rapido disinvestimento. In effetti, uno dei pilastri delle società di capitali, che ne ha determinato nei secoli il successo, è da sempre stato costituito, insieme alla limitazione della responsabilità dei soci ai soli conferimenti, proprio dalla possibilità di un agevole disinvestimento.
Sembra che la riforma delle società di capitali, nell’intento di favorire l’accesso della società ai finanziamenti, si sia preoccupata di assicurare ai potenziali investitori la possibilità di uscire dalla società stessa con facilità e senza dover temere “sorprese”. Non solo infatti sono aumentate le ipotesi legali di recesso, ma l’analisi di queste ultime e di quelle relative ai vincoli apponibili alla circolazione delle azioni e delle quote permette di concludere che al socio è garantito, al momento dell’entrata nella società, che le possibilità di exit non potranno diminuire nel corso della vita dell’ente collettivo senza che allo stesso socio sia concesso di uscire dalla società, ad un prezzo tendenzialmente corrispondente al valore di mercato delle azioni o delle quote. In effetti, sia la possibilità di fare affidamento sul mantenimento delle ipotesi di exit esistenti al momento dell’entrata nella società, sia quella di poter contare su un valore corretto di liquidazione sono ritenute dalla legge così importanti che specifiche ipotesi di recesso sono proprio costituite dall’eliminazione di una qualsiasi di queste cause e dalla modifica dei criteri per la determinazione del valore di liquidazione della partecipazione.
Occorre evidenziare che questi assunti sono validi quale che sia la struttura concreta dell’exit scelta dai soci: sotto quest’aspetto dunque la loro ampia autonomia organizzativa incontra un limite significativo. Se poi si considerano anche le norme che hanno carattere dispositivo (che pertanto sono valide salva diversa previsione dell’atto costitutivo) si può ben affermare che la disciplina del recesso svolge, congiuntamente a quella relativa all’alienazione delle partecipazioni, la funzione di garantire al finanziatore la possibilità di un tranquillo disinvestimento: ove è più difficile vendere le azioni o le quote (perché ad esempio non si tratta di società quotate sul mercato) si assiste ad un’espansione della disciplina del recesso. L’esempio più significativo è proprio quello del recesso da società costituita a tempo indeterminato, che permette ai soci di sciogliersi in ogni momento con il solo onere di dover concedere un preavviso, ma che non è consentito nelle società quotate nei mercati regolamentati.
2.2 Il recesso da una società costituita a tempo indeterminato
Il recesso da una società costituita a tempo indeterminato prescinde completamente sia da una decisione della società in relazione alla quale il socio abbia espresso il suo dissenso sia conseguentemente anche da qualsiasi modificazione delle condizioni di rischio. Questa ipotesi dunque, combinata all’innovazione che consente di ottenere un valore pieno di liquidazione e a quella che permette di recedere solo per una parte delle partecipazioni, attribuisce al socio di una s.p.a. costituita a tempo indeterminato di mutare la destinazione di tutto o parte del suo investimento all’esito di un processo decisionale completamente indipendente da eventuali cambiamenti subiti dalla società. Emerge pertanto che la necessità di offrire un adeguato finanziamento alle società di capitali, tale da renderle in grado di sostenere la concorrenza sui mercati internazionali, abbia determinato la possibilità che sia offerta agli investitori una possibilità di exit dalla società ragionevolmente agevole e ad un prezzo tendenzialmente corrispondente all’effettivo valore della partecipazione, a prescindere da come tale uscita venga effettivamente realizzata, se tramite alienazione delle partecipazioni o recesso. In effetti ogni volta che la presenza di vincoli alla circolazione delle partecipazioni rende l’alienazione delle stesse difficoltosa, l’istituto del recesso permette di conseguire un risultato del tutto analogo.
Quando poi ci si rende conto che nessuno vuole acquistare la quota, se non si delibera la riduzione del capitale sociale, l'assemblea straordinaria della s.p.a. non può che deliberare, ai sensi del penultimo comma dell'art. 2437 quater c.c., lo scioglimento della società; una regola del tutto analoga è prevista per le s.r.l. dall'art. 2473, penultimo comma, c.c. Queste regole aiutano la trasparenza sul mercato e il buon funzionamento dei meccanismi concorrenziali, perché determinano l’uscita dell’impresa che non ha fornito buona prova di sé, e la cui conservazione produrrebbe solo ulteriori costi sociali, in consonanza con la direttiva impartita dalla legge delega secondo cui obiettivo prioritario della riforma è quello di garantire la competitività delle imprese.
La riforma delle società di capitali ha integrato il disposto dell’art. 2328 c.c., dettato in tema di atto costitutivo della s.p.a., aggiungendo un ulteriore requisito a quest’ultimo, ovverosia la necessità che sia in esso indicata «la durata della società ovvero, se la società è costituita a tempo indeterminato, il periodo decorso il quale il socio potrà recedere»3; l’art. 2475 c.c., invece, che stabilisce cosa debba contenere l’atto costitutivo di una s.r.l., non contiene alcun riferimento alla necessità dell’indicazione della durata, come invece accadeva nel testo anteriore alla riforma del 2003.
L’art. 2437, co. 3, c.c., afferma che se una s.p.a. è costituita a tempo indeterminato il socio può recedere; in tema di s.r.l., l’art. 2473, co. 2, c.c., stabilisce che nel caso di società contratta a tempo indeterminato il diritto di recesso compete al socio in ogni momento. La facoltà di recesso da una società costituita a tempo indeterminato prescinde dunque completamente, al contrario delle ipotesi indicate dal primo comma degli artt. 2437 e 2473 c.c., da una delibera societaria nei confronti della quale non si sia espresso un voto favorevole, e mette pertanto in crisi quelle giustificazioni del recesso fondate esclusivamente su un concetto dello stesso quale strumento di reazione concesso in alcuni casi alla minoranza ad una decisione non gradita4.
Nel corso dei lavori preparatori si era discusso circa l'opportunità di inserire nella legge di riforma una norma che consentisse il recesso anche quando la durata della società fosse stata stabilita per un periodo superiore ai cinquant'anni. L'ipotesi di lavoro era pertanto che si potesse addivenire ad una norma simile a quella (art. 2285 c.c.) dettata in tema di società di persone, che stabilisce che il socio possa recedere dalla società quando questa «è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci». Si decise, infine, di non statuire nulla sul punto: non è pertanto espressamente prevista la possibilità di recedere nel caso di società contratta sì a tempo determinato ma per un periodo particolarmente lungo, tale da coincidere in linea di massima con le aspettative di vita di un socio di età media (ipotesi dunque di fatto assimilabile ad una società contratta a tempo indeterminato)5.
In effetti, sembra che il cuore del problema affrontato dalla Cassazione stia proprio nella possibilità o meno di individuare un vuoto normativo effettivamente esistente nell’ordinamento e consistente nella mancata disciplina del recesso in caso di società costituita per un tempo particolarmente lungo.
Per arrivare ad una conclusione diversa da quella cui è giunta la Cassazione con la sentenza n. 9662/2013, avrebbero forse potuto maggiormente valorizzarsi i lavori preparatori, in cui si era prospettato il problema dell’assenza di una disciplina del recesso da società costituita per un tempo particolarmente lungo, e così si sarebbe potuti giungere alla conclusione che quel vuoto normativo riguardante il recesso da società costituita a tempo determinato era stato voluto, e avrebbe potuto altresì sostenersi che la scelta di far dipendere la facoltà di recesso da una durata della società costituita per un tempo particolarmente lungo si sarebbe posta insanabilmente in contrasto con le caratteristiche proprie delle società di capitali, che nulla hanno a che vedere con le persone dei soci. Infatti la durata di una società di capitali è legata alle sue capacità di sviluppo e alla solidità della sua organizzazione e del suo patrimonio destinato, e pertanto prescinde dalla permanenza in vita dei suoi fondatori. Nel caso di società di capitali contratta per tutta la vita di uno dei soci la mancanza di una facoltà di recesso non avrebbe potuto allora dirsi in contrasto con il principio di ordine pubblico della non perpetuità dei vincoli obbligatori, qualora si intenda la perpetuità in senso relativo, come tendenzialmente corrispondente alle aspettative di sopravvivenza di un uomo medio.
Pertanto, se la ratio giustificatrice della facoltà di recesso nel caso di rapporti a tempo indeterminato, anche in assenza di un’esplicita previsione, è quella di garantire la possibilità di porre fine ad una situazione indeterminata, e come tale incerta e insicura, non potrebbe conseguentemente arguirsi che tale norma possa trovare applicazione in via analogica anche alle società di capitali contratte per un tempo tendenzialmente corrispondente o superiore alla vita di un uomo6. Potrebbe però allora avanzarsi l’ipotesi di una società costituita sì a tempo determinato, ma per un periodo particolarmente lungo e nettamente superiore alla vita di un uomo, ad esempio cinquecento anni. Anche in tali casi però sembrerebbe che l’impossibilità di ricorrere all’analogia avrebbe potuto farsi discendere dalle esigenze di certezza e trasparenza nei confronti di terzi e dei soci stessi che solo l’assolutezza della formula del tempo indeterminato può dare: infatti, non potendo la vita dell’uomo valere da discrimine tra società aventi durata assimilabile ad un tempo indeterminato e società ad esse non accostabili, si creerebbe un’intollerabile incertezza circa la possibilità o meno per i soci di recedere ad nutum dalla società, potendosi sempre individuare ipotesi-limite in cui sia estremamente incerta la valutazione circa la possibilità o meno di ricorrere all’analogia7.
2.3 La proroga della società per un tempo particolarmente lungo
Problemi simili a quelli poc’anzi descritti potrebbero altresì sorgere nell'ipotesi di delibera assembleare di proroga della società per un tempo particolarmente rilevante, tale da suscitare quelle esigenze sopra ricordate di tutela del socio nei confronti di vincoli tendenzialmente perpetui. Infatti, il co. 2 dell’art. 2437 c.c. stabilisce che lo statuto può disporre che non costituisca una legittima causa di recesso la proroga della società, che può essere effettuata per un periodo così lungo da trasformare, di fatto, l’ente collettivo in una società a tempo indeterminato, con conseguente possibile esigenza per il socio dissenziente di uscire dalla società.
In effetti, quando non risultino particolari motivi che giustifichino una modifica dell’atto costitutivo diretta a prolungare la durata della società e si sia vicini alla scadenza della stessa, si crea un affidamento del socio allo scioglimento dell’ente e alla liquidazione delle proprie quote o azioni. Ecco allora che anche in questo caso si porrebbe il quesito circa l’applicabilità in via analogica della disciplina che consente il recesso dalle società a tempo indeterminato8, ma avrebbe potuto contrapporsi alle ragioni della Cassazione le esigenze di certezza che consigliano di escludere la possibilità di ricorrere all’analogia.
A favore dell’applicabilità in via analogica dell’art. 2437, co. 3, c.c., agli esempi sopra riportati non sembra possa predicarsi che ricorra l’eadem ratio della sussistenza del principio generale di carattere imperativo della non perpetuità dei vincoli obbligatori9.
In effetti il legislatore, sia nelle s.p.a.10 che nelle s.r.l.11 ha ritenuto che lo statuto possa escludere o aggravare il diritto di recesso nel caso di società conclusa senza un limite di durata12: se si fosse trattato di un principio inderogabile, frutto di esigenze riconducibili all’ordine pubblico tale deroga non sarebbe stata possibile. Il divieto dei vincoli perpetui sembra dunque un principio che non possa avere cittadinanza in tema di società di capitali, o quanto meno non riveste il carattere di principio di ordine pubblico economico, anche perché in tali tipologie di enti collettivi è consentito cedere le proprie azioni o quote senza dover chiedere il consenso degli altri soci; quando poi sia statutariamente prevista l’impossibilità di vendere la propria partecipazione senza poter prescindere dall’assenso degli altri soci13, è sempre previsto quel meccanismo alternativo di uscita che è il recesso. Nel momento in cui viene costituita una società, infatti, quand’anche essa nasca da un contratto, si crea un soggetto giuridico in grado di entrare in contatto con i terzi, che gode di vita autonoma rispetto ai soggetti che l’hanno creato e che è fisiologicamente destinato a durare potenzialmente all’infinito.
Pertanto, quello che ha durata perpetua quando viene costituita una società di capitali a tempo indeterminato è la società stessa, e non anche un ipotetico vincolo a carico dei soci, che sono liberi in qualsiasi momento di negoziare sul mercato le quote; al contrario, nelle società di persone, il diritto di recesso si giustifica anche nel caso di società contratta per tutta la vita di un socio in ragione della difficoltà di cedere la quota di partecipazione ad essa. Tale argomento è confermato dalla scelta legislativa (art. 2437, co. 3, c.c.) di escludere la facoltà di recesso dalle società che, in quanto quotate in un mercato regolamentato, non offrono problemi relativi al reperimento di acquirenti.
La scelta di attribuire un diritto di recesso al socio che appartiene ad una società senza limiti di durata non si presentava obbligata, tanto è vero che è possibile pattuire l’esclusione di tale facoltà e che prima del d.lgs. 17.1.2003, n. 6 era sì sempre possibile costituire una società a tempo indeterminato, ma senza che fosse attributo un particolare e ulteriore diritto di recesso ai soci rispetto ai casi tassativamente previsti dalla legge14.
La mancata possibilità di recedere da una società quotata rappresenta un ulteriore argomento a favore del fatto che tale previsione non costituisca un principio di ordine pubblico economico: infatti non potrebbe certo affermarsi che mentre la società di capitali “chiusa” è assimilabile ad un contratto, la società quotata è completamente sganciata da esso e non varrebbero, dunque, per quest’ultimo ente associativo, i principi, quale è appunto quello della non perpetuità dei vincoli obbligatori, di derivazione prettamente contrattuale. Vero è, piuttosto, che la società quotata ha un sistema che permette l’alienazione delle azioni tendenzialmente molto più facile e sicuro delle società di capitali “chiuse”.
Diverso è invece il discorso per quanto riguarda una modifica statutaria, adottata a maggioranza, diretta ad eliminare la facoltà di recesso in caso di proroga della società. In tal caso infatti l’art. 2437, co. 1, lett. e), c.c., stabilisce espressamente che il socio dissenziente ha diritto di recedere. Tale norma si spiega perché in questo caso la modifica è successiva rispetto all’entrata nella società del socio, che aveva pertanto fatto affidamento su di un diverso assetto relativo alla possibilità di uscita nel tempo. Nessun affidamento da tutelare invece può essere naturalmente vantato nel caso in cui, in una società che già preveda il divieto di recesso per l’ipotesi di proroga, questa venga effettivamente decisa.
3.1 Il preavviso
L’art. 2437, co. 3, c.c. stabilisce che se una s.p.a. è costituita a tempo indeterminato e le azioni non sono quotate in un mercato regolamentato il socio può recedere con un preavviso15 di almeno centottanta giorni; lo statuto può prevedere un termine maggiore, ma comunque non superiore ad un anno16. L’art. 2473, co. 2, c.c. prevede poi che, nel caso di s.r.l. contratta a tempo indeterminato, il diritto di recesso compete al socio in ogni momento e può essere esercitato con un preavviso di almeno sei mesi; l’atto costitutivo può prevedere un periodo di preavviso di durata maggiore purché non superiore ad un anno17.
Dalle norme sopra citate si ricava che nell’arco temporale compreso tra i sei mesi e l’intero anno è lasciato all’autonomia dei soci prendere la decisione che si riterrà più opportuna circa la durata del preavviso, che dovrà comunque essere esplicitamente indicata nello statuto18. La modifica del termine di preavviso (e in particolare un suo aumento) potrebbe pertanto significare un sostanziale cambiamento delle condizioni di permanenza all'interno della società, rendendo notevolmente più difficoltosa l’uscita dalla stessa.
D’altro canto tale modifica non è contemplata tra le cause legali che legittimano il recesso, mentre lo è invece (cfr. art. 2437, co. 1, lett. e, c.c.) l’eliminazione di una o più cause di recesso che siano previste dallo statuto o dalla legge ma considerate derogabili. Sembra però che tale mancata previsione non costituisca una lacuna normativa colmabile attraverso un procedimento di applicazione analogica della norma poc'anzi citata. Infatti, è vero che la modifica dello statuto consistente nel prolungamento del termine di preavviso costituisce un’alterazione delle condizioni di uscita dalla società di capitali, ma tale modifica incontra comunque il limite legale di un anno massimo di preavviso. Non può pertanto individuarsi la stessa ratio che giustifica la norma di cui all'art. 2437, co. 1, lett. e), c.c., che si riferisce alle ipotesi ben più drastiche della completa eliminazione di una causa di recesso: il legislatore ha ritenuto meritevoli di tutela – e prevalenti su quelle dei terzi e della società stessa al mantenimento dell’integrità del capitale sociale – le esigenze del socio dissenziente solo nel caso di completa eliminazione di una o più cause di recesso, non anche nel caso in cui l’esercizio dello stesso sia reso più gravoso.
3.2 Società di capitali e recesso ad nutum
L’assetto attuale della disciplina societaria permette, attraverso lo strumento della costituzione della società a tempo indeterminato, di assegnare ai soci una facoltà di recesso ad nutum che, peraltro, potendo essere concessa solo mediante un’espressa indicazione nello statuto, attribuisce sia ai soci che ai terzi la conoscenza in anticipo della sua eventuale esistenza.
Nulla impedisce, peraltro, che la durata a tempo indeterminato venga inserita nello statuto successivamente, il più delle volte probabilmente proprio allo scopo di introdurre una facoltà di recesso ad nutum, altrimenti dubbia per via di una specifica clausola statutaria in tal senso.
Quindi, pur dovendosi riconoscere la validità del principio della facoltà di recesso dai vincoli perpetui solo nella materia dei contratti e delle società di persone, si ritiene di poter predicare l’esistenza di un più generale principio – questo valido anche in materia di società di capitali – che consente in ogni caso la possibilità – almeno in astratto, perché in concreto potrebbe essere assai complicato trovare l’acquirente di azioni o quote di una società – di uscire dai vincoli obbligatori perpetui (salvo l’osservanza di un periodo più o meno lungo di preavviso), poco importa come quest’uscita effettivamente si realizzi (recesso o possibilità di alienare la partecipazione). Così ad esempio, nel caso in cui venga introdotto un divieto di alienazione (artt. 2355 bis e art. 2469, co. 2, c.c.) è però sempre prevista la possibilità di recedere dalla società.
1 Hirschman, A.O., Exit, voice and loyalty, Harvard, 1970, Milano, 1982; Delli Priscoli, L., L’uscita volontaria del socio dalle società di capitali, Milano, 2005, 14.
2 Si pensi ad esempio all’art. 2355 bis c.c., che stabilisce che le clausole che subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento degli organi sociali sono inefficaci se non prevedono a carico della società o dei soci un obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso dell’alienante, o all’art. 2437, co. 2, lett. b), c.c., che fra le ipotesi che attribuiscono delle facoltà di recesso derogabili dalle parti contempla l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni.
3 Da quest’indicazione emerge che la società può essere costituita a tempo determinato o indeterminato, e che pertanto un’indicazione in un senso o nell’altro deve essere comunque presente nell’atto costitutivo perché questo sia valido; il vecchio testo dell’art. 2328 c.c., invece, al n. 11, stabiliva soltanto che l’atto costitutivo doveva indicare «la durata della società».
4 Nel caso del recesso da una società a tempo indeterminato infatti, non solo può benissimo non esservi stata alcuna decisione presa dalla maggioranza dei soci a seguito della quale un socio di minoranza abbia deciso di uscire dalla società, ma la decisione di esercitare il recesso potrebbe essere presa dalla stessa maggioranza se non addirittura dalla totalità dei soci per motivi che potrebbero prescindere completamente da eventuali scelte strategiche della società non condivise.
5 Cfr. App. Napoli, 17.1.1997, in Nuovo dir., 1997, 197, sentenza secondo cui la durata della società superiore alla vita media dell’uomo equivale al tempo indeterminato, per cui è consentito al socio di recedere da essa. In particolare è stato affermato che non è sostenibile che un arco temporale di 64 anni sia tale da garantire ai soci – per quanto giovani al momento della costituzione della società – una concreta possibilità di sopravviverle.
6 Si è detto infatti che non vi sono ostacoli all'utilizzo del procedimento di applicazione in via analogica in relazione alle norme in tema di recesso, non atteggiandosi esse come eccezionali.
7 La confusione sarebbe aggravata dal fatto che, prescindendo la determinazione della durata della società assimilabile ad una a tempo indeterminato dal riferimento alla vita dell’uomo, sarebbe ben sostenibile che una società di capitali di durata relativamente breve possa essere assimilata ad una di durata indeterminata per il fatto che tale durata sarebbe comunque sufficiente ad esaurire la vita fisiologica della società, in relazione ad esempio al particolare oggetto sociale della società, quale la produzione di un bene ad alta tecnologia.
8 Peraltro, mentre tale ipotesi non era contemplata dall’art. 2437 c.c. prima della riforma del 2003, l’art. 158 dell’abrogato c. comm. contemplava espressamente questa possibilità, stabilendo che in questo caso il socio dissenziente potesse recedere dalla società.
9 Cfr. gli artt. 24, 1569, 1596, co. 2, 1616, 1627, 1750, 1833, 1855, 1899, co. 1, 2183, 2285, 2307, co. 3, c.c., che rappresentano delle esplicazioni di tale principio.
10 In effetti, l’ultimo comma dell’art. 2437 c.c. afferma l’inderogabilità delle sole ipotesi legali indicate nel primo comma (il recesso da una società a tempo indeterminato è invece disciplinato nel terzo).
11 Nelle s.r.l. non esiste una norma esplicita (come è invece nel caso dell’ultimo comma dell’art. 2437 c.c. per le s.p.a.) che permetta di escludere statutariamente la facoltà di recesso in caso di società contratta a tempo indeterminato: tuttavia tale facoltà la si ricava da un’interpretazione sistematica dell’art. 2473 c.c.
12 Un’applicazione in via analogica risulterebbe dunque inutile per quanto riguarda l’ipotesi della proroga della società, al cui verificarsi è attribuita con norma dispositiva la facoltà di recesso.
13 La Relazione governativa, nel commentare la previsione che permette il recesso nel caso di società a tempo indeterminato spiega che tale facoltà è attribuita «conformemente ai principi generali in tema di contratti», dimentica però che in materia di contratti il recesso come limite al vincolo perpetuo ben si giustifica in funzione dell’impossibilità per la parte di liberarsi degli obblighi mediante la cessione del contratto senza il consenso del contraente ceduto.
14 Anche un’eventuale previsione dello statuto diretta a consentire in tal caso il recesso non sarebbe pertanto stata valida.
15 Il contratto si scioglie solo quando sia interamente decorso il periodo di preavviso; tuttavia la dichiarazione di recesso è immediatamente impegnativa e, pertanto, la parte che di essa si sia pentita potrebbe legittimamente impedire lo scioglimento del contratto manifestando tale volontà all'altra parte solo prima del momento in cui l’altro ne sia venuto a conoscenza; successivamente, perché il rapporto possa proseguire oltre il periodo di preavviso, sarà necessario il consenso di tutte le parti: cfr. in questo senso Cass., 16.4.1953, n. 1021.
16 L’art. 2328, n. 13, c.c. stabilisce inoltre che, se la società è costituita a tempo indeterminato, lo statuto deve indicare il periodo di tempo, comunque non superiore ad un anno, decorso il quale il socio può recedere.
17 L’art. 2285 c.c. stabilisce che in tema di società di persone il recesso da una società a tempo indeterminato debba essere comunicato con un preavviso di almeno tre mesi.
18 L’autonomia statutaria ha dunque modo di esprimersi anche in questa decisione, apparentemente di non particolare rilievo, ma che invece potrebbe risultare in molti casi di importanza notevole. Infatti, quanto più breve sarà il termine di preavviso che il socio dovrà concedere alla società, quanto più i finanziatori saranno desiderosi di convogliare i loro capitali nella società; d’altro canto un termine di preavviso eccessivamente breve rischia di non permettere alla società, una volta ricevuta la comunicazione da parte del socio della volontà di effettuare il recesso, di organizzarsi in modo tale da attenuare od eliminare gli effetti dannosi dello stesso.