di Roberto da Rin
Da guerrigliera a presidente del Brasile. Poco empatica, rigida, non telegenica, Dilma Rousseff è approdata alla guida del Brasile il 1° gennaio 2011. Nessun esperto di marketing politico, pochi anni prima, avrebbe scommesso un real su di lei. Invece ha vinto.
Figlia di un immigrato bulgaro e di una maestra elementare brasiliana, nasce nel 1947 a Belo Horizonte. Infanzia agiata e adolescenza serena, poi allevata nella serenità degli studi classici, Dilma frequenta la facoltà di Economia di Campinas. Fin dagli anni dell’università è la politica a tracciare un solco profondo nella sua personalità e nella carriera. Nel lungo ventennio brasiliano piegato dalle dittature (1964-1985), Rousseff trascorse quasi tre anni in prigione, tra il 1970 e il 1972, in quanto fiera oppositrice del regime. Membro di COLINA (Comando di liberazione nazionale), organizzazione di matrice socialista, ne diventa un’esponente di spicco. Il suo percorso politico, tutto interno al PT (Partito dei lavoratori), l’ha portata a ricoprire incarichi prestigiosi, tra cui quello di ministro dell’energia e poi della Casa civil, equiparabile al ministero dell’Interno. Una carriera culminata con l’elezione alla presidenza del Brasile, dopo due mandati di Lula da Silva. La sua formula elettorale pareva un po’ retrò, Socialismo sem rupturas, socialismo senza discontinuità. Una scelta criticata, coerente con i rituali dell’apparato del PT, un partito ideologico, un po’ ingessato dalle procedure, ma che ha saputo condurre la candidata alla vittoria. Smentiti tutti coloro che ne sminuivano le capacità di attrazione del consenso: gli esperti di marketing brasiliani sostenevano che Rousseff «pareva una professoressa di matematica, rigida, poco socievole e piuttosto antipatica ». E ne deducevano quanto difficile fosse vincere un’elezione presidenziale con una candidata così.
Dilma incarnava l’esatto opposto dei paradigmi culturali dominanti in Brasile: il fisico prima di tutto, i glutei scolpiti, il seno modellato, il viso ritoccato. Eppure ha stravinto. Anche se, ironia della sorte, si è rivolta al chirurgo estetico dopo i sessant’anni. Costretta a rispondere alle leggi della tv, del marketing, di quell’apparenza da lei sempre snobbata. «Niente bisturi, solo bioplastia», ha cercato di minimizzare il medico di Dilma.
Intransigente e integerrima, è l’erede politico di Lula, ‘in linea diretta’. Non avrebbe dovuto toccare a lei la successione. L’erede designato era José Dirceu, braccio destro di Lula, travolto dagli scandali sui voti comperati.
La profonda crisi scoppiata all’interno del PT costringe i vertici del partito a ridisegnare equilibri e candidature. E’ qui che l’incorruttibile Dilma riesce a coaugulare consensi imprimendo un nuovo corso al complesso apparato amministrativo nazionale e provinciale del partito. Quello di Lula è stato un vero miracolo politico, a vantaggio di Dilma: convincere le agenzie di rating, conquistare la fiducia dei finanzieri e diventare icona delle due anime della sinistra latinoamericana, quella monetaria e quella radicale.
Dai socialdemocratici di Michelle Bachelet ai socialisti- rivoluzionari di Hugo Chávez, dai peronisti progressisti di Cristina Fernández de Kirchner ai cocaleros di Evo Morales, dai liberalsocialisti uruguaiani ai comunisti cubani. Tutti pronti a supportare Dilma Rousseff.
Ce l’ha fatta: donna, né bella, né giovane, né di charme, ha vinto e convinto. Brasiliani e comunità internazionale.
Gli obiettivi del mandato erano chiari: consolidare la ripresa economica, dilatare la classe media, evitare il rinfocolarsi dell’inflazione, mantenere intatti gli equilibri macro-finanziari. E infine rispettare scadenze e impegni in vista di due appuntamenti importanti: i Campionati del mondo di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016. Raggiunti? In parte. La congiuntura economica internazionale non ha giocato a favore di Rousseff: proprio nel 2010, anno della sua vittoria elettorale, la crisi economica internazionale si è inasprita e neppure il Brasile, che pure può contare su un grande mercato interno, ne è rimasto immune.
Il tasso di crescita annuale del PIL, vicino al 7% fino al 2010, si è fortemente contratto dal 2011 al 2013. Gli equilibri macroeconomici sono stati mantenuti, in compenso nel giugno 2013 è sorto un movimento di protesta che ha portato in strada decine di migliaia di brasiliani. Un’ondata di violenza difficile da interpretare proprio perché scaturita dopo una crescita economica lunga un decennio e capace di trascinare fuori dalla povertà milioni di cittadini. Che ora, paradossalmente, chiedono una nuova catarsi: da consumatori a cittadini. Servizi migliori, sanità affidabile e capillare, scuole di qualità più elevata. Insomma un nuovo contratto sociale, con un welfare efficiente e magari meno spese per i lavori faraonici di stadi e villaggi olimpici. Rousseff ha proposto un’interpretazione originale di queste proteste: della classe media ci si deve occupare sempre, anche se i miserabili sono più facili da intercettare e magari aiutare. Con ironia, ha concluso così: «Il Brasile è un paese strano, puoi esser arrestato per avere un cane, oppure per non averlo».