L’evento che ha portato con forza al centro del dibattito politico e scientifico contemporaneo il rapporto fra religione e politica internazionale è stato indubbiamente l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Come però mostra anche Enzo Pace in questo capitolo, in realtà il fattore religioso è stato già decisivo nelle trasformazioni del sistema internazionale ben prima della fine della Guerra fredda. È comunque nel dopo-Guerra fredda e, in particolar modo, dopo l’11 settembre, che si è andato affermando un discorso pubblico e scientifico che vede nel ritorno della religione una fonte rilevante di instabilità internazionale: l’associazione tra terrorismo e fondamentalismo religioso, come nel caso del fondamentalismo islamico ma anche di quello cristiano o induista; il ruolo negativo della religione nelle cosiddette ‘nuove guerre’, motivate da una politica identitaria spesso disegnata lungo linee di divisione religiose, come nella dissoluzione della Iugoslavia; e infine le religioni come forza scatenante di un futuro scontro tra civiltà, secondo la nota teoria dello studioso statunitense Samuel Huntington. In altri termini, nell’attuale riflessione sulle relazioni internazionali, l’incontro tra religione e relazioni internazionali produrrebbe necessariamente violenza politica, instabilità e disordine internazionale.
Tale proposizione, d’altra parte, non è nuova: infatti, gli elementi costitutivi della politica internazionale moderna si sono consolidati nell’Europa del 17° secolo proprio per porre fine alle guerre di religione tra cattolici e protestanti. Questa è la storia della pace di Vestfalia (1648) che, mettendo fine alle guerre civili di religione che avevano devastato l’Europa per più di un secolo, istituzionalizza un nuovo modello di coesistenza internazionale fondato sulla sovranità statale e sulla norma del non intervento, sancita dal principio del cuius regio eius religio. Con Vestfalia, la politicizzazione della religione diviene la minaccia ultima all’ordine, alla sicurezza e alla “civiltà” internazionale e, quindi, la separazione tra religione e relazioni internazionali viene istituzionalizzata. È in questo senso che ho sostenuto che con Vestfalia le religioni entrano, metaforicamente parlando, in una lunga fase di esilio.
L’esclusione della religione non riguarda solamente la pratica, ma anche la teoria delle relazioni internazionali. Molto prima che l’Illuminismo aprisse la strada a uno studio social-scientifico della politica internazionale (traiettoria che porterà nel 20° secolo alla creazione e al consolidamento della disciplina delle relazioni internazionali), le circostanze storiche summenzionate avevano già prodotto una secolarizzazione del discorso sulla politica internazionale. In realtà, non bisogna dimenticare che il diritto internazionale moderno, senza dubbio il predecessore della disciplina delle relazioni internazionali, è nato sotto gli auspici della celebre invettiva di Alberico Gentili Silete theologi in munere alieno («Teologi, astenetevi dagli ambiti che non vi riguardano»), che segnava simbolicamente la fine della respublica christiana e la nascita di una nuova epoca, quella dell’era vestfaliana nella quale, per l’appunto, la politica internazionale sarebbe stata analizzata da un punto di vista laico e non più teologico.
Questo breve riferimento genealogico fa intravedere alcune delle ragioni più profonde che possono spiegare questa sorta di ‘disagio’ della riflessione internazionalista rispetto alla questione della religione – disagio che si è tradotto per lo più, nel pensiero internazionalistico contemporaneo, nella forma del silenzio o del discorso ‘a senso unico’ di cui sopra. Infatti, vorrei suggerire che tale disagio è fondamentalmente legato alla ‘politica secolarizzante’ della struttura dell’autorità all’origine della sintesi vestfaliana che ha influenzato il pensiero internazionalista nel senso della neutralizzazione – e di conseguenza della caratterizzazione univoca – dell’elemento religioso. Vestfalia – e il corollario del legame inevitabile tra religione e instabilità internazionale – è, però, un’esperienza europea e non permette di comprendere una dimensione essenziale del ritorno contemporaneo delle religioni: questo ritorno è la manifestazione più evidente di una ‘rivolta contro l’Occidente’ e di una resistenza culturale contro l’occidentalizzazione del mondo. In altre parole, le tradizioni religiose assumono un ruolo centrale nel processo politico di ricerca di una nuova ‘autenticità culturale’, partendo dalla denuncia dei fallimenti (di sviluppo e di democratizzazione) delle strategie occidentali di modernizzazione fondate sullo stato laico e la marginalizzazione socio-culturale della religione. In questo contesto, le nuove parole d’ordine diventano quelle di indigenizzare la modernità, piuttosto che modernizzare le società indigene. Questa tendenza si è andata rafforzando con la fine del bipolarismo, quando veniva trionfalisticamente annunciata la vittoria dell’unico modello liberale e occidentale.
Infine, questa visione eurocentrica trascura il ruolo positivo che la politicizzazione della religione può giocare nei processi di modernizzazione, democratizzazione e risoluzione dei conflitti: si pensi a Gandhi per l’indipendenza dell’India e a Martin Luther King per il movimento dei diritti civili negli Usa, ma anche al ruolo dell’Akp, partito di ispirazione islamica, nella recente consolidazione democratica della Turchia, o al caso delle chiese cristiane nella transizione pacifica del Sudafrica post-apartheid. Crescenti, inoltre, sono i casi di ‘diplomazia degli attori religiosi’, come la mediazione della comunità di Sant’Egidio nell’accordo di pace che ha messo fine a vent’anni di guerra civile in Mozambico.