Le regioni nell'arena europea
La valorizzazione delle regioni appartiene all’intera storia dell’integrazione europea. Era già presente nei documenti che sancirono la formazione del Mercato comune europeo nel 1957. Negli anni Sessanta furono realizzati interventi in favore delle regioni meno sviluppate e nel 1969 venne creata a Bruxelles una Direzione specializzata in politica regionale. Ma fu nel 1975 che la creazione del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) pose le premesse per quello che sarebbe diventato uno degli assi portanti della politica comunitaria. Tutti gli osservatori concordano nel giudicare che il nuovo corso ‘regionalista’ iniziò con il rilancio del programma di integrazione nel 1982 e che acquistò un ritmo sostenuto con l’arrivo alla presidenza della Commissione di Bruxelles di Jacques Delors nel 1985. Subito dopo si ebbero passaggi significativi con l’Atto unico europeo del 1986 e con il Trattato di Maastricht del 1993. L’Atto unico sottrasse le regioni alla tutela degli Stati e dotò l’allora Comunità Europea di una vera politica regionale, facendo della dimensione regionale una componente fondamentale della politica europea e collocando le regioni nel quadro comunitario.
Ancora per merito di Delors venne istituito nel 1988 il Consiglio consultivo degli enti locali e regionali (CCELR). Nello stesso anno il Parlamento di Strasburgo adottò una risoluzione di sostegno al ruolo delle regioni, la cosiddetta Carta comunitaria della regionalizzazione. Nel 1991 le tre istituzioni comunitarie (Parlamento, Commissione e Consiglio dei ministri) emisero una dichiarazione congiunta denominata Carta delle regioni d’Europa. Dopo il Trattato di Maastricht le politiche di quella che nel frattempo era diventata l’Unione Europea ebbero modo di esercitare un’influenza diretta sui governi regionali, e i ministri regionali di alcuni Stati ottennero la facoltà di partecipare alle riunioni del Consiglio dei ministri che affrontassero problemi concernenti i loro enti. Infine, l’entrata in funzione definitiva del Mercato unico ha tolto altre competenze agli Stati e allargato le competenze regolative dell’Unione, aprendo ulteriori spazi di manovra per gli enti substatali. Il Trattato, sotto la pressione di organismi come l’Assemblea delle regioni d’Europa e il Consiglio d’Europa, nonché delle regioni più forti (i Länder tedeschi primi fra tutti), stabilì inoltre che si costituisse una camera di rappresentanza delle regioni, il Comitato delle regioni. Organo ufficiale dell’Unione, il Comitato delle regioni, insediatosi nel 1994, non è divenuto quella ‘terza camera’ che i regionalisti di tutta Europa auspicavano, come lasciava sperare la sua partecipazione ai lavori della Convenzione che redasse il testo del Trattato dell’Unione nel 2004. È restato un organo consultivo che esprime pareri in ambiti divenuti via via più numerosi nel corso degli anni. Durante i lavori della Convenzione per la Costituzione europea il Comitato esercitò una costante pressione, riuscendo a far adottare alcuni degli emendamenti presentati. Anche se non ha conseguito i suoi scopi più ambiziosi, perché i grandi temi del dibattito schiacciarono le esigenze delle regioni, l’organo è stato comunque inserito nel Trattato della Costituzione europea. Dopo l’allargamento del 2004 il Comitato delle regioni è passato da 222 a 317 membri, 155 dei quali rappresentano i comuni, 135 le regioni e 27 gli enti intermedi – con altrettanti membri supplenti. La rappresentanza delle regioni è ormai definitiva nell’architettura dell’Unione Europea, come definitivo è il riconoscimento del principio di sussidiarietà e del sistema delle autonomie regionali e locali.
Le regioni sono oggi attori politici riconosciuti e, a loro modo, protagonisti nell’arena europea, intendendo con arena europea uno spazio che è andato, e in alcuni casi ancora va, al di là dei confini dell’Unione. Alcune regioni europee hanno stabilito da almeno quarant’anni rapporti fra loro, scavalcando spesso i confini dei rispettivi Stati e talvolta quelli di un ente europeo che si è via via allargato. Hanno esteso forme di collaborazione e di rappresentanza con enti substatali di Stati che non facevano ancora parte dell’Unione e con altri che, a tutto il 2013, non ne fanno parte, come la Norvegia e gli Stati Balcanici, quando addirittura non si trovano fuori del continente, come gli Stati del Maghreb. Nel corso dei decenni la cosiddetta ‘attivazione regionale’ si è costantemente intensificata, articolandosi nelle forme più varie e molteplici di associazioni e di cooperazione, di accordi e di rappresentanza.
La già ricordata Assemblea delle regioni d’Europa (ARE) è la più importante fra le associazioni cosiddette generaliste, quelle cioè che, composte da un numero elevato di membri, hanno la finalità di rappresentare l’insieme delle autorità regionali e di dar loro voce politica nei confronti delle istituzioni statali ed europee. Nata nel 1985, l’ARE ha visto crescere negli anni le aderenti, arrivando nel 2012 a circa 350. All’ARE hanno aderito perfino alcuni cantoni svizzeri, nonché regioni di Stati che erano in procinto di entrare nell’Unione o che ne sono ancora fuori.
Il Consiglio dei comuni e delle regioni d’Europa (CCRE) è la più grande associazione di enti locali e regionali e si occupa di vari contenuti di politica regionale, dai servizi ai trasporti, dall’ambiente alle pari opportunità. Il Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa (CPLRE) è un organismo che, nato nel 1994, si è sempre impegnato affinché fosse concesso spazio alle rappresentanze substatali nell’arena europea. Il CPLRE venne poi trasformato in organo consultivo del Consiglio con il compito di seguire gli sviluppi della democrazia locale e regionale nell’Europa dell’Est. Il Consiglio d’Europa, infine, ha istituito al suo interno due Camere, ciascuna composta da 286 membri, la Camera dei poteri locali e la Camera delle regioni.
Le regioni, oltre a essere presenti in queste associazioni ‘generaliste’, hanno stabilito rapporti diretti fra loro, formalizzando diversi tipi di accordi e dando vita ad associazioni stabili. Gli accordi multilaterali obbediscono solitamente a criteri di omogeneità, spesso dettati da esigenze derivanti da vicinanza geografica o da comuni necessità economiche per l’avanzato o il ritardato sviluppo economico o da simili caratteri culturali. Le associazioni vengono classificate come transfrontaliere, interregionali (cioè fra enti non necessariamente contigui) e transnazionali.
Le più attive sono proprio le associazioni transfrontaliere, formate da regioni periferiche dei rispettivi Stati che curano comprensibili interessi comuni e che sono legate da affinità linguistiche e culturali. Delle numerosissime ormai esistenti basterà ricordare intanto quelle dell’arco alpino, perché a esse aderiscono, come si vedrà, tutte le regioni italiane interessate. Tra le più antiche associazioni transfrontaliere vi sono la Comunità di lavoro delle Alpi centrali ARGE Alp (Arbeitsgemeinschaft Alpenländer) e la Comunità di lavoro delle Alpi orientali ARGE Alpen-Adria, alla quale aderiscono anche regioni della Croazia. La Comunità di lavoro delle Alpi occidentali si chiama, a sua volta, COTRAO (Communauté de Travail des Alpes Occidentales) e accoglie anche cantoni svizzeri. Tutte si ritrovano nell’Associazione delle regioni europee di confine che esiste dal 1971.
Le associazioni interregionali specifiche aggregano regioni che hanno precisi e comuni interessi da perseguire. Anche di esse è quasi impossibile tracciare un quadro completo e aggiornato. Si può ricordare che una delle più importanti, almeno per numero di membri, è la Conferenza delle regioni periferiche e marittime (CRPM), sulla quale ci si soffermerà più avanti. Ha istituito nel corso degli anni sette commissioni per altrettante aree geografiche, fra cui quelle per il Mediterraneo e per le Isole, dove è marcata la presenza delle regioni italiane.
Le associazioni hanno di solito natura istituzionale con una struttura organizzativa e tendono quindi a durare nel tempo. Spesso si sono chiamate comunità di lavoro. Si parla talvolta di ‘Reti’. Le Reti hanno una natura maggiormente operativa, si esauriscono quando hanno raggiunto l’obiettivo prefissato e hanno quindi una struttura organizzativa più flessibile. Le più recenti sono la Rete delle regioni per la ricerca e l’innovazione (ERRIN, European Regions Research and Innovation Network) e la Rete delle regioni europee del turismo e della natura.
Se le regioni hanno sviluppato una fitta rete di relazioni, scavalcando i confini dei rispettivi Stati, esse hanno anche stabilito contatti diretti con le istituzioni comunitarie, con attività assimilabili a quelle di natura paradiplomatica. Sicuramente questo è il compito principale che svolgono a Bruxelles gli uffici regionali di rappresentanza. Il primo ente territoriale ad avere un ufficio (rispettivamente bureau o office nelle due lingue della burocrazia di Bruxelles) di rappresentanza non fu una regione ma il City council di Birmingham nel 1984. Subito dopo fu la volta di un altro municipio inglese, Strathclyde. Da quel 1984 si sono susseguite, a ritmo crescente, le aperture di rappresentanze paradiplomatiche per comuni, province, consorzi di comuni e, naturalmente, regioni, che si trovano citate con la sigla RIOs (Regional Information Offices). Tra il 1993 e il 1994 si registrò una crescita esponenziale di queste delegazioni, che nel 1995 erano già 140. Nel 2011 gli uffici erano circa 240, ai quali si possono aggiungere una ventina di uffici di Paesi non comunitari, dalla Norvegia alla Turchia, dalla Croazia a Israele (Comité des régions, Liste des bureaux régionaux à Bruxelles, 2011).
La storia degli uffici regionali a Bruxelles corrisponde in buona parte alla storia dell’attivazione delle regioni nell’arena europea. Di certo ne è uno dei più importanti indicatori, segnalando l’intenzione di stabilire relazioni dirette con le istituzioni comunitarie. Relazioni che cercheranno di essere più strette con i centri decisionali che formulano le politiche regionali. Fu forse di fronte a questi sviluppi che il governo italiano decise di autorizzare le proprie regioni ad aprire uffici a Bruxelles con la l. 6 febbr. 1996 nr. 52. Gli uffici regionali svolgono, con maggiore o minore intensità, funzioni che sono più o meno le stesse: di collegamento con le istituzioni comunitarie e con enti omologhi di altri Stati, di informazione sulle politiche comunitarie, di assistenza tecnica nell’elaborazione dei progetti regionali e di vera e propria rappresentanza con l’organizzazione di incontri e manifestazioni per ‘vendere’ la regione in Europa e ‘vendere’ l’Europa alla propria regione.
Le regioni hanno però adattato le loro amministrazioni all’esigenza di gestire i rapporti con l’Unione, adibendo strutture e assegnando deleghe nei rispettivi governi per lo svolgimento di queste funzioni. La cooperazione interregionale diventa più stretta e proficua quando si tratta di entrare in programmi comuni al fine di ottenere il sostegno, anche e soprattutto finanziario, dell’Unione Europea. Anche le iniziative comunitarie sono le più variegate e sono state mutevoli nel corso dei decenni.
Fra quelle riferite alle regioni italiane, l’iniziativa comunitaria più importante e longeva è INTERREG, nata nel 1991 e giunta al suo quarto ciclo con il Programma comunitario 2007-13. Come suggerisce la sua denominazione, l’iniziativa INTERREG intende stimolare direttamente la collaborazione fra regioni con i programmi più diversi. Poiché le politiche regionali sono seconde solo a quelle agricole, per disponibilità e distribuzione delle risorse, tali iniziative rientrano fra le finalità privilegiate delle politiche comunitarie.
Le regioni sono chiamate ad associarsi fra loro per poter accedere ai fondi europei, in primo luogo ai cosiddetti fondi strutturali. Questi, a loro volta, dovrebbero essere lo strumento principale della cosiddetta ‘politica di coesione’, uno degli obiettivi fondamentali dell’Unione Europea. La politica di coesione passa ormai inevitabilmente per le regioni, proprio perché essa mira a ridurre il ritardo delle meno favorite e quindi il divario fra tutte. ‘Fare rete’ rappresenta forse l’attività prioritaria delle regioni sull’arena europea. D’altronde buona parte della politica europea di coesione e numerosi progetti e programmi che possono o vogliono accedere a finanziamenti implicano necessariamente forme di collaborazione, di cooperazione e di partenariato fra due o più regioni di uno stesso Stato o, più frequentemente, fra regioni di Stati diversi. L’attivazione comporta l’assunzione di linee strategiche sempre più solide, tipiche di quella che è una vera e propria politica europea delle regioni, nella quale le regioni italiane sono state particolarmente coinvolte.
Si è parlato talvolta addirittura di ‘politica estera’ delle regioni (La politica estera delle regioni, 2004). Alcune regioni italiane, infatti, hanno stabilito un’ampia serie di rapporti internazionali, marcando la loro presenza in tutti i continenti. Nell’ambito delle relazioni esterne sviluppate nel vecchio continente, anche le regioni italiane si sono spinte in passato a intessere rapporti con regioni di Stati che erano soltanto in procinto di entrare nell’Unione Europea con l’allargamento del 2004 e continuano a farlo con regioni dei Balcani, del Nord Europa e del Mediterraneo. Questo tipo di rapporti autorizzano a parlare di ‘politica europea’ perché avviene a partire dalla presenza nell’Unione. Di sicuro la politica europea rappresenta per durata e intensità la parte preponderante e prioritaria della politica estera delle regioni.
Il cammino delle regioni italiane verso una presenza autonoma sulle arene internazionali e, in particolare, su quella europea è stato accidentato e tardivo. La Costituzione, nel disciplinare le regioni come nuovo ente territoriale, non accennava affatto a una loro eventuale attività estera e anche l’atteggiamento della Corte costituzionale, al riguardo, è stato a lungo di chiusura. Quando le regioni cominciarono a modificare nel corso degli anni Settanta gli equilibri costituzionali, venne consentito loro di svolgere attività all’esterno dello Stato, attività che non potevano comunque qualificarsi come politica estera. In via di prassi, tuttavia, le regioni cominciarono a intessere rapporti con soggetti stranieri, partecipando a iniziative culturali, congressi, gemellaggi. Come per altri aspetti del decollo delle regioni, il d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 616 fu decisivo anche per la loro potenziale politica estera. Il decreto riconobbe espressamente la facoltà delle regioni di svolgere «attività promozionali all’estero relative alle materia di competenza», sia pure nel rispetto «degli indirizzi e degli atti di coordinamento» statali e previa intesa con il governo. Negli anni immediatamente successivi esse pretesero maggiori concessioni anche grazie agli sviluppi del quadro internazionale. La Convenzione di Madrid del 21 maggio 1980 che aveva disciplinato, e quindi riconosciuto, la cooperazione transfrontaliera, venne resa esecutiva nell’ordinamento italiano dalla l. 19 nov. 1984 nr. 948. La legge abilitava le regioni a porre in essere accordi e intese con enti territoriali stranieri di Stati confinanti.
La giurisprudenza della Corte costituzionale rimase ferma nel richiedere per le attività regionali consentite all’estero la previa comunicazione allo Stato. Una sentenza del 1987 stabilì comunque, pur ribadendo che la politica estera era di esclusiva competenza dello Stato, che anche le regioni potevano compiere «atti di mero rilievo internazionale». Per questo tipo di atti sarebbe stato sufficiente il mero assenso. Con la l. 22 febbr. 1994 nr. 146 venne introdotta una discriminante distinzione fra rapporti internazionali e rapporti con le istituzioni europee. La sopra ricordata l. 52 del 1996 permise finalmente alle regioni italiane di aprire uffici di rappresentanza a Bruxelles. Il d. legisl. 28 ag. 1997 nr. 281, attuativo della legge Bassanini, autorizzò le regioni ad avere all’interno della rappresentanza permanente presso l’Unione Europea funzionari designati dalla Conferenza dei presidenti delle regioni.
La riforma del 2001 del titolo V della Costituzione ha introdotto norme volte a disciplinare espressamente il potere estero delle regioni, regolando anche il potere dello Stato in rapporto con le regioni. Ciò è avvenuto, naturalmente, con il rafforzamento delle autonomie locali e delle regioni in particolare. Rovesciando inoltre il riparto delle competenze legislative, l’art. 117 ha elencato le competenze dello Stato, lasciando alle regioni tutte le materie non enumerate. Fra esse rientra la politica estera, tanto più nella fattispecie di politica europea. Inoltre è stata riconosciuta alle regioni la possibilità di contribuire alla discussione di atti in formazione per meglio adeguarsi alla politica comunitaria. Con la riforma del titolo V, insomma, alle regioni è stato riconosciuto un ruolo europeo (M. Olivetti, Il potere estero delle Regioni, in La politica estera delle regioni, 2004, pp. 17-54). In questo quadro, le regioni possono partecipare, nelle materie di loro competenza legislativa e nelle delegazioni del governo italiano, alle attività del Consiglio dei ministri e della Commissione europea.
L’organismo rappresentativo delle regioni europee è dunque l’Assemblea delle regioni d’Europa. È un’associazione volontaria. Come tale il numero dei suoi membri è variato di anno in anno, diminuendo dai primi anni Duemila proprio perché molti dei suoi scopi hanno trovato soddisfazione con il progressivo riconoscimento del ruolo dei suoi membri. Tutte le regioni italiane ne hanno fatto parte, magari in anni alterni. Campania, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Puglia hanno fatto parte dell’Ufficio politico. Quelle che più risultano impegnate sono Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana e Umbria. La Regione Abruzzo ha tenuto la presidenza nel 2010. Uno dei successi rivendicati dall’ARE è stato quello di riuscire a far istituire alla Commissione di Bruxelles il Consiglio consultivo degli enti regionali e locali, predecessore del Comitato delle regioni (CdR), vero e proprio organo dell’Unione. Se l’ARE è l’associazione volontaria nella quale le regioni possono riconoscersi, ben diversa è la natura istituzionale del Comitato della regioni.
La composizione della delegazione italiana per il periodo 2010-15 è stata stabilita da un decreto del 19 dicembre 2006. Il governo decide su proposta della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome (CPR), dell’Unione delle province italiane (UPI) e dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI). La delegazione scelta per il mandato 2010-15 ha una rappresentanza composta da 24 membri titolari e 24 supplenti. I membri regionali hanno sempre avuto la maggioranza relativa, cioè 12 membri titolari o supplenti. Attualmente le regioni (con le Province autonome di Bolzano e Trento) possono contare su 14 titolari e 8 supplenti. Nel Comitato le regioni non si fanno rappresentare soltanto dai presidenti, ma anche da assessori, da consiglieri regionali o, in qualche caso, da deputati nazionali. Le regioni italiane si sono molto impegnate a partecipare ai lavori del Comitato delle regioni nella fase iniziale, a partire dalla sua istituzione nel 1994. La presidente della Regione Piemonte, Mercedes Besso, ha ricoperto per alcuni anni la carica di presidente. Titolare ininterrottamente dal 1994, la Toscana è stata la regione italiana che ha mostrato più interesse per il Comitato, considerato sede strategica per la presenza sul piano internazionale (Bolgherini 2006). Fra il 1994 e il 1998 il presidente della Toscana, Vannino Chiti, ricoprì la carica di vicepresidente del Comitato. Tutte le altre regioni hanno rivestito almeno una volta il ruolo di membro titolare.
Da un’elaborazione dei protocolli delle sedute plenarie del Comitato in alcuni anni (1995, 1998, 2000 e 2006) è risultato che i membri effettivi delle regioni italiane sono stati fra i più assidui, con una percentuale di partecipazione pari a poco più dell’80% (E. Domorenok, Regioni in Europa, 2010, tab. 4.2, p. 109). Tuttavia, in una seconda fase, le regioni italiane hanno mostrato un calo del proprio interesse, almeno a giudicare dalla loro presenza alle sedute e dal numero di pareri presentati, essendo quest’ultimo considerato l’indicatore più attendibile di partecipazione. Sicuramente è ancora vero quello che risultava da una serie di interviste condotte ad alcuni attori istituzionali di tutte le regioni italiane: «Il CdR viene percepito dalla maggioranza degli enti territoriali come poco utile, se non del tutto superfluo […] Anzi, dall’analisi empirica emerge una quasi completa mancanza di considerazione per la funzione esercitata dal CdR» (C. De Micheli, Il Comitato delle Regioni e il caso italiano, in Europeizzazione e rappresentanza territoriale, 2006, p. 352). Ci sono regioni che ritengono poco utile la presentazione di pareri (l’unico modo di far sentire la propria voce nelle assemblee), altre che non investono risorse perché reputano più efficaci altri canali, altre ancora, quelle che più si sono impegnate, che scommettono su future migliori prestazioni del CdR e che intanto cercano almeno di coordinarsi fra loro. In un panorama di decrescente interesse, alcune regioni si sono comunque distinte, facendo partecipare i loro presidenti a quasi tutti gli incontri. Si tratta di Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Toscana, con Piemonte e Toscana che hanno proseguito l’impegno degli anni Novanta. Il Comitato delle regioni, nonostante lo scarso rilievo che gli viene attribuito all’interno del processo decisionale europeo, è tuttavia considerato come una sede nella quale è possibile incontrare partner per intraprendere strategie interregionali.
Tutte le regioni italiane, con l’eccezione della Provincia autonoma di Bolzano, aderiscono al Consiglio dei comuni e delle regioni d’Europa (CCRE). Il Molise e il Piemonte sono state in questo ambito le più dinamiche, assumendo ruoli di presidenza. Anche nel Congresso dei poteri locali e regionali (CPLRE) le regioni italiane ci sono tutte, rappresentate da un assessore o da un consigliere, qualcuna dal presidente o dal vicepresidente. Il presidente del Consiglio regionale della Toscana, Riccardo Nencini, è stato, a sua volta, presidente della CARLE, la Conferenza dei presidenti delle assemblee delle regioni con potere legislativo. Infine, come già menzionato, esistono varie altre associazioni volontarie, alle quali le regioni italiane partecipano per ragioni di visibilità, ma anche per la funzione di lobbying che talvolta esse svolgono.
Molto più efficace, e quindi molto più utilizzato, è il canale di rappresentanza costituito dagli uffici delle regioni a Bruxelles. Alcune regioni, come per es. la Toscana, già un anno prima dell’autorizzazione ottenuta nel 1996 ad aprire sedi ufficiali, avevano una testa di ponte a Bruxelles con la finanziaria Fidi Toscana. Dal 1994 l’Emilia-Romagna aveva una rappresentanza, utilizzando l´Agenzia per lo sviluppo tecnologico della regione (ASTER). La Basilicata e la Sardegna aprirono subito il loro ufficio nel 1996. Le restanti meridionali furono più lente delle centro-settentrionali. La Campania fu l’ultima a stabilirsi a Bruxelles, nel 2002. Tutte le regioni italiane hanno un ufficio di rappresentanza, con uno o due dirigenti responsabili e da uno a dieci addetti, di solito in proporzione alla loro grandezza. Alcune regioni hanno la sede in comune. L’unica a essere ‘battezzata’ è la delegazione ligure, Casa Liguria. Quando una regione sospende temporaneamente la sede si appoggia a qualche ente: nel 2011 la Calabria, per es., si fece rappresentare dalla Camera di commercio.
Dal 1996 iniziò quindi, anche per le regioni italiane, tramite i loro uffici di rappresentanza, un’intensa attività, assimilabile alla paradiplomazia, di contatti con le istituzioni comunitarie, ma anche con le altre regioni straniere e tra le stesse regioni italiane. Gli uffici delle regioni italiane svolgono più o meno le medesime funzioni già menzionate per quelli delle altre regioni. Una è la rappresentanza degli interessi delle regioni di riferimento, alle quali si fanno pervenire informazioni e per le quali si interviene sulla burocrazia di Bruxelles. Si seguono i bandi e si accompagnano le domande per i progetti con forme varie di consulenza, per mettere in condizione i colleghi in patria di realizzare progetti per finanziamenti, ai quali, anche in seguito, non si fa mancare l’assistenza. L’assistenza può essere rivolta anche ai comuni e alle province della propria regione, i cui delegati possono essere in qualche caso ospitati nelle stesse sedi degli uffici. Gli uffici delle regioni a Bruxelles sono espressioni istituzionali, cioé fanno parte integrale delle rispettive amministrazioni, sono inseriti nel loro organigramma e, per lo più, dipendono dalla presidenza della regione. «La spiegazione di ciò va trovata nella volontà del vertice dell’esecutivo di gestire in prima persona gli affari europei e in particolare le relazioni con quello che è una sorta di avamposto regionale nell’Unione. L’apertura di una sede brussellese è una scelta politico-strategica che implica, da parte dell’élite regionale, una valutazione della realtà comunitaria e del ruolo delle Regioni al suo interno. Una leadership regionale attenta sarà allora più propensa a cercare di gestire gli ambiti che costituiscono l’accesso immediato della Regione all’UE in modo prioritario e diretto» (Bolgherini 2006, pp. 139-40).
Sono quindi i presidenti delle regioni che ambiscono a gestire in prima persona gli affari europei. Dietro ci sono le strutture delle amministrazioni, che attraverso quello che viene chiamato ‘adattamento’ hanno cercato, nel corso degli anni, di prepararsi per i compiti europei. Una puntuale ricognizione condotta regione per regione consente di avere un quadro pressoché esaustivo dell’adattamento, passando in rassegna, sulla base di un questionario distribuito a tutti gli uffici regionali, la normativa regionale, l’organizzazione della burocrazia regionale, ciascuna giunta e ciascun consiglio e, quando ci sono, le strutture di raccordo con l’Unione (Ciccaglioni 2010). Quando lo statuto regionale non è esplicito al riguardo, interviene una legge regionale a indicare i rapporti con l’Europa. Alcune dichiarazioni di principio contenute nelle legislazioni regionali sono indicative della vocazione europea delle regioni italiane.
L’Abruzzo, per es., si definisce «una Regione dell’Europa» e la Calabria dichiara di «far propria» la Carta dei diritti dell’Unione. La Campania «si riconosce parte del processo di integrazione europea» e l’Emilia-Romagna «partecipa al processo di costruzione ed integrazione europea ed opera per estendere i rapporti di reciproca collaborazione con le altre Regioni europee». Il Lazio «promuove […] l’integrazione europea come valore fondamentale della propria identità». La Liguria, accanto ad altre dichiarazioni europeiste, «realizza forme di collegamento con gli organi dell’Unione Europea». E così via tutte le altre, che dichiarano di volere concorrere al processo di integrazione europea e alla determinazione delle sue politiche. La Toscana, in particolare, «fonda la propria azione sui principi della Costituzione italiana e sugli accordi tra gli Stati per la Costituzione europea». Alcuni statuti, infine, stabiliscono che la regione partecipa alla formazione e all’attuazione del diritto comunitario.
Anche dalla normativa risulta chiaro che la politica europea fa capo ai presidenti, i quali, nella maggior parte dei casi, tengono le relazioni con gli organismi europei e con le altre regioni europee, coordinano i programmi delle attività regionali all’estero e si occupano dei fondi strutturali. Alla presidenza della giunta fa capo una direzione delle relazioni internazionali e comunitarie o comunque una struttura che supporta il presidente nell’attuazione delle direttive comunitarie. Il presidente può avvalersi di un delegato ai rapporti con l’Europa, come avviene, per es. in Lombardia, e può avvalersi di settori del suo gabinetto espressamente preposti al coordinamento delle politiche comunitarie o degli affari internazionali e comunitari, come in Piemonte e in Sardegna.
Non sono però soltanto i presidenti delle giunte a farsi carico della gestione degli affari europei. In alcuni casi si prevedono assessori con delega, come in Calabria, dove c’è un assessore alla programmazione economica, o in Emilia-Romagna, dove la cura dei rapporti istituzionali con l’Unione Europea è affidata al vicepresidente della giunta, e l’assessore alle Finanze si occupa anche dell’Europa. Nelle Marche e in Puglia c’è un assessore alle Politiche comunitarie. In Veneto un assessore si occupa delle Politiche internazionali, ma gli Affari europei e la gestione dei relativi fondi sono trattati anche in altri assessorati, come quelli delle Politiche agricole o delle Politiche di formazione e istruzione o dell’Economia e dello sviluppo, cosa che avviene anche in altre regioni, in specie per gli assessori alle attività produttive e alle politiche sociali. Infine, strutture di raccordo con sedi di rappresentanza a Bruxelles sono previste in numerose regioni. In Toscana c’era un assessorato alle Politiche comunitarie, ma è stato eliminato, il che può voler dire, in questo caso come in altri simili, che esiste una volontà di accentramento da parte dei capi dell’esecutivo, oppure, secondo una più positiva lettura, che i vertici reputano rilevante che le loro regioni stiano in Europa. Accanto ad alcuni vincoli formali che obbligano i presidenti a partecipare agli organi europei, si è fatta strada nelle regioni la convinzione che la loro presenza in Europa debba essere più autorevole e più visibile.
Infine, i Consigli regionali, tutti, o quasi, hanno una commissione che ha fra le sue competenze i rapporti con l’Unione Europea e/o gli affari comunitari, competenze, però, aggiuntive ad altre che sembrano più interessare ai consiglieri.
Quale che sia la loro collocazione nell’organigramma di ciascuna, le regioni hanno dotato le proprie amministrazioni di uffici o servizi o strutture, direzioni o segreterie che siano. Le denominazioni possono variare e magari sono variate in una stessa regione: politiche europee, programmi comunitari, rapporti comunitari. In questi settori delle amministrazioni regionali si è venuto formando un personale che si è allargato, ma che si è anche specializzato. Si è svolto, cioè, proprio quello che si chiama un processo di adattamento rispetto alle nuove esigenze e alle nuove opportunità.
Nel primo periodo, almeno fino alla metà degli anni Novanta, le élites regionali, le amministrative come le politiche, mostrarono difficoltà ad adattarsi, soprattutto relativamente al ricevimento e alla gestione dei fondi strutturali. È importante ricordare che «i Fondi strutturali e le procedure previste per la loro utilizzazione, con il richiamo ad una programmazione pluriennale e intersettoriale, alla predisposizione di meccanismi di tipo gestionale e modalità decisionali di tipo concertativo, propongono infatti una logica di sviluppo, un tipo di rappresentanza e uno stile amministrativo completamente antitetici rispetto alle modalità d’azione strutturatesi dal secondo dopoguerra in Italia e in special modo nelle Regioni del Sud» (Giannelli, Profeti 2006, pp. 228-29). Se non tutta e se non sempre, una parte dell’amministrazione italiana, quella regionale in particolare, è andata modificando i criteri del proprio agire. La gestione dei fondi strutturali, ma anche altri contenuti della politica europea, hanno sollecitato una revisione dei principi dell’azione amministrativa. Lavorare ai programmi comunitari ha significato dunque impiegare metodi e criteri diversi rispetto alla tradizione italiana e, laddove si è voluto e si è riuscito, si è ‘europeizzato’ il personale regionale esistente o si è provveduto a selezionare in tale prospettiva il nuovo.
Un’altra ricerca su cinque regioni (Toscana, Umbria, Lazio, Campania e Basilicata) così concludeva: «L’ammodernamento indotto dalla politica di coesione ha generato un movimento che ha spinto le regioni verso una sorta di competizione istituzionale e a stare al passo con il cambiamento richiesto dai regolamenti comunitari. Tale cambiamento ha riguardato il livello organizzativo come quello procedurale. Ogni amministrazione regionale, tra quelle da noi analizzate, ha rivisto infatti il proprio modello organizzativo in un modo che sembra allinearsi su di un unico modello di riferimento, quello europeo appunto […] Segno, questo, di una tendenza alla europeizzazione amministrativa» (M. Pendenza, L’europeizzazione amministrativa delle Regioni italiane, in Divenire europei, 2008, pp. 47-48). Un’altra sezione della stessa ricerca registrava una reazione dei funzionari sostanzialmente positiva agli effetti della politica europea nelle loro regioni. Interessante è che gli intervistati delle regioni meridionali apparivano decisamente più convinti del grado di adattamento della loro istituzione ai valori europei, mentre umbri e toscani sembrarono più restii a riconoscersi incondizionatamente nel processo di europeizzazione: «È possibile che questi giudizi riflettano lo stato anteriore delle istituzioni regionali, quello precedente alle innovazioni introdotte dalle politiche europee […] Regioni come la Toscana e l’Umbria presentano una lunga e consolidata tradizione di buona amministrazione; lo stesso non può dirsi delle Regioni meridionali» (G. Di Franco, L’europeizzazione dei funzionari preposti alla gestione dei fondi europei in cinque Regioni italiane, in Divenire europei, 2008, p. 119). In altre parole l’adattamento è stato più avanzato laddove le vecchie amministrazioni locali e regionali lasciavano a desiderare, come fosse stato più facile arare terreni incolti. Per tutti i funzionari intervistati, comunque, pare certo che l’esperienza europea sia stata vista come un’opportunità per allargare i propri orizzonti lavorativi e mettersi alla prova. Per altre regioni, invece, si è detto che l’adattamento è avvenuto senza ‘apprendimento’, anche perché la selezione del personale non ha avuto luogo secondo criteri specifici e non c’è stato un soddisfacente rilievo dato alle risorse umane competenti: è il caso del Veneto, dove lo stile amministrativo complessivo non si è ancora sufficientemente europeizzato (Innovare la tradizione, a cura di P. Messina, 2011).
Risalgono ai primi anni Settanta alcuni accordi e aggregazioni di regioni sull’arena europea, ma è soprattutto a partire dagli anni Novanta che questi si moltiplicano, con l´evolversi della politica comunitaria che ha dato sempre più spazio alle regioni. Le possibilità e le modalità di accesso alle risorse comunitarie hanno stimolato l’implicita, e spesso obbligata, cooperazione fra le regioni. Se la mobilitazione verticale delle regioni si riferisce a un’organizzazione che fa capo alle diverse strutture istituzionali (dall’ARE al Comitato delle regioni, al Consiglio dei comuni e delle regioni d’Europa, agli uffici regionali per arrivare ai presidenti delle regioni), la mobilitazione orizzontale è invece costituita dalla tessitura di reti di contatti e relazioni, divenuta forse l’attività che le regioni perseguono con maggiore intensità e tenacia. Le regioni italiane hanno fatto la loro parte fin dal principio e con impegno, figurando una decina di esse fra i membri fondatori di associazioni e di reti. Le relazioni politiche, economiche e culturali, necessarie per accedere ai numerosi programmi di finanziamento, offrono la possibilità di partecipare alle concrete attività della politica. Il gran numero di associazioni alle quali una regione partecipa non sempre è indicatore dell’impegno che si è disposti a profondervi. D’altronde vi sono costi, organizzativi in primo luogo, di cui ci si deve far carico. Quella che segue è soltanto una casistica esemplare che non esaurisce né l’universo delle reti, che, avendo una natura funzionale, tende a crescere o diminuire nel corso degli anni, né la folta e multiforme presenza delle regioni italiane.
Come già detto, le associazioni transfrontaliere sono le più antiche. Furono le regioni dell’arco alpino che per prime cominciarono a stipulare protocolli d’intesa con le regioni straniere limitrofe. All’ARGE Alp, che rientra nelle cosiddette Comunità di lavoro e riunisce dal 1972 anche regioni e cantoni di Svizzera e Germania, aderiscono Lombardia e Trentino-Alto Adige. All’ARGE Alpen-Adria, nata a Venezia nel 1978, anch’essa una Comunità di lavoro che riunisce regioni e Länder che si affacciano sulle Alpi orientali, aderiscono Venezia Giulia, Lombardia, Trentino, Alto Adige e Veneto. Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta fanno parte della Comunità di lavoro delle Alpi occidentali (COTRAO), fondata nel 1982. Della Comunità di lavoro delle Regioni europee di confine (AEBR, Association of European Border Regions) fanno parte le Province autonome di Trento e Bolzano e il Friuli Venezia Giulia.
La Conferenza delle regioni periferiche e marittime (CRPM) è l’associazioni più grande. Nata nel 1973, conta 156 membri che appartengono a 28 Stati, compresi quelli non membri dell’Unione Europea, dalla Norvegia agli Stati del Maghreb. Ne fanno parte tutte le regioni italiane, fuorché il Veneto e il Molise. Le regioni più attive nei gruppi di lavoro sono state la Sicilia, l’Abruzzo, la Campania, il Lazio, la Sardegna e, soprattutto, la Toscana. La Toscana ha avuto per oltre un decennio la presidenza, con due diversi suoi presidenti, Vannino Chiti e Claudio Martini, e nel 2000 ha organizzato a Firenze uno dei più importanti convegni della CRPM. La Puglia, a sua volta, è protagonista di un settore della CRPM, il Comitato intermediterraneo (CIM). Il presidente della Sardegna nel 2012 ha presieduto la Commissione della isole. La Liguria si è impegnata per la nascita dell’Alleanza degli interessi marittimi regionali (AIMRE), mentre l’Emilia-Romagna ha contribuito alla fondazione nel 2004 a Bordeaux dell’Associazione delle regioni europee dei prodotti d’origine (AREPO), nella quale occupa posizioni apicali (presiede il Collegio delle 27 regioni e il suo assessore all’Agricoltura, Tiberio Rabboni, ne è il presidente). Un’associazione con finalità simili è l’Associazione delle regioni orticole e floricole (AREFLH, Assemblée des Regiòn Europèennes Fruitiere, Légumières et Horticoles ), alla quale aderiscono il Veneto e l’Emilia-Romagna. Quasi tutte le regioni italiane fanno parte dell’Associazione delle regioni europee viticole (AREV), pur egemonizzata dalle francesi. Un programma comunitario di cooperazione transfrontaliera dell’arco alpino vede collaborare tre cantoni svizzeri con le regioni italiane Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, nonché la Provincia autonoma di Bolzano. La Lombardia, infine, è uno dei membri di Quatto motori per l’Europa, l’associazione che la vede collaborare con altri territori fra i più ricchi della UE, e cioè la Catalogna, il Rodano-Alpi e il Baden-Württemberg. Fondata nel 1988, l’associazione Quattro motori prevede accordi di collaborazione e memorandum su arte, cultura, ricerca, tecnologia e telecomunicazioni e si dichiara impegnata al rafforzamento del ruolo delle regioni nella politica europea.
Altro tipo di cooperazione dovrebbero fornire le euroregioni, termine molto usato nella prassi, ma privo fino a poco tempo fa di connotazione formale. Attualmente l’euroregione (euroregio), o Gruppo europeo di cooperazione transfrontaliera (GECT), è intesa come una struttura con personalità e capacità giuridica. Istituiti ufficialmente dall’Unione Europea nel 2006, i GECT sono stati ratificati dal Parlamento italiano nel 2009 per promuovere interessi che travalicano i confini e incentivare la cooperazione fra popolazioni di confine che ricerchino il bene comune. Composti di almeno due Stati membri, essi prevedono talvolta assemblee rappresentative, sempre un segretariato permanente e un apparato tecnico e amministrativo.
Nel 2006 venne istituita l’Euroregione Adriatica. Ne fanno parte, insieme a comuni e regioni dei Balcani, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Molise e Puglia. Dal 2006 Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta hanno creato insieme a due regioni francesi, la Provenza-Alpi-Costa Azzurra e il Rodano-Alpi, l’Euroregione Alpi-Mediterraneo che si colloca in uno dei programmi di INTERREG, ALCOTRA (Alpi Latine Cooperazione TRAnsfrontaliera). Il protocollo del 2007 ha dato avvio a un partenariato forte per una concertazione tra le cinque regioni per trasporti, innovazione e ricerca, ambiente e sviluppo sostenibile, cultura e turismo, istruzione e formazione. Ha promosso il Gruppo europeo di cooperazione territoriale per tutte le euroregioni dell’Alpi-Mediterraneo. Nel 2011 Trento e Bolzano si sono consorziate con il Tirolo per una euroregione/GECT, con ciò ribadendo in forma istituzionalizzata una cooperazione di più decenni. Altro GECT è l’Euromediterraneo Archimed, istituito nel 2011: ne fanno parte Sardegna e Sicilia che cooperavano già con altre isole del Mediterraneo nell’Euromed. La già esistente Alpen Adria, infine, è stata trasformata nel 2012 in GECT Euroregione Alpen Adria, chiamata ‘euroregione senza confini’, che riunisce il Veneto e il Friuli Venezia Giulia con l’austriaca Carinzia, la Slovenia e la Croazia. Al Programma Europa centrale, finanziato per il 2007-13 con il FESR, collaborano Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Provincia di Trento e Provincia di Bolzano.
Naturalmente il grado di partecipazione e le risorse impegnate in queste attività di mobilitazione orizzontale non sono state uguali per le regioni italiane. La Toscana e l’Emilia-Romagna partecipano a una decina di associazioni. Presenti e attive in un numero leggermente inferiore risultano la Lombardia e la Liguria e poi il Piemonte e il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e le Marche. Brillano, invece, per la loro assenza quasi tutte le regioni meridionali.
Sedi importanti per trovare partner con i quali costruire progetti comuni sono anche i cosiddetti networkings (le reti). Uno fra tutti, il già menzionato European regions research and innovation network: ne fanno parte molte regioni italiane (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Puglia, Basilicata e provincia autonoma di Bolzano). In altre cinque reti, assunte come campione da una ricerca, è stata riscontrata una presenza di regioni italiane: in tutte e cinque sono risultate coinvolte la Toscana, il Lazio e il Friuli Venezia Giulia; Toscana e Friuli Venezia Giulia sono state le più impegnate (F. Operti, Regioni europee? La cooperazione territoriale tra vincoli nazionali e strategie substatali in Francia e Italia, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, 2011). Forme di collaborazione sono richieste dagli stessi programmi comunitari, come già detto. I più importanti fino al 2006 sono stati il Programma Urban per lo sviluppo dei centri urbani (rinnovato per il periodo 2007-13 come URBACT II) e il LEADER (Liaison Entre Actions de Développement de l’Économie Rurale) per le zone agricole (quest’ultimo rinnovato per il 2007-13 come LEADER plus). Pur essendo a questi due programmi più interessati comuni e territori definiti e circoscritti, il ruolo di mediazione e di collegamento, anche verso l’estero, delle amministrazioni regionali è stato sempre cospicuo e, sia pure in misura diversa, tutte le regioni ne sono state partecipi.
La collaborazione fra regioni di Stati diversi ancorché limitrofi è stata sempre prevista per i Programmi INTERREG, giunti con la programmazione 2007-13 alla loro quarta edizione e collocati, naturalmente, nell’Obiettivo cooperazione comunitaria. INTERREG, come già ricordato, resta il principale programma di iniziativa comunitaria per la cooperazione interregionale transnazionale. Per parteciparvi le regioni devono essere dotate di iniziativa, conoscenze e capacità tecniche. Ci sono regioni che hanno rivelato al meglio queste doti, come la Liguria, la Toscana e la Sicilia. Ma anche le altre hanno mostrato propensione alla partecipazione diretta e, spesso, a proporsi come capofila di singoli progetti. INTERREG IV per il periodo 2007-13, vasto programma per lo sviluppo regionale finanziato con il FESR, prevede, come i precedenti, progetti di partenariato che vanno dal semplice networking alla creazione di strumenti per programmi di cooperazione regionale. INTERREG IV continua a gestire il finanziamento di azioni tanto per le zone urbane che per quelle rurali. Una finalità particolare è divenuta la conservazione e la promozione del patrimonio culturale. Le forme di cooperazione sono quelle tradizionali: transfrontaliera, transnazionale e interregionale. Fra i programmi dell’INTERREG IV, ai quali partecipano regioni italiane, vale ricordare il Programma spazio alpino, che affronta i problemi dello sviluppo territoriale, dei sistemi di trasporto sostenibile e del patrimonio naturale e culturale. Vi aderiscono Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto e le Province di Trento e Bolzano. Al CADSES (Central, Adriatic, Danubian and South-east European Space) cooperano 12 regioni italiane (Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Molise, Abruzzo, Basilicata e Puglia, nonché, spesso presenti in vari programmi, le Province di Trento e di Bolzano). Allo spazio di cooperazione MED, che raggruppa per il 2007-13 i soggetti dell’area geografica dei due programmi di cooperazione MEDOCC (Mediterraneo OCCidentale) e ARCHIMED (Arcipelago Mediterraneo), collaborano ben 18 regioni italiane (praticamente tutte, eccetto la Valle d’Aosta e le Province di Trento e di Bolzano). All’INTERREG IV fanno capo le euroregioni, comprese ovviamente quelle nelle quali vi sono le italiane sopra ricordate, e anche le regioni della Norvegia e i cantoni svizzeri interessati a questo programma.
Si tratta di un universo complesso e ramificato, del quale si fa fatica a seguire tutti i meandri. Le regioni italiane sicuramente cercano di esserci, qualche volta con pura formalità, spesso con ruoli da protagoniste. L’obiettivo è quello di cercare partner per ottenere finanziamenti. Ma vi si svolgono altre e proficue attività: si fanno dichiarazioni d’intenti per futuri programmi, si organizzano scambi di visite, missioni di studio, manifestazioni comuni e si fanno circolare informazioni. Ne risulta uno spesso reticolo che unisce le regioni d’Europa fra loro e, quindi, le regioni italiane alle consorelle europee.
La politica di coesione costituisce, come già ricordato, uno degli assi principali della politica europea. Il termine viene spesso usato come sinonimo di politica regionale europea. Lo stesso vale per i fondi strutturali, termine che a sua volta definisce l’insieme di programmi di finanziamento che vengono ormai assegnati direttamente alle regioni.
Già il Trattato di Roma del 1957 affermava nel suo preambolo l’intenzione degli Stati membri di rafforzare la coesione delle loro economie anche attraverso la riduzione delle differenze esistenti tra le regioni. Il Trattato lasciava alla competenza dei singoli Stati le politiche di riequilibrio territoriale, ma istituiva alcuni strumenti dai quali sarebbero derivate le articolazioni della politica regionale europea, quali il Fondo sociale europeo (FSE) e la Banca europea degli investimenti. Del 1962 è il Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEAOG). Il FESR, costituito come già detto nel 1975, fu il passo decisivo per la politica regionale europea (Viesti, Prota 2004).
Il 2° comma dell’Atto unico europeo (1986) ribadì l’obiettivo di ridurre il divario fra le diverse regioni e il ritardo delle meno favorite. Tutti i fondi sopra ricordati venivano appunto indicati come «fondi a finalità strutturale» (Scarcelli 2001). Il FESR, nel 1986, fu quindi rafforzato da nuove regole e da una più generosa assistenza per essere ulteriormente sostenuto nelle successive programmazioni, dal 1989 in poi, con lo scopo di finanziare programmi per le infrastrutture, per l’innovazione e per gli investimenti. I fondi sono erogati alle regioni più povere, fra le quali sono state presenti per decenni tutte le regioni meridionali italiane. Rimane in vita anche il FSE, che finanzia progetti di formazione professionale e per la creazione di posti di lavoro, destinato a tutte le regioni. Le regioni sono beneficiarie di un’altra importante politica europea, la Politica agricola comune (PAC). Le regioni interessate hanno fatto registrare un tasso di crescita sempre più elevato della media europea. Un altro fondo importante è il Fondo di coesione, che finanzia infrastrutture ambientali e di trasporto ed è destinato agli Stati membri con un PIL inferiore al 90% della media europea, dal quale però le regioni italiane sono escluse.
Verso la fine degli anni Ottanta fu stabilita una regola basilare, al 2013 ancora in funzione benché molta discussa, per la quale la maggior parte dei finanziamenti è riservata alle regioni con un PIL inferiore al 75% della media europea. Tale norma è stata molto importante per le regioni italiane.
Dal 1988 il regolamento quadro, il cosiddetto pacchetto Delors, previde, fra l’altro, il raddoppio delle risorse destinate ai fondi. I criteri di distribuzione e di gestione dei fondi strutturali costituiscono uno strumento decisivo per il ruolo delle regioni nella costruzione di un’Europa con minori squilibri economici e quindi minori tensioni sociali.
Il Trattato di Maastricht istituzionalizzò la politica di coesione. Con la radicale riforma del 1993 le regioni vennero inserite nel gioco europeo, associate all’elaborazione e alla messa in opera degli interventi. Alla preparazione dei programmi del ciclo 2000-06 parteciparono per la prima volta rappresentanti delle regioni, prassi ripetuta per il 2007-13. I fondi strutturali pesano per il 36% del bilancio della UE per il periodo 2007-13, e vengono subito dopo quelli per la politica agricola, che sono i più cospicui, intorno al 45%. L’intervento è definitivamente concentrato sul livello regionale: sono le amministrazioni regionali gli interlocutori.
La riforma del 1988 stabilì quattro principi guida: concentrazione, partenariato, programmazione e addizionalità. In base al primo di questi principi vennero fissati sei obiettivi: tre di essi erano regionali e concernevano l’adeguamento delle regioni in ritardo di sviluppo, la riconversione delle zone industriali in declino e la diversificazione economica delle zone rurali; gli altri riguardavano tutta la comunità (lotta alla disoccupazione e inserimento dei giovani, adattamento delle strutture agricole e ittiche). Nell’Obiettivo 1 si collocavano le regioni con PIL pro capite inferiore al 75% del PIL medio dell’Unione, cioè la soglia sopra ricordata. Il secondo principio, quello del partenariato, istituito proprio per consentire la partecipazione delle regioni al processo decisionale comunitario, voleva favorire la cooperazione fra autorità pubbliche e private e tra attori situati a livelli istituzionali differenti. Nella prospettiva delle regioni, i partenariati sono tipi, meglio se formalizzati, di cooperazione interregionale, proprio perché implicano il riconoscimento di un legame particolare e vincolante fra le regioni stesse. Il terzo principio, riferito alla programmazione per una gestione efficiente delle risorse, dovrebbe coinvolgere attori istituzionali a diversi livelli. Secondo il principio di addizionalità, il quarto, i contributi erogati non sostituiscono le spese strutturali di uno Stato membro, ma possono soltanto aggiungersi alla spesa già destinata da ogni singolo Stato alle regioni interessate.
All’interno del Quadro strategico nazionale (QSN) operano i Programmi operativi nazionali (PON). Lo Stato italiano ha deciso di cogliere l’occasione della predisposizione del QSN, nel periodo 2007-13, per consolidare l’unificazione delle politiche regionali, comunitaria e nazionale e, attraverso un documento programmatico, approvato nella Conferenza Stato-Regioni il 3 febbraio 2005, ha fissato le linee guida da seguire. Non va dimenticato che i Programmi sono cofinanziati dallo Stato. I Programmi operativi (PO) vengono predisposti dalle regioni in azioni pluriennali e contrattati con la Commissione di Bruxelles. Quanto ai programmi operativi regionali (POR), la loro gestione è attribuita alle singole regioni. Tutte le regioni italiane si sono impegnate nell’elaborazione del rispettivo POR, principale documento di programmazione regionale per quanto riguarda la politica di coesione, ognuna presentandone due, uno per il FESR e un secondo per il FSE.
Fino al 2000 gli obiettivi dei fondi per la concertazione rimasero di sei tipi. Con l’Agenda 2000, che inaugurò un periodo di programmazione con ambiziosi obiettivi e un’ampia dotazione finanziaria, i tipi di fondi furono ridotti a tre: l’Obiettivo 1 prevedeva ancora sostegni alle regioni in ritardo di sviluppo, il 2 sostegni alle regioni in riconversione economica, il 3 l’ammodernamento dei sistemi di istruzione, formazione e occupazione. Sull’Obiettivo 1 si concentrò la dotazione finanziaria, ben il 69,7% dei fondi strutturali. Per il periodo 2007-13 è stata decisa una semplificazione dei fondi strutturali per un’Unione Europea di 27 membri. I tre obiettivi sono stati definiti con tre parole: convergenza, competitività e cooperazione; i tipi di fondi strutturali portati a 4 rispetto ai 13 della programmazione precedente. Per la cooperazione territoriale, obiettivo fondante delle politiche dell’Unione, un regolamento del 2006 stabiliva la consueta tripla componente: transfrontaliera, transnazionale e interregionale. La convergenza è il tradizionale Obiettivo 1: interessa 84 regioni di 18 Stati, assorbe l’81% delle risorse e utilizza ancora i tre strumenti finanziari FESR, FSE e Fondo coesione. Fra le 84 regioni ci sono 6 regioni meridionali italiane. Con l’arrivo dei nuovi Stati membri c’è il rischio che in futuro le regioni italiane escano del tutto dai benefici comunitari. Intanto, già dal 2007 la metà dei finanziamenti vanno alle regioni dei nuovi Stati membri dell’Europa centrale e orientale.
Il Trattato di Lisbona del 2007 ha insistito molto sull’aspetto ‘territoriale’, oltre che sulla coesione economica e sociale, dando così nuove prerogative e maggiore visibilità alle regioni. Nel 2008 il Parlamento europeo ha proposto, infine, di istituire un unico Fondo. Difficile dire se l’una e l’altra prospettiva salvaguarderanno gli interessi delle regioni italiane che finora più hanno avuto bisogno del sostegno comunitario. Né si può dire fino a che punto le stesse regioni sapranno adattarsi a una maggiore integrazione con gli strumenti politici ed economici nella cosiddetta Strategia 2020, tuttora in fase di discussione, se non addirittura di scontro, fra gli Stati dell’Unione. Le regioni italiane saranno chiamate ad affinare le loro capacità per utilizzare le opportunità che l’Unione Europea continuerà a offrire.
La politica regionale europea è divenuta «una politica influente» (Manzella 2011) e tale influenza si è meglio strutturata nel corso dei decenni. Le scelte dei singoli Stati in materia di politica regionale sono ormai profondamente condizionate dalle indicazioni elaborate sul piano comunitario che la interpretano come uno strumento di solidarietà economica e una forza di integrazione. La solidarietà dovrebbe recare vantaggi concreti alle regioni europee ‘in ritardo di sviluppo’, mentre la coesione risponde al principio che la riduzione dei divari di reddito gioverebbe a tutti. In ogni caso è importante ribadire che anche le regioni italiane hanno assunto un ruolo sempre più da protagoniste nella gestione della politica di coesione. Questo ruolo «è stato caratterizzato da forti discontinuità con il passato: con la fine degli anni Novanta, l’Italia e le regioni italiane hanno cominciato ad essere presenti con grande costanza nella contrattazione, mentre prima esse erano quasi del tutto assenti […] in molti passaggi le Regioni hanno mostrato una capacità di attivazione davvero imprevista» (Brunazzo 2005, p. 93). Il giudizio si riferisce all’impegno delle regioni italiane nella fase negoziale precedente le proposte della Commissione per la riforma dei regolamenti della politica di coesione per il periodo 2007-13. Le regioni seguirono l’intero iter e presentarono le loro istanze all’allora commissario europeo per la Politica regionale, Michel Barnier. A tal fine organizzarono alcune riunioni e si coordinarono nelle associazioni regionali, nel Comitato delle regioni e nel Parlamento europeo, in ciò dimostrando inusuali capacità e unità d’intenti.
Sul versante interno, per assecondare la politica di coesione e per la gestione delle risorse, le regioni sono state costrette a quella trasparenza e pubblicità che non sono solitamente rispettate nelle politiche pubbliche italiane. Ciò non toglie che anche quella cruciale attivazione sia stata svolta in forma e misura diverse dalle singole regioni italiane. I fondi strutturali hanno messo a dura prova le capacità amministrative di tutte le regioni italiane, ma più di alcune che di altre.
L’imposizione di rendicontazione e di controllo della spesa pubblica ha addirittura impedito, in una prima difficile fase di adattamento, l’utilizzo delle risorse comunitarie. In seguito, come accennato, le capacità di adattamento delle amministrazioni regionali della maggior parte delle regioni hanno accresciuto la loro capacità di spesa. Rimangono però molte zone d’ombra, magari contestate o controverse, che differenziano l’efficienza e il dinamismo delle singole regioni, come per es. quelle che emergono dalla capacità di utilizzo dei fondi strutturali, assai maggiori per le regioni settentrionali rispetto a quelle, più carenti, dimostrate dalle meridionali.
Se confrontata agli altri Paesi membri dell’Europa a 15, l’Italia è stata fino al 2012, insieme alla Spagna e alla Germania, uno dei maggiori beneficiari della politica di coesione. Delle risorse ricevute dall’Italia, l’80% in media è stato assegnato ai programmi a gestione regionale. La proporzione è stata diversa: in base al principio della concentrazione dei fondi nelle aree più svantaggiate, fino al 2006 tutte le regioni meridionali hanno concorso alla spartizione delle risorse destinate all’Obiettivo 1, quello per le regioni in ritardo di sviluppo, alle quali l’Europa ha assegnato il 65% degli aiuti. Nei due periodi 1994-99 e 2000-06, per es., le regioni meridionali hanno ricevuto un plafond complessivo di fondi pari a cinque volte quello assegnato alle regioni centro-settentrionali (Profeti 2013). Come già ricordato, nell’Obiettivo 1 rientravano le regioni il cui PIL fosse inferiore al 75% della media europea. Abruzzo, Basilicata e Molise hanno superato quella soglia, mentre la Sardegna si accinge a farlo, essendo entrata nella standing list. Le tre regioni risultano le più virtuose del Mezzogiorno anche per altri aspetti, compreso il miglior tasso di crescita.
Largamente inferiore ai fondi assegnati per le regioni previste nell’Obiettivo 1, l’insieme dei finanziamenti assegnati alle regioni del già Obiettivo 2, per un supporto complementare allo sviluppo economico territoriale, è stato soggetto a maggiore elasticità sia nell’ammissibilità delle richieste sia per la possibilità di deroghe. Tanto la consistenza finanziaria quanto l’attenzione politica sono state diverse da caso a caso. Per un gruppo di regioni (Piemonte, Toscana, Liguria, Lazio e Veneto) i fondi sono stati fortemente rilevanti, assorbendo quel gruppo, per es. nella fase di programmazione 2000-06, il 68% delle risorse disponibili. Debolmente rilevanti sono stati invece i fondi destinati alle altre regioni (Lombardia, Umbria, Marche, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, alle quali si aggiunse l’Abruzzo) che nella stessa fase 2000-06 hanno ricevuto ciascuna quote inferiori al 6% (A. Lippi, Partenariato e rappresentanza nelle regioni del Centro-Nord, in Europeizzazione e rappresentanza territoriale, 2006, pp. 181-220). Infine va ricordato che le regioni del Centro-Nord sono fra loro diverse per tradizioni, orientamenti politici e caratteristiche socioeconomiche, diversità che rendono difficile un discorso generale sull’utilizzo dei fondi strutturali, tanto più che le regioni a statuto speciale avevano e hanno ricche dotazioni.
I margini di azione delle regioni con Obiettivo 1 sono definiti, invece, da un unico programma quadro multiregionale, negoziato dal governo centrale, chiamato Quadro comunitario di sostegno (QCS), il che ha comportato una più ampia ingerenza del governo di Roma. D’altronde, l’attenzione del governo si è sempre maggiormente accentrata verso il sostegno e la guida delle regioni meridionali, e ciò tanto più dopo l’istituzione del Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione (DPS) del Ministero del Bilancio.
Qualità e quantità dei fondi distribuiti e indubbia maggiore preoccupazione del governo non rendono facile confrontare il rendimento delle istituzioni regionali del Centro-Nord con quelle del Sud. Inoltre, è stato messo in discussione di recente lo stesso criterio adottato dalla Commissione europea, semplice nella sua univocità: la capacità delle regioni di spendere le risorse nei tempi stabiliti. Il mancato rispetto delle scadenze di spesa può comportare il ritiro delle risorse non utilizzate: per venire incontro a situazioni di difficoltà sono state concesse alcune proroghe (fino al 2008 per i fondi 2000-06).
Un’accurata ricerca sull’accesso ai fondi strutturali e al loro utilizzo da parte delle regioni italiane condotta su alcuni programmi del 2000-06 (gli unici per i quali è possibile attualmente trarre bilanci attendibili) ha messo in luce la maggiore o minore attivazione delle stesse. Per misurare l’efficienza finanziaria sono state sommate le medie dei valori standardizzati ottenuti dalle regioni sulle percentuali e dei pagamenti effettuati dal 2002 al 2007, considerando l’andamento di pagamenti e impegni nel corso degli anni. Ne è risultato un quadro complessivo (Profeti 2013) che mostra un nucleo di regioni del Centro-Nord particolarmente efficienti in alcuni tipi di programmi (Programma Obiettivo 1 e 2 e Programma LEADER plus, questo secondo per lo sviluppo rurale). Ebbene, in ambedue i programmi gli indici utilizzati hanno dato come particolarmente efficienti le seguenti regioni: Emilia-Romagna, Veneto, Toscana e, in misura minore, Piemonte e Friuli Venezia Giulia. Quasi tutte le regioni del Mezzogiorno, insieme alla Liguria, hanno dato invece risultati inferiori alla media in ambedue gli obiettivi. Quanto all’esecuzione finanziaria nell’iniziativa comunitaria LEADER, hanno dimostrato una capacità superiore Lombardia, Umbria e Marche. Nella gestione dei programmi dell’Obiettivo 1, Basilicata e Molise sono state molte più efficienti di tutte le altre regioni meridionali. «La maggiore efficienza della Basilicata rispetto alle altre del Mezzogiorno è confermata se guardiamo ad un altro versante dell’efficienza amministrativa, la capacità di rispettare le richieste dell’UE o del Governo centrale in merito alla gestione degli aiuti europei. Oltre a spendere le risorse nei tempi previsti, alle Regioni viene infatti domandato di rispettare alcuni adempimenti e alcune scadenze in merito alla programmazione degli interventi» (Profeti 2013, p. 228).
Continuando a prendere in considerazione il Programma LEADER plus 2000-06 che riguardava tutte le regioni, prestandosi così a unità di misura per una comparazione, la capacità programmatoria (emissione dei bandi, approvazione delle graduatorie e assegnazione delle risorse ai gruppi di azione locale) è apparsa diversa da regione a regione. Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte e Lombardia hanno impiegato meno di un anno per completare tutte le operazioni, mentre al Lazio e a tutte le regioni meridionali sono serviti più di 500 giorni. «Se si guarda al quadro complessivo, particolarmente critica risulta la situazione della Puglia che, con ben 811 giorni necessari per il completamento delle operazioni, ha fatto slittare il concreto avvio del programma più di due anni e mezzo dopo la sua approvazione. Tenuto conto di queste differenze, risulta assai comprensibile la performance di spesa complessivamente sotto la media che molte regioni del Mezzogiorno hanno realizzato in relazione a questo tipo di programma» (Profeti 2013, p. 232). Toscana, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria e Abruzzo, con l’aggiunta delle Marche, si dimostrarono regioni più virtuose nell’utilizzo del Fondo per la progettazione preliminare per le aree sottoutilizzate (FAS), gestito dalla Cassa depositi e prestiti e distribuito come finanziamento a fondo perduto per la predisposizione di analisi di fattibilità regionali. Le regioni elencate avevano assorbito la totalità delle risorse loro spettanti, ma sette di tutte le altre regioni, fra cui la Puglia e la Calabria, ma anche il Lazio, non avevano utilizzato affatto tali risorse.
Combinando i diversi indicatori in due indici di efficienza ammnistrativa e di capacità programmatoria, è risultato che nella gestione dei fondi strutturali quasi tutte le regioni del Centro-Nord si collocavano sopra la media. La Toscana e l’Emilia-Romagna presentavano i valori più alti, mentre i valori più bassi emergevano da regioni meridionali e dal Lazio (Profeti 2013). In Abruzzo e Basilicata che, come già rilevato, si sono ben collocate in una graduatoria di attivazione fra tutte le regioni, si è probabilmente sviluppata quella migliore capacità amministrativa dovuta all’adattamento alle esigenze comunitarie di cui si è già detto. Resta che tutte le regioni del Mezzogiorno, sulla base di indicatori i più diversi, si collocano nella parte bassa della graduatoria. Nell’utilizzo dei fondi strutturali esse sono ancora più giù, in specie per quanto riguarda la capacità di spesa, ma non solo. E ciò mentre i fondi strutturali sono diventati davvero l’unica sostanziale fonte di spesa nelle zone in ritardo di sviluppo. Quei fondi dovrebbero essere alla base della politica di sviluppo, e le regioni, come già ricordato più volte, vi svolgono un ruolo di primo piano. È pur vero che, quanto agli effetti dei flussi di euro provenienti da Bruxelles, è «difficile, se non impossibile stabilire una correlazione fra quelli che sono stati gli investimenti condotti attraverso la politica regionale europea e i risultati in termini di crescita economica in una determinata area» (G.P. Manzella, Relazione, «Quaderno SVIMEZ», 2010, 25: I fondi strutturali e il Mezzogiorno dopo il Trattato di Lisbona, p. 18). Ma è anche vero che la situazione delle regioni del Mezzogiorno dà alcuni segni allarmanti. Se si prende un periodo significativo, fra il 1999 e il 2007, e si fa un confronto con aree depresse di altri Paesi europei, se ne ricava che il nostro Sud è cresciuto solo dell’1%, mentre altre aeree europee, beneficiarie anch’esse dei fondi strutturali, del 3,3% (L. Cannari, D. Franco, Il Mezzogiorno: ritardi, qualità dei servizi pubblici, politiche, in «Stato e mercato» 2011, 1, pp. 3-40).
Quindi il problema dell’utilizzo dei fondi strutturali riguarda quasi tutte le regioni meridionali. Le modalità e il ritardo nella spesa sono state oggetto di dure polemiche. Se si passano in rassegna i POR del 2007-13 se ne ricava che tutte le regioni, le meridionali comprese, prevedono impegni del 100% delle risorse assegnate, qualcuna anche una percentuale più alta. La stessa rassegna rivela però una dispersione delle risorse programmate in una miriade di micro-progetti, anche se alcune regioni meridionali, come per es. la Campania, avrebbero scelto, invece, la strada dei grandi progetti. In ogni caso, che si tratti di micro- o di macro-progetti, fatto è che soltanto una parte vengono realizzati e le risorse tempestivamente spese. Si tratta di oscillazioni nelle cifre, non sempre facilmente interpretabili. Sulla incapacità delle regioni italiane di spendere tutti i fondi assegnati si sono comunque accesi i riflettori sia della Commissione di Bruxelles, sia della Corte dei conti di Roma. Le rampogne della prima, in particolare, sono state riprese talvolta dai media italiani. Nel 2011 la Commissione europea ha sottolineato, per la Calabria, la preoccupante lentezza nell’avanzamento del programma e la scarsa affidabilità dei sistemi di gestione e di controllo regionale. Allo stesso riguardo, la Corte dei conti europea ha minacciato la sospensione dei pagamenti residui del FESR e del FSE e l’eliminazione della Regione Calabria dal programma 2014-20. Quanto alle critiche dei media italiani, nel 2012 è stata presa di mira in particolare la Sicilia, che a quella data avrebbe realizzato soltanto il 9% dei progetti finanziati.
Naturalmente analisi e critiche sono suscettibili di errore, essendo i criteri di misurazione e di analisi di per sé controversi e prestandosi, per di più, a interpretazioni differenti. Vero è anche che le procedure dell’Unione sono caratterizzate da eccessiva burocrazia e il sistema dei finanziamenti non sfugge a questa regola. Anche i passaggi fra Commissione europea, Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), ministeri e regioni sono gravati da complesse procedure burocratiche. La necessità del cofinanziamento da parte dello Stato italiano (fra il 50 e il 60% dell’ammontare) è un altro forte impedimento all’utilizzo rapido dei fondi europei a disposizione dell’Italia, che ha un debito pubblico così alto. Lo scaglionamento dei pagamenti, inoltre, e il fatto che il consumo dei fondi passa attraverso il vaglio della Commissione europea non fanno che aggiungere ritardi, non permettendo neanche di stimare un tempo preciso per il pagamento finale. Forse perché consapevole di tutto ciò, la Commissione ha sempre concesso una dilazione nelle spese e nei rendiconti, per es. spostando al 2009 la chiusura dei conti del 2000-06. Comunque, l’efficacia delle politiche messe in atto non può essere valutata sulla base dei pagamenti, cioè su criteri meramente quantitativi (l’entità della spesa), ma devono essere valutati, piuttosto, gli effetti dei progetti finanziati e utilizzati. Tuttavia il ritardo che emerge per molte regioni meridionali, a cominciare dal confronto fra loro e poi anche con le altre regioni europee ‘in ritardo di sviluppo’, rende difficile non stilare analisi severe.
A titolo esemplificativo, nel periodo di programmazione 1989-93, per le regioni italiane rientranti nell’Obiettivo 1, cioè tutte le meridionali, i fondi strutturali, che rappresentavano il 20% della spesa pubblica in conto capitale, furono utilizzati in prevalenza per il sostegno alle piccole e medie imprese. Le stesse regioni, però, incontrarono notevoli difficoltà nell’attuazione delle politiche strutturali con la conseguenza della perdita o dell’utilizzo ritardato di una quantità di risorse. Alla fine del 1995 avevano effettuato pagamenti pari al 73% dei fondi ed evitarono di perdere il resto grazie a una proroga. La più virtuosa fu la Basilicata con una spesa pari al 92%. Tra le ragioni addotte, soprattutto la complessità delle procedure amministrative, l’elevato numero di soggetti coinvolti, la difficoltà di inserire il cofinanziamento comunitario nelle gestioni di bilancio, l’assenza di criteri di coordinamento fra Stato e regioni.
Nel successivo periodo di programmazione (1994-99) i fondi strutturali rappresentarono il 5% della spesa in conto capitale delle regioni meridionali. La spesa in alcuni settori (telecomunicazioni, ambiente, turismo, risorse umane) fu superiore al 50% di quella totale per lo sviluppo. La valutazione effettuata dall’Istituto ISMERI Europa mostrò un miglioramento dell’efficienza del rapporto fra spesa realizzata e programmata. La Sardegna, la Basilicata e l’Abruzzo avevano effettuato pagamenti superiori al costo totale. Ultima era stata la Calabria con soltanto l’86% dei pagamenti sui costi programmati. Di fronte a una migliorata efficienza di spesa restava un problema di relativa inefficacia nella gestione dei fondi. Le cause erano la scarsa capacità di programmazione dei soggetti responsabili, la mancanza di un disegno strategico per lo sviluppo, la scarsa attitudine a percepire i bisogni del territorio e l’eccessiva frammentazione degli interventi (Scarcelli 2001). Alla fine del periodo di programmazione 1994-99, quindi alla fine del secolo, le regioni meridionali, terminato l’intervento straordinario, non riuscirono a far registrare una sensibile convergenza con le regioni centro-settentrionali. Fu limitato l’allargamento della distanza e sembrò ridursi la loro dipendenza economica (F. Boccia, R. Leonardi, E. Letta et al., I Mezzogiorni d’Europa, 2003). In quegli anni nemmeno lo stimolo del Dipartimento per le politiche dello sviluppo (DPS), istituito nel 1997, riuscì a modificare la lentezza dei ritmi dell’azione di governo. Soltanto l’economia della Basilicata, forse proprio per le sue migliori prestazioni nell’efficienza della spesa, prese a convergere con le regioni del Centro-Nord.
Con la parziale eccezione di Basilicata, Abruzzo e Molise, i primi due periodi di programmazione fecero quindi registrare esiti deludenti: «L’arrivo dei fondi strutturali non fu salutato con particolare entusiasmo dalle Regioni del Mezzogiorno, da un lato perché essi rappresentavano un’opportunità finanziaria tutto sommato contenuta, se paragonata al flusso delle risorse nazionali, e dall’altro perché chiedevano condizioni attuative procedurali ben più stringenti rispetto alle pratiche seguite per i trasferimenti statali» (Giannelli, Profeti 2006, p. 230). I trasferimenti statali erano stati per decenni prevalentemente quelli della Cassa del Mezzogiorno, abolita nel 1992 proprio con l’avanzare della politica regionale europea. La Cassa aveva concesso ampia, forse troppa, discrezionalità nella gestione delle risorse distribuite.
Nel periodo 2000-06 alcune regioni meridionali migliorarono i livelli di spesa. Alcuni dati parziali del 2003 e del 2005 destarono comunque allarme: in media le regioni meridionali avevano speso poco più del 40% delle risorse disponibili, la Campania e la Sicilia addirittura soltanto il 37,5%. La quota degli impegni assunti, come si è sopra anticipato, fu superiore a quella programmata, il che significa una generosa promessa di distribuzione di risorse senza sicurezza del loro utilizzo. Nel rendiconto del 2009 risultò che avevano impegnato (non speso) il 93,6% degli stanziamenti complessivi. La Campania aveva, di sicuro, lasciato inutilizzati 1500 milioni di euro del contributo dei fondi strutturali, la maggior parte dei quali sarebbe dovuta andare alla tutela dell’ambiente, in una regione dove il problema del mancato smaltimento dei rifiuti si faceva dirompente. La Campania si distingueva anche, come altre regioni (Calabria e Puglia), per il ritardo nella istituzione dei servizi di controllo richiesti dall’Unione Europea, servizio che, al 2013, non è ancora stato istituito dalla Sicilia, con conseguente (più forte che altrove) spesa praticamente incontrollata e nessuna capacità di recupero delle somme distribuite. Bisogna arrivare alla fine del periodo 2000-06 per cominciare a vedere, anche da parte di molte regioni meridionali, il superamento dell’impreparazione e dell’incapacità tecnica di programmare interventi di lungo periodo, e questo grazie all’impegno delle élite politiche e amministrative.
Un bilancio della politica di coesione europea e l’analisi del suo mancato impatto sullo sviluppo delle regioni meridionali sono partiti dalla seguente considerazione: «In Italia le attese circa l’impatto della politica di coesione europea sono diminuite sensibilmente e la carica riformatrice suscitata negli anni Novanta sembra lasciare il posto ad un mesto scetticismo. Si ritiene comunemente che soprattutto le regioni meridionali non abbiano saputo cogliere l’occasione presentatasi con i fondi strutturali, sprecando gran parte delle risorse finanziarie e lasciando di poco immutate le regole formali e informali che sovraintendono ad una programmazione dello sviluppo ancora inefficace e inefficiente» (Sacco 2011, p. 245). Una parte della vasta pubblicistica sul tema si è concentrata sulle scarse attitudini a spendere o a spendere correttamente le risorse monetarie ottenute. Ma un’altra parte ha sottolineato anche l’incapacità delle istituzioni nazionali a sostenere le regioni del Sud in un percorso comunque accidentato, nonché gli errori della stessa Unione Europea rispetto alle politiche dello sviluppo, quando ha inteso definire dall’alto i confini delle scelte possibili.
La situazione amministrativa e programmatoria delle regioni, in specie delle meridionali, era alla fine degli anni Novanta ancora carente da molti punti di vista. Ma la debolezza programmatica della Commissione europea ha finito con il depauperare l’eventuale capacità pianificatrice delle regioni, privandole di quell’autonomia necessaria per predisporre percorsi di sviluppo realmente rispondenti ai fabbisogni dei loro territori. Anche da qui è derivata una dispersione delle risorse in una serie di piccoli e grandi obiettivi privi di una cornice di senso generale. «L’approccio iper-razionalista adottato dalla Commissione europea non ha certo favorito un cambiamento nel comportamento degli attori pubblici e privati nelle Regioni in cui esistono trappole di sottoutilizzazione delle risorse o di esclusione sociale» (Sacco 2011, p. 258). Magari, nel loro processo di apprendimento e di adattamento, gli amministratori regionali si sono concentrati prevalentemente sui meccanismi di spesa, di certificazione e di rispetto dei tempi, ma hanno posto scarsa attenzione all’efficacia e alla qualità dei loro progetti. Il processo di adattamento ha forse acuito le sensibilità delle regioni rispetto all’attore esterno rappresentato dall’Unione Europea, ma quest’ultima ha ridotto gli spazi di autonomia dei governi regionali nell’ideazione di percorsi di sviluppo territoriali.
Le regioni meridionali non sono state aiutate a riflettere sui loro specifici ‘nodi’ sociali e istituzionali, mancando spesso di una teoria della programmazione e costrette a riattivare vecchie logiche redistributive sulla base delle convenienze politico-affaristiche. In questa ottica, la programmazione 2007-13, fondata sulla sola dimensione economica della politica di coesione e sorda alle componenti della società, accentua nel Mezzogiorno il disorientamento delle classi politiche e amministrative, intrappolate negli obblighi delle risorse assegnate, di quelle da spendere e di quelle da rendicontare, perdendo di vista il percorso di una politica di sviluppo.
Questa lettura del rapporto fra regioni e Unione Europea evidenzia dunque i rischi di una mancata autonomia delle élites regionali meridionali (forse non solo meridionali), proprio quando sottolinea la volontà e la capacità dei ceti politico-amministrativi di adattarsi a una delle politiche chiave dell’Unione. I dati riportati in tabella sono provvisori in quanto le regioni italiane, approfittando della ulteriore proroga, forse fino al 2016, dovrebbero poter migliorare la loro efficienza operativa.
Tuttavia, sono dati significativi che vedono ai primi cinque posti regioni meridionali, persino l’Abruzzo che era stato virtuoso in anni recenti. Ci sono soprattutto la Campania e la Sicilia, il cui ammontare di fondi non utilizzati è davvero notevole. Via via che si scende nella lista, si risale la penisola fino alla Provincia di Trento la cui tempestiva capacità di spesa, sia pure alla luce di ridotti finanziamenti, merita attenzione.
Dal 2014 gran parte dei fondi strutturali sono destinati alle regioni dell’Europa centro-orientale, che sono arrivate più tardi in Europa e che hanno pressoché tutte un livello di PIL inferiore rispetto a quelle occidentali. Le regioni italiane che non sono riuscite, per le buone e le cattive ragioni appena viste, ad approfittare bene e fino in fondo delle risorse finanziarie comunitarie, potrebbero paradossalmente patire meno dei tagli previsti. Ben più gravi possono essere le conseguenze della crisi economica che dal 2008 attanaglia l’Unione Europea. Non solo perché la crisi ha aperto un periodo di scarse risorse per tutti, ma anche e soprattutto perché sta facendo scricchiolare l’intera impalcatura comunitaria. Ha riaperto egoismi statal-nazionali che hanno dato vigore a neocentralismi, tutti a scapito delle autonomie regionali. Il fait régional, per usare un’espressione francese, sembra aver perso nell’arena europea il vigore degli anni a cavallo del secolo. Il mancato pieno riconoscimento della posizione e del ruolo istituzionale del Comitato delle regioni nel Trattato della Costituzione europea del 2004 è stato un freno pesante per l’aspirazione degli enti substatali di tutta Europa a giocare un ruolo da protagonisti nelle istituzioni comunitarie.
Ma la devoluzione, intesa qui come trasferimento di poteri e di risorse dallo Stato centrale agli enti regione (o come si chiamino nei diversi sistemi europei), ha preso piede anche nei nuovi membri dell’Unione, che in alcuni casi avevano anticipato con riforme di regionalizzazione il loro ingresso nel 2004 e nel 2007. I sistemi politico-istituzionali sono cambiati, e sono cambiati, grazie al processo di integrazione europeo, a favore delle regioni. In seguito alla politica regionale europea, sempre più articolata e consistente, e che non pare arrestarsi nonostante le difficoltà ricordate, gli enti substatali sono diventati interlocutori diretti e attendibili per le autorità comunitarie. Lo schema interpretativo di questa trasformazione è notoriamente quello della multi-level-governance che prevede la negoziazione e la collaborazione fra soggetti collocati istituzionalmente su piani diversi, che si proceda verso l’alto (il livello delle istituzioni comunitarie) o verso il basso (il livello degli enti substatali). Il modello spiega l’evoluzione dei rapporti interistituzionali, un’evoluzione che dovrebbe andare a discapito degli Stati-nazione.
Forse è esagerato sostenere che la redistribuzione del potere in Europa dopo i primi anni Novanta ha costituito una rottura epocale rispetto ai 700 anni di storia precedente. Certo è che le regioni si sono conquistate uno spazio che non potrà più essere compresso. A meno che l’Unione Europea non imploda e il processo cominciato all’inizio degli anni Sessanta non si sgretoli nel nulla.
Le regioni italiane hanno visto riconosciuta, pur con tappe lunghe e frapposte di ostacoli, la loro aspirazione a muoversi sull’arena europea per stringere rapporti con enti omologhi di altri Stati e per promuovere i propri interessi. La riforma del titolo V della Costituzione, rovesciando il riparto delle competenze legislative fra Stati e regioni, ha garantito a queste ultime un sia pur limitato potere esterno e, in particolare, il potenziale accesso alle istituzioni comunitarie. Come si è visto, tutte le regioni italiane hanno fatto parte, magari in tempi diversi e in misura diversa di impegno, dell’Assemblea delle regioni d’Europa che è il loro organismo rappresentativo; qualcuna ha tenuto la presidenza, altre sono state rappresentate nell’Ufficio politico. La partecipazione al Comitato delle regioni passa necessariamente attraverso canali istituzionali ed è richiesto un decreto del governo che definisce il numero dei membri regionali; alcuni membri italiani hanno ricoperto la carica di presidente o di vicepresidente; tutti sono stati i più assidui alle sedute plenarie. Quasi tutte le regioni italiane aderiscono inoltre, si è visto, ad altre cosiddette ‘conferenze’, cioè agli organismi di rappresentanza volontari. Più importante per i loro interessi, e quindi per il loro impegno, è il canale di rappresentanza costituito dagli Uffici delle regioni a Bruxelles, grazie ai quali tutte le regioni italiane svolgono una intensa attività paradiplomatica. Gli Uffici di Bruxelles sono percepiti come strategici da tutte le regioni italiane, che li considerano parte delle loro amministrazioni. La maggioranza di essi dipende, si è visto, dalle presidenze regionali.
Se quasi tutti gli statuti regionali richiamano la vocazione europeista, quel che conta è la formazione di settori specializzati delle amministrazioni regionali, che siano della stessa presidenza o degli assessorati competenti. In questi nuovi o rinnovati settori delle amministrazioni regionali si vanno diffondendo una cultura e un linguaggio comuni che alle istituzioni europee fanno riferimento. Il processo di adattamento ha comportato una revisione delle procedure tradizionali e degli stili di comportamento.
La mobilitazione orizzontale è forse l’attività che le regioni perseguono con più intensità, producendo una fittissima mole di scambi che comporta vincoli e opportunità. L’elenco delle associazioni e delle reti alle quali partecipano le regioni italiane è in continua crescita e include molti più nomi di quanti ne siano stati fatti in questa analisi. Il grado di risorse umane e monetarie impiegate non è stato e non è lo stesso per tutte le regioni. Quelle dell’Italia centro-settentrionale risultano più attive e più partecipi delle meridionali. Tutte, però, vanno alla ricerca, con maggiore e minor successo, di partner stranieri per realizzare quei programmi comunitari che possono consentire di accedere ai fondi strutturali.
La capacità amministrativa delle regioni è stata messa a dura prova dalla richiesta e dal ricevimento dei fondi strutturali. L’impostazione della rendicontazione e del controllo della spesa hanno impedito in una prima fase l’utilizzo delle risorse comunitarie. Queste difficoltà, nonostante un miglioramento della capacità amministrativa, sembrano essere state più forti per le regioni meridionali, specialmente per quelle più grandi, che hanno ricevuto un ammontare di fondi molto più alto delle settentrionali. Le regioni meridionali più piccole hanno conosciuto, dagli ultmi anni Novanta, processi di sviluppo che stanno loro permettendo di convergere con le regioni centro-settentrionali – anche se è difficile valutare quanto il flusso di risorse comunitarie abbia condizionato questo sviluppo. Allo stesso modo è difficile valutare se e quanto la presenza di criminalità organizzata abbia ostacolato una gestione virtuosa dei finanziamenti nelle regioni più grandi. Se si prescinde da questa e da altre zone grigie, è innegabile che le regioni italiane siano divenute partecipi del processo ormai noto come ‘europeizzazione’, che fa riferimento a quelle pressioni all’adattamento che vengono dall’alto, ma anche alle capacità e alla volontà di assimilare regole e modalità europee che si sviluppano dal basso. Le regioni italiane si stanno dunque europeizzando e, addirittura, come in tutte le altre regioni europee, sembrano attualmente le istituzioni più interessate a respingere l’idea di un fallimento del processo di integrazione europea.
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