Le questioni di giurisdizione in appello
Nell’ambito della disciplina generale dell’appello, il codice del processo amministrativo ha innovativamente delineato un microsistema di regole speciali sull’impugnazione delle sentenze pronunciate in punto di giurisdizione. Nel corso del 2012 i giudici amministrativi si sono occupati in più occasioni del rito in materia di giurisdizione, approfondendone i principi di funzionamento, parzialmente difformi da quelli che governano il regime ordinario delle impugnazioni. Di tali peculiarità processuali la più rilevante, giacché gravida di ricadute sistematiche, è la preclusione, introdotta dal nuovo codice, della rilevabilità d’ufficio in appello del difetto di giurisdizione, attualmente censurabile solo mediante la proposizione di uno specifico motivo di impugnazione. Inoltre, proprio nel contesto di un appello sulla giurisdizione, il Consiglio di Stato ha colto l’occasione per rilanciare il delicato tema dell’abuso del processo.
Nel corso del 2012 il Consiglio di Stato e il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana hanno avuto modo di occuparsi del regime processuale delle questioni di giurisdizione, esaminandone vari profili applicativi. Il codice del processo amministrativo (d.lgs. 2.7.2010, n. 104, all. 1) è intervenuto in maniera innovativa sulla disciplina sia del transito sia della trattazione in appello delle suddette questioni; il Legislatore delegato ha recepito, tra l’altro, taluni recenti indirizzi esegetici del Supremo Collegio in tema di giudicato implicito1, chiaramente ispirati dalle esigenze di abbreviare la durata delle controversie che, senza definire il merito della lite, investano unicamente il profilo dell’esatta individuazione del giudice provvisto di iuris dictio.
In punto di rito merita menzione la sentenza del C.g.a. 29.3.2012, n. 361, con la quale è stato preso in esame lo sciame di problematiche che si addensano attorno all’interpretazione applicativa del combinato disposto degli artt. 87, co. 3, e 105, co. 2, c.p.a.
Di tale decisione giova riferire i passaggi fondamentali. Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana è stato chiamato a pronunciarsi su un’eccezione di irricevibilità di un appello proposto in data 31.5.2011 contro una sentenza di primo grado notificata il 1° aprile (e, dunque, entro il termine perentorio stabilito dall’art. 92, co. 1, c.p.a.), ma oltre il termine dimezzato, pari a 30 giorni, fissato dal combinato disposto degli artt. 87, co. 3, e 105, co. 2, c.p.a. Il Giudice isolano, nell’accogliere l’eccezione, ha dichiarato irricevibile il gravame sulla scorta del seguente serrato argomentare:
• per la proponibilità di un’impugnazione di una sentenza con la quale il TAR abbia declinato la giurisdizione deve osservarsi un termine dimezzato rispetto a quello ordinario stabilito dall’art. 92 c.p.a.; l’art. 105, co. 2, c.p.a., difatti, rinvia integralmente alla disciplina del rito in camera di consiglio di cui all’art. 87, co. 3, c.p.a. e, dunque, anche alla regola eccezionale sulla dimidiazione dei termini;
• anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 15.11.2011, n. 195 (cd. “correttivo al codice del processo amministrativo”), la regola del dimezzamento, introdotta dall’art. 87, co. 3, c.p.a., doveva intendersi riferita al «solo giudizio di primo grado, non potendosi considerare “ricorso introduttivo” quello che introduce un’impugnazione interna a un processo già iniziato, ossia il ricorso in appello»;
• il sunnominato d.lgs. n. 195/2011 ha semplicemente confermato siffatta esegesi poiché, nel novellare l’art. 87, co. 3 c.p.a., lungi dall’introdurre una norma di sostanziale interpretazione autentica, ha soltanto ricondotto ad unità, in virtù dell’inserimento della locuzione incidentale «nei giudizi di primo grado», una dizione legislativa «che, invece, indicava le singole fasi in cui eventualmente può svilupparsi il giudizio di primo grado»;
• pertanto, sul punto, non può accogliersi «l’istanza di parte ricorrente volta ad ottenere il beneficio dell’errore scusabile, … perché non ricorrono le oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto di cui all’art. 37 c.p.a., attese le motivazioni suddette sulla non equivoca disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 105, 2° comma, e 87, 3° comma, del c.p.a.».
Un altro profilo problematico, di ben maggiore spessore, che – sempre traendo spunto da un appello in materia di giurisdizione – ha richiesto uno specifico approfondimento del Consiglio di Stato concerne il tema dell’abuso del processo. La sentenza più significativa, al riguardo, è certamente quella della Quinta Sezione del 7.2.2012, n. 6562.
La controversia riguardava il caso di una società rivoltasi in primo grado al TAR per la Lombardia onde tutelarsi avverso un atto comunale dichiarativo della decadenza di una concessione di costruzione e gestione di un centro sportivo polifunzionale, in titolarità della medesima ricorrente. Avendo il primo Giudice respinto il ricorso, la soccombente era insorta in appello avanti il Consiglio di Stato lamentando il difetto della giurisdizione amministrativa.
Il gravame è stato dichiarato inammissibile sulla base di un ragionamento decisorio, gravido di implicazioni sistematiche. In sintesi il Consiglio di Stato ha preso l’abbrivo dall’art. 9 c.p.a. per rilevare che, in virtù di tale previsione, «anche nel processo amministrativo è stato introdotto, ope legis, il principio del c.d. giudicato interno implicito sulla questione di giurisdizione, principio da tempo affermato, in via pretoria, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione con riguardo al processo civile». Il punto innovativo della pronuncia va tuttavia individuato nell’affermazione secondo cui non può ritenersi «legittimata alla sollevazione dell’eccezione di difetto di giurisdizione in sede di appello la parte che abbia adito la stessa giurisdizione con l’atto introduttivo di primo grado». In particolare il Consiglio di Stato, dopo aver richiamato un recente precedente della Sesta Sezione3 reso in difformità rispetto all’orientamento esegetico formatosi in costanza del previgente regime processuale4, ha statuito che la soluzione contraria – nel senso cioè della possibilità, per la parte ricorrente e rimasta soccombente in primo grado, di contestare la giurisdizione scelta – «si porrebbe in contrasto con i principi di correttezza e affidamento che modulano il diritto di azione e significherebbe, in caso di domanda proposta a giudice carente di giurisdizione, non rilevata d’ufficio, attribuire alla parte la facoltà di ricusare la giurisdizione a suo tempo prescelta, in ragione dell’esito negativo della controversia». In aggiunta il Consiglio di Stato ha osservato come, a favore della pronuncia di inammissibilità, militasse, oltre al disposto del sunnominato art. 9 c.p.a., pure il «principio generale che vieta, anche in sede processuale, ogni condotta integrante abuso del diritto, quale è da ritenersi, a guisa di figura paradigmatica, il venire contra factum proprium dettato da ragioni meramente opportunistiche». Dopo essersi intrattenuto sulla ricostruzione dei connotati identificativi della figura generale dell’abuso del diritto, richiamando alcuni insegnamenti del Supremo Collegio e dell’Adunanza plenaria5, il Consiglio di Stato ha infine affermato che il divieto di abuso del diritto, costituendo una specifica declinazione del fondamentale canone costituzionale di solidarietà, si applica anche in ambito processuale, con la conseguenza che esso va sanzionato con il diniego della tutela al cospetto di condotte di parte costituenti un esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, della facoltà di scegliere le più convenienti strategie difensive. In definitiva – questo è l’approdo dell’articolata riflessione – l’auto-eccezione di giurisdizione, proposta in sede di appello, integra una trasgressione del divieto di venire contra factum proprium e, quindi, può essere paralizzata, anche d’ufficio, in virtù dell’exceptio doli generalis seu presentis6.
Le decisioni, sopra passate in rapida rassegna, offrono l’occasione per un esame delle disposizioni che il codice del processo amministrativo dedica all’appello che investa questioni di giurisdizione. L’insieme di dette previsioni, individuabili negli artt. 9, 87 e 105 c.p.a.7, configura un microsistema per molti versi speciale all’interno della disciplina dell’appello, disciplina che, a sua volta, è un sottoinsieme di quella generale sulle impugnazioni. Le peculiarità dell’appello vertente, solamente o anche, su questioni di giurisdizione riguardano molti istituti processuali quali: i termini per la proposizione dell’impugnazione (art. 87, co. 3, c.p.a); il rito delle trattazioni in camera di consiglio (art. 87, co. 2, c.p.a.); le regole relative alla stessa ammissibilità delle questioni (art. 9, co. 1, secondo periodo, c.p.a) e, infine, gli esiti del giudizio (art. 105 c.p.a.). È possibile analizzare le suddette previsioni codicistiche sulla base di un ordine logico, diverso da quello incentrato sulla loro topografia normativa e invece focalizzato sul segno e sul contenuto delle statuizioni di volta in volta appellate. Più in dettaglio, le disposizioni sopra indicate possono ricondursi a due gruppi, a seconda che esse riguardino il caso dell’affermazione, esplicita o implicita, della giurisdizione da parte del TAR oppure l’ipotesi inversa della declinatoria in primo grado della iuris dictio amministrativa: da un lato si colloca infatti l’art. 9 c.p.a., che concerne l’appello proposto contro sentenze dei tribunali amministrativi regionali che abbiano ritenuto, in modo esplicito o implicito, la giurisdizione; dall’altro lato vi sono invece le altre norme – ossia gli artt. 87, co. 3 e 105 c.p.a. – che si riferiscono agli appelli proposti contro sentenze od ordinanze8 con le quali, in prime cure, sia stata declinata la giurisdizione amministrativa.
2.1 L’intervento operato dal “correttivo” del 2011
Il microsistema dell’appello sulle questioni di giurisdizione, del quale si è indicato il quadro normativo di riferimento, è stato interessato, ancorché marginalmente, dalle modifiche apportate al codice del processo amministrativo dal d.lgs. n.195/2011: infatti è stato inserito, nell’art. 87, co. 3, c.p.a., un inciso («nei giudizi di primo grado») che, come si vedrà (v. il § 2.4), ha influito sul dibattito in merito alla scusabilità dell’errore della parte, qualora specificamente consistito nell’inosservanza dei termini dimezzati per la proposizione dell’appello avverso le sentenze recanti una declinatoria della giurisdizione amministrativa.
2.2 Gli specifici motivi sul difetto di giurisdizione
In linea con il sopra proposto criterio di organizzazione logica della normativa, occorre dapprima soffermarsi sulla regola dettata dall’art. 9 c.p.a., per poi passare alle problematiche più direttamente correlate al rito.
Il secondo periodo dell’art. 9, co. 1, c.p.a. stabilisce innovativamente che, nei giudizi di impugnazione – a differenza di quelli celebrati in primo grado in cui la carenza della potestas iudicandi è rilevabile d’ufficio fino al momento della discussione (purché nel rispetto delle modalità previste dall’art. 73, co. 3, c.p.a.9) – il difetto di giurisdizione può essere rilevato soltanto se dedotto, con uno specifico motivo avverso il capo o i capi della pronuncia impugnata che in modo implicito o esplicito abbiano statuito sulla giurisdizione. A tal proposito, nella Relazione di accompagnamento al codice, si legge che la norma, in coerenza con i principi del giusto processo, costituisce applicazione del criterio di delega inteso al recepimento dell’orientamento della Corte di cassazione sul cd. “giudicato implicito” in tema di giurisdizione. La succinta considerazione contenuta nella Relazione merita di essere integrata con alcune precisazioni destinate a rendere meglio intelligibile il senso dell’innovazione introdotta dall’art. 9. Il previgente art. 30, co. 1, l. TAR disponeva infatti che «(i)l difetto di giurisdizione deve essere rilevato anche d’ufficio». Orbene, tralasciando i più risalenti indirizzi pretori formatisi sull’esegesi di detta norma10, va ricordato che l’interpretazione prevalente della giurisprudenza amministrativa, recepita anche dall’Adunanza Plenaria11, fu nel senso di ritenere, mediando tra le posizioni estreme, che il giudice d’appello potesse verificare d’ufficio la sussistenza della propria giurisdizione anche in appello, ma solamente nel caso in cui la sentenza gravata non contenesse, sul punto, alcuna statuizione espressa e, quindi, anche nel caso in cui il TAR avesse “implicitamente” ritenuto la propria giurisdizione, pronunciandosi direttamente sul merito della controversia; invece, qualora il primo giudice avesse espressamente esaminato la questione, allora il Consiglio di Stato avrebbe potuto pronunciarsi nuovamente sul punto soltanto in presenza di uno specifico motivo di impugnazione. Su tale posizione si attestò anche la prevalente giurisprudenza successiva, nonostante la nomofilachia della Corte di cassazione si stesse consolidando sul diverso indirizzo12 secondo cui la formazione di un qualunque giudicato sulla giurisdizione, incluso quindi il cd. “giudicato implicito”, era d’ostacolo, in virtù della preclusione stabilita dall’art. 329, co. 2, c.p.c., a una verifica d’ufficio da parte del giudice di appello. Il codice ha quindi superato l’orientamento fatto proprio dalla Plenaria e ha recepito, in ossequio a quanto richiesto dalla legge di delega13, i criteri enunciati dal Supremo Collegio. Più in dettaglio l’art. 9 c.p.a. ha introdotto nel sistema due rilevanti principi: segnatamente, a) ha chiarito che il giudice d’appello non può mai sindacare d’ufficio la giurisdizione, posto che attualmente assume rilievo preclusivo pure il giudicato interno, quand’anche implicito, formatosi per effetto delle statuizioni di merito contenute nella sentenza impugnata e b) ha poi precisato che la questione di giurisdizione può transitare in secondo grado unicamente se veicolata da un motivo di impugnazione, principale o incidentale, che abbia a specifico oggetto la iuris dictio, così superando anche l’altro pregresso orientamento relativo alla forma che deve assumere, in appello, l’atto volto a contestare la giurisdizione14.
Le ragioni giustificatrici dell’art. 9 c.p.a. sono due e poggiano sull’esigenza di snellire il processo quanto più possibile, abbreviandone la durata (v. l’art. 2, co. 2, c.p.a.) e sulla necessità di assicurare l’effettività e la pienezza della giurisdizione, onde evitare – attraverso la rapida definizione degli aspetti della controversia non direttamente attinenti al merito della lite – un eccessivo impegno della magistratura amministrativa nella soluzione di questioni di secondario interesse15 rispetto alla richiesta di una pronta risposta giudiziaria.
Con la pronuncia della quale si è dato sopra conto16 il Consiglio di Stato si è spinto molto oltre e ha delineato – attingendo il piano dei principi generali dell’ordinamento – un’ulteriore preclusione, non espressamente considerata dall’art. 9 c.p.a., alla proponibilità di un appello in materia di giurisdizione. Il principio enunciato, quasi al limite della nomopoiesi giurisprudenziale, è di indubbio spessore. Dal punto di vista pratico sostenere l’impossibilità per il ricorrente (e soccombente) in primo grado di contestare, tramite l’appello, la scelta della giurisdizione in precedenza compiuta, equivale in sostanza ad affermare che quella scelta, risalente alla fase introduttiva del giudizio, è a tutti gli effetti irrevocabile, di guisa che electa una via non datur recursus ad alteram. Riguardata la questione da una differente prospettiva, potrebbe icasticamente ritenersi che il Consiglio di Stato abbia negato ogni valenza ludica del processo: il giudizio amministrativo non è un “gioco” – in cui unicamente conti l’obiettivo di conseguire un risultato utile, quali che siano la tattica e la strategia utilizzate – ma esso serve a rendere una giustizia effettiva nell’ambito di un rapporto (processuale) ispirato a correttezza comportamentale. Non possono dunque ammettersi in alcun caso, opponendovisi il fondamentale canone di solidarietà scolpito dall’art. 2 Cost., condotte delle parti non ispirate a criteri di lealtà e buona fede.
2.3 Il rito camerale. Giustificazione
Sempre seguendo la sistematica sopra suggerita può passarsi ad esaminare le altre disposizioni relative al rito. Come sopra osservato, il combinato disposto degli artt. 105, co. 2, e 87, co. 3, c.p.a. prevede un rito particolare, in camera di consiglio, per l’impugnazione, tra l’altro, dei provvedimenti dei TAR con i quali sia stata declinata la giurisdizione. Si assiste pertanto a una differenziazione del regime processuale delle impugnazioni in materia di giurisdizione: accanto al rito ordinario (o abbreviato ex art. 119 c.p.a. o comunque speciale nei casi stabiliti dal codice17), applicabile quando il TAR abbia ritenuto, sia pure implicitamente, la propria potestas decidendi, si colloca ora quello camerale nei casi in cui il primo giudice abbia declinato la giurisdizione.
La caratteristica principale di tale secondo rito – oltre all’assenza di una trattazione in udienza pubblica18 e alla fissazione d’ufficio della camera di consiglio – è indubbiamente rappresentata dalla regola di dimezzamento di tutti i termini processuali19. Detta regola conosce poche, tipiche eccezioni che, in primo grado, riguardano: a) i giudizi cautelari, inclusi quelli sulle esecuzione delle misure cautelari, b) il giudizio sul silenzio ex art. 116 c.p.a. e c) i termini per la notificazione del ricorso introduttivo, di quello incidentale e dei motivi aggiunti; in secondo grado, invece, le eccezioni si riducono alle sole ipotesi dei d) giudizi cautelari ed e) all’appello sulle sentenza in materia di silenzio.
La ratio giustificatrice della dimidiazione è stata individuata nell’esigenza di assicurare una rapida trattazione delle controversie che presentino, in astratto, una minore complessità in quanto richiedenti una cognizione di natura meramente delibativa (come quella che sorregge le pronunce cautelari) oppure circoscritta all’attuazione o all’emenda formale di una precedente decisione (come avviene per l’ottemperanza o per la correzione di errori materiali) o comunque incentrata essenzialmente su un’unica questione (così per i silenzi, gli accessi e le opposizioni ai decreti di estinzione o di improcedibilità). A quest’ultimo gruppo sono riconducibili anche gli appelli rivolti contro i provvedimenti con i quali i TAR abbiano declinato la giurisdizione20. In questi casi difatti la questione da esaminare è, ovviamente21, solo quella relativa alla giurisdizione.
2.4 I termini dimezzati per l’appello e l’errore scusabile
L’introduzione, per effetto degli artt. 87, co. 3, e 105, co. 2, c.p.a., della regola sul dimezzamento dei termini per la proposizione dell’appello contro le decisioni recanti una declinatoria della giurisdizione amministrativa, ha posto il problema della scusabilità, o meno, dell’eventuale errore della parte incorsa in un’irricevibilità. Si è sopra riferito che il C.g.a. ha assunto, al riguardo, una posizione molto rigorosa ritenendo assai chiaro il disposto normativo e stante il tempo trascorso dall’entrata in vigore del nuovo codice. Soprattutto il Giudice siciliano ha escluso che il d.lgs. n. 195/2011 abbia inteso offrire un’interpretazione “autentica” dell’art. 87, co. 3, c.p.a., dettata dal fine di scongiurare il rischio di interpretazioni difformi. Va segnalato tuttavia che tale rigore esegetico non risulta condiviso dal Consiglio di Stato, dal momento che, con la pressoché coeva sentenza n. 1574 del 20.3.2012, la Sesta Sezione ha invece ritenuto che l’originaria versione dell’art. 87, co. 3, c.p.a. non recasse una nitida indicazione in ordine alla assoggettabilità al dimezzamento anche dei termini previsti per la notificazione del ricorso di appello e che, anzi, proprio tale incertezza interpretativa avesse indotto il Legislatore del “correttivo” a modificare la norma, dovendo «ritenersi che prima dell’adozione di tale decreto legislativo si era in presenza di quelle “oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto” che integrano gli estremi dell’errore scusabile ai sensi dell’art. 37» c.p.a. Deve peraltro osservarsi che la pronuncia appena citata si inserisce nella scia di un recente indirizzo del Consiglio di Stato più aperto – ancora una volta in dichiarato ossequio al principio di effettività della giurisdizione – alla concessione del beneficio dell’errore scusabile, se commesso dalle parti in buona fede. Costituisce testimonianza eloquente di tale orientamento una recente decisione della Plenaria che, superando in parte il rigore applicativo inizialmente seguito all’indomani dell’entrata in vigore del codice22, ha, da un lato, affermato in via generale la doverosità dell’applicazione oggettiva dei riti stabiliti dalla legge e però, allo stesso tempo, ha ammesso la scusabilità di un errore nel quale una parte sia stata indotta dal comportamento fuorviante del giudice.
2.5 Gli esiti del giudizio in tema di giurisdizione
La specifica disciplina degli esiti del secondo grado del giudizio varia a seconda della sentenza impugnata. Se, difatti, il TAR abbia ritenuto implicitamente o esplicitamente la giurisdizione, il Consiglio di Stato potrà: a) confermare sul punto la sentenza, decidendo le altre questioni devolute con l’appello oppure b) riformare del tutto la sentenza annullandola, qualora ritenga che la giurisdizione difetti, e indicando, se esistente, il giudice nazionale che ne sia fornito a norma dell’art. 11 c.p.a. Se, invece, il TAR abbia declinato la giurisdizione, allora il Consiglio di Stato potrà: c) confermare la sentenza e le altre statuizioni a norma dell’art. 11 c.p.a. o d) riformare la sentenza annullandola e disponendo il rinvio della causa al giudice di primo grado per la riassunzione del giudizio23.
Nei casi in cui abbia ad oggetto soltanto la questione di giurisdizione l’appello assume insomma la fisionomia di un rimedio esclusivamente demolitorio e non rinnovatorio, alla stregua di un mezzo di impugnazione in senso stretto, focalizzato cioè in via esclusiva sui vizi dell’atto-sentenza.
Dai superiori rilievi si trae la conferma della perdurante criticità, anche nel nuovo regime processuale, del tema della giurisdizione. Ai ben noti problemi del riparto, che rivestono un’estrema delicatezza per ogni magistratura il cui ubi consistam poggi sulla specialità rispetto a quella ordinaria, si aggiungono ora le peculiarità processuali rappresentate dalla previsione di un rito speciale e accelerato, applicabile nei casi in cui in primo grado si sia negata la spettanza della controversia al giudice amministrativo.
3.1 L’abuso del processo e la buona fede processuale
Non a caso dunque il contenzioso sulla giurisdizione, che più di altri24 si presta a condotte delle parti ispirate da finalità di carattere strumentalmente dilatorio, ha offerto l’occasione al Consiglio di Stato per rilanciare il tema dell’abuso del processo quale ipotesi particolare di abuso del diritto. Tale problematica, la cui vastità25 non consente una trattazione esauriente in questa sede, potrebbe rivelarsi foriera di significativi sviluppi in considerazione del fatto che il fenomeno dell’abuso può astrattamente venire in rilievo in relazione ad ogni istituto processuale26, condizionandone l’interpretazione applicativa da parte dei giudici amministrativi. Più in generale, come reso palese anche dall’evoluzione registratasi in tema di errore scusabile, la riflessione della giurisprudenza sui principi ispiratori del nuovo codice sembra valorizzare, molto più che in passato, la lealtà delle parti in senso sia negativo sia positivo27. Uno sviluppo di questo tipo, del quale ancora non si intravvedono i possibili approdi futuri, esalta indubbiamente i poteri di governo del giudice e, però, suscita anche alcune perplessità in ragione dei correlati e inevitabili elementi di incertezza in ordine all’applicazione delle regole processuali, la cui uniforme osservanza rappresenta il principale presupposto per una reale parità delle parti, solennemente sancita dal nuovo codice.
1 Ex multis, Cass., S.U., 9.10.2008, n. 24883.
2 Sulla sentenza citata nel testo, v. Patrito, P.-Protto, M., Eccezione di difetto di giurisdizione proposto in appello dal ricorrente, in Urb. app., 2012, 4, 467 e, soprattutto, Carbone, V., L’abuso del diritto e l’abuso del processo irrompono nella giustizia amministrativa come limiti alla proposizione in appello della questione di giurisdizione, in Nuovo dir. amm., 2012, 1, 27 ss., con ampi richiami dottrinari e giurisprudenziali.
3 Cons. St., sez. VI, 10.3.2011, n. 1537.
4 Cons. St., sez. VI, 10.9.2009, n. 5454.
5 Cass., S.U., 15.11.2007, n. 23726; Cons. St., A.P., 23.3.2011, n. 3. Con tali pronunce, come osservato dal Consiglio di Stato nella sentenza citata nel testo, è stata riconosciuta la vigenza, nel nostro sistema, di un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, divieto che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali.
6 In tema, anche Cons. St., sez. VI, 10.3.2011, n. 1537, cit. in nt. 3.
7 Alle questioni di giurisdizione sono altresì dedicati gli artt. 10 e 11 c.p.a.
8 Va segnalato che il cd. “secondo correttivo al codice del processo amministrativo” (d.lgs. 14.9.2012, n. 160) ha esteso la disciplina dettata dall’art. 105 c.p.a. anche alle ordinanze.
9 L’art. 73, co. 3, c.p.a. recepisce il principio sancito dall’art. 101 c.p.c. mirante a contrastare le decisioni cd. “a sorpresa”.
10 Detti indirizzi, più remoti, sono stati ben ricostruiti da Ferrari, G., Il nuovo codice del processo amministrativo, II ed., Roma, 2012, 76 ss.: secondo un primo orientamento il Consiglio di Stato avrebbe potuto verificare in ogni caso d’ufficio la sua giurisdizione, a nulla rilevando che sul punto il giudice di primo grado si fosse pronunciato con esplicita statuizione (tra le altre, Cons. St., sez. IV, 4.2.1999, n. 112). Un diverso orientamento affermò, invece, che il giudice di appello potesse sindacare d’ufficio la giurisdizione soltanto qualora il TAR non avesse al riguardo espressamente statuito e, quindi, soltanto in assenza di qualunque valutazione da parte del primo giudice o in presenza di una valutazione implicita (Cons. St., sez. IV, 15.12.2003, n. 8212). Infine, in base a un terzo indirizzo, più rigoroso, si stabilì che il giudice d’appello non potesse mai pronunciarsi sulla giurisdizione se non in presenza di una specifica censura diretta in parte qua contro la decisione gravata (Cons. St., sez. IV, 14.4.2004, n. 2105).
11 Cons. St., A.P., 30.8.2005, n. 4.
12 V. il precedente cit. in nt. 1.
13 L’art. 44, co. 1, l. 18.6.2009, n. 69 prevede, infatti, il criterio direttivo dell’adeguamento della disciplina processuale alla giurisprudenza delle giurisdizioni superiori e, pertanto, nel contrasto tra la posizione dell’Adunanza Plenaria e delle Sezioni Unite, si è accordata una condivisibile preferenza all’interpretazione offerta dal Giudice del riparto.
14 In passato si era infatti ritenuto che la questione di giurisdizione potesse essere introdotta in appello anche con semplice memoria (C.g.a. 11.3.1986, n. 32).
15 Almeno dal punto di vista sostanziale.
16 Seguita da Cons. St., sez. IV, 2.3.2012, n. 1209.
17 Si pensi, ad esempio, ai giudizi elettorali di cui agli artt. 126 ss. c.p.a.
18 Ma va ricordato che l’eventuale trattazione di un affare camerale in udienza pubblica non comporta alcuna nullità (art. 87, co. 4, c.p.a.); mentre una radicale invalidità ricorre nel caso contrario.
19 Va segnalato che ai termini di cui all’art. 87 c.p.a. non può applicarsi l’ulteriore dimezzamento previsto dall’art. 119 c.p.a. (Cons. St., sez. III, 19.12.2011, n. 6638).
20 O la competenza.
21 Atteso che l’accertamento della carenza della giurisdizione preclude ogni ulteriore cognizione.
22 Cons. St., A.P., 9.8.2012, n. 32.
23 Deve osservarsi che il d.lgs. 14.9.2012, n. 160 ha novellato l’art. 105, co. 3, c.p.a., chiarendo che, in caso di rinvio al primo giudice, il processo non prosegue in modo automatico, ma va riassunto, ad istanza di parte, entro un termine perentorio.
24 Anche a causa e in conseguenza delle incertezze sul riparto tra giudice ordinario e amministrativo.
25 Come noto, il principio di abuso del diritto, di remotissima origine, è stato ampiamente utilizzato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella materia tributaria (sentenze del 21.2.2006, rispettivamente C-223/03 e C-255/02). In ambito nazionale l’abuso del diritto, dapprima elaborato nel settore delle obbligazioni, ha poi trovato applicazione in quello tributario (tra le altre, Cass., sez. trib., 21.10.2005, n. 20398) e, infine, anche nell’alveo processuale, inizialmente per contrastare il fenomeno della parcellizzazione dell’azione di recupero di un unico credito (ex plurimis, Cass., S.U., 15.11.2007, n. 23726).
26 Si veda, ad es., Cass., sez. I, ord. 3.5.2010, n. 10634, che applica il principio del divieto di abuso del processo ai fini della liquidazione delle spese giudiziali.
27 Della lealtà delle parti,sotto il profilo del dovere di redigere gli atti difensivi in modo chiaro, si è occupato anche il d.lgs. n. 160/2012, con il quale si è previsto che il giudice, nel liquidare le spese processuali, debba anche tener conto del rispetto del principio di chiarezza di cui all’art. 3, co. 2, c.p.a. Onde accrescere tale chiarezza si è novellato anche l’art. 40 c.p.a., oltre all’art. 26, co. 1, c.p.a. Giova inoltre segnalare che il suddetto decreto ha esteso la disciplina dell’art. 87, co. 3, c.p.a. anche all’ipotesi dell’appello avverso le ordinanze pronunciate nei giudizi di cui all’art. 87, co. 1, lett. e), c.p.a., eliminando così la precedente asimmetria normativa.