Le professioni tecniche, giuridiche ed economiche
Una delle caratteristiche di lungo periodo delle professioni liberali italiane è la frammentarietà. Clivages geografici, sociali, politici ed economici hanno continuato a segnare la loro storia anche nel corso del Novecento, ostacolando lo sviluppo di una forte identità di gruppo. Gli storici parlano dei professionisti del diritto nei termini di «molteplici avvocature» (Tacchi 2002, p. 73), tante furono le differenze tra le tradizioni giuridiche degli Stati preunitari che confluirono, complicandolo, nel processo di costruzione di una professione unitaria culminato nella l. forense 8 giugno 1874 nr. 1938. Anche il processo di professionalizzazione degli ingegneri iniziato nel primo Novecento fu profondamente segnato dalla persistenza di elementi di regionalismo. Essi si manifestarono nel differente grado di riconoscibilità sociale di cui godevano gli ingegneri a seconda delle zone del Paese, nel diverso modo di svolgere la professione e di intendere il rapporto con lo Stato e il mercato. La combinazione di questi fattori diede luogo a una contrapposizione tra Nord e Sud che impedì loro di elaborare una strategia unitaria che consentisse di centrare in età giolittiana l’obiettivo dell’inquadramento legislativo della professione. Solo la disoccupazione intellettuale seguita alla Prima guerra mondiale fu in grado di smussare le differenze regionali e convincere tutti gli ingegneri a richiedere il riconoscimento giuridico della professione.
I professionisti italiani sono rimasti per lungo tempo un gruppo elitario, formato dagli strati medio alti della borghesia e con una spiccata tendenza a riprodursi al proprio interno. La cosiddetta endogamia professionale è rimasta una delle loro caratteristiche principali, particolarmente accentuata tra gli avvocati. Sono cresciuti di numero in senso assoluto, ma non in quello relativo, dal momento che il rapporto tra i professionisti e la popolazione è rimasto, sia pure tra alti e bassi, sostanzialmente stabile fino agli anni Settanta del Novecento. L’aumento della scolarità secondaria e delle iscrizioni all’università, seguite alla liberalizzazione degli accessi al ciclo superiore degli studi avvenuta nel 1970, hanno innescato un ciclo ascendente i cui effetti si sono cominciati a vedere dagli inizi degli anni Ottanta. Da quel momento il numero dei professionisti iscritti agli albi è aumentato costantemente fino a raggiungere in alcuni settori una condizione di vero e proprio sovraffollamento.
Il campo giuridico-economico è stato quello maggiormente interessato da questa espansione. I ragionieri che nel 1953 erano 2671, nel 1985 erano saliti a 17.008 iscritti all’albo, dei quali ben 10.687 si erano abilitati nel quindicennio 1970-85; i dottori commercialisti sono sestuplicati tra il 1965 e il 2007, passando da 13.423 all’inizio del periodo considerato a 65.670 nel 2007. Ma la crescita più spettacolare riguarda la professione forense. Rimasta sostanzialmente stabile dal 1881 al 1981 (in questi 100 anni vi sono stati 7,5 avvocati su 10.000 abitanti), essa è stata interessata da un aumento impensabile solo pochi anni prima. Le ragioni vanno ricercate sia nell’aumento inarrestabile delle iscrizioni alle facoltà di giurisprudenza sia nella riforma della professione che nel 1997 ha ottemperato alle direttive comunitarie riunificando la professione di avvocato e quella di procuratore, tale per cui fino al 2012 si diventava avvocati dopo tre anni di tirocinio postlaurea e il superamento dell’esame di Stato (dal 2012 il tirocinio è stato ridotto, per gli avvocati come per tutte le altre professioni che lo prevedono, a 18 mesi, di cui 6 possono essere svolti durante il corso di studi). Nel 1989 gli avvocati iscritti all’albo erano 53.000 (di cui 40.000 iscritti alla Cassa forense, ossia realmente esercenti la libera professione); nel 2006 avevano superato i 178.000, mentre gli iscritti alla cassa erano 129.359.
Nell’arco degli ultimi cento anni, la struttura occupazionale delle professioni italiane è variata in base alla loro dislocazione regionale. Questa variabilità – come hanno evidenziato Andrea Cammelli e Angelo di Francia (2009) – si manifesta: nel sovraffollamento degli avvocati e dei procuratori nelle regioni meridionali e nelle isole e nel successivo sorpasso da parte delle regioni centrali nella seconda metà del Novecento, che non ha comunque impedito al Sud di collocarsi come numero complessivo di avvocati su livelli decisamente superiori a quelli delle regioni del Nord; nella tendenza alla ‘equidistribuzione’ dei notai nelle diverse aree; nello squilibrio territoriale a favore delle regioni del Centro e del Nord che investe le professioni sanitarie; nella forbice tra Nord e Sud che per gli ingegneri e architetti si è andata allargando nel tempo; infine nella diffusione territoriale dei veterinari ‘a macchia di leopardo’ legata alle trasformazioni che hanno investito la comunità professionale, quali l’allargamento del mercato sanitario alla cura dei piccoli animali da compagnia e i nuovi assetti della veterinaria pubblica.
Dinamiche proprie ha, invece, conosciuto la geografia delle professioni economico-contabili, la quale è stata investita da profonde trasformazioni solo a partire dalla fine degli anni Ottanta del 20° secolo. Fino a quella data, infatti, essa ha continuato ad articolarsi sulla base di uno spiccato dualismo geografico che era la dimostrazione dello stretto rapporto esistente tra lo sviluppo professionale e quello locale dell’area in cui il professionista economico-contabile lavorava: nel 1963 i ragionieri iscritti a un collegio professionale del Nord costituivano il 58,6% del totale, nel 1980 questa quota si attestava ancora al 50,1%. Nel 1995 i ragionieri che appartenevano a un collegio professionale del Sud erano diventati il 34,5% del totale. Il processo di diffusione dei professionisti economico-contabili sul territorio nazionale può dirsi concluso, attestandosi su un equilibrio fisiologico. Nel 2011, i dottori commercialisti ed esperti contabili iscritti a un albo professionale sono 113.235, di questi il 37,9% del totale (pari a 42.959 professionisti) appartiene a un ordine del Sud, nelle regioni del Nord esercitano 45.877 professionisti (17.207 in quelle del Nord-Est e 28.670 professionisti nelle regioni del Nord-Ovest) pari al 40,5% del totale, nelle regioni del Centro operano 24.399 dottori commercialisti ed esperti contabili (21,6%). Ancora marcati sono, invece, gli scostamenti per regione essendo la Lombardia (16,9%), la Campania (12%) e il Lazio (11,6%) le aree in cui il numero dei dottori commercialisti e degli esperti contabili è più alto.
La crisi economica e finanziaria che ha colpito con particolare violenza l’Italia agli inizi del terzo millennio non ha avuto ricadute significative sul numero dei professionisti. I liberi esercenti specializzati nei servizi alle imprese e nei servizi alla persona rappresentano infatti l’unica componente del mercato del lavoro che continua a crescere a ritmi elevati. Nel 2009 gli iscritti agli ordini e collegi professionali erano 2.020.906, due anni dopo il loro numero è salito a 2,6 milioni. Nel decennio che si è appena concluso, le professioni economico-giuridiche sono cresciute del 28%, del 29% quelle tecniche dove i tassi più elevati di crescita si sono registrati tra gli architetti e gli ingegneri, mentre i geometri risultano pressoché stazionari, le professioni dell’area medico-sociale del 23%, quelle giornalistiche addirittura del 42%, nonostante questa occupazione sia più che mai in salita (tab. 1).
In questo contesto risulta particolarmente significativa la crescita del numero degli iscritti all’albo degli avvocati che oggi sfiorano la quota di 200.000.
L’elevato numero dei professionisti liberali si traduce in un rapporto popolazione/professionisti che risulta eccessivamente elevato rispetto alla media europea. Per gli architetti, la media italiana è di un professionista ogni 470 abitanti, in Francia di 1/2228 abitanti, in Inghilterra di 1/1925, in Spagna di 1/1214 e in Germania di 1/1642 abitanti (la media europea è di un architetto ogni 1148 abitanti); per i dottori commercialisti spiccano sul piano regionale i valori altissimi della Sardegna (886), del Trentino-Alto Adige (850), della Valle d’Aosta (746) e del Molise (722). Questa situazione accentua la debolezza del sistema delle professioni italiane, soprattutto se paragonata alle dinamiche delle altre nazioni europee nelle quali le professioni liberali restano gruppi piuttosto ristretti. L’esempio degli avvocati è a questo proposito eclatante. A fronte degli attuali 220.000 avvocati italiani, in Francia ce ne sono meno di 60.000. Nel 2005 gli architetti iscritti agli ordini professionali in Italia erano 123.083 contro i circa 50.000 della Germania e i 27.000 della Francia. Il solo ordine professionale di Roma contava, a quella data, 13.986 appartenenti, tanti quanti operano complessivamente in Svezia e Portogallo. Questi alti numeri hanno provocato in tempi di crisi e di contrazione dei mercati professionali un abbassamento sensibile dei redditi nei livelli più bassi dei professionisti.
Per di più l’indice di diffusione territoriale non sempre presenta un nesso con la vivacità economico-sociale dell’area in cui i professionisti operano. I dottori commercialisti e gli esperti contabili presentano un indice di diffusione territoriale più basso della media nazionale (pari a 3,5 iscritti per 10 km) nel Nord-Est (2,9), e più elevato nel Nord-Ovest, dove raggiunge i 4,7 iscritti per 10 km, nel Centro (4,2) e nel Sud dove è di 3,5 iscritti per 10 km.
Allo sviluppo numerico delle professioni liberali e alle trasformazioni che ne hanno interessato i contenuti e le funzioni, solo a partire dagli anni Novanta sono corrisposte modifiche nelle modalità di esercizio professionale e nelle forme organizzative che, va detto, non hanno ancora coinvolto in eguale misura né tutti i gruppi professionali, né le varie anime territoriali del medesimo segmento professionale, accentuandone così le divisioni interne. Tra gli architetti permane ancora uno spiccato individualismo: gli studi di architettura italiani contano mediamente 1,4 addetto per studio contro i 6,6 addetti dell’Inghilterra, i 6,5 dell’Olanda, i 4,5 della Germania, i 4,1 della Francia e i 2,6 della Spagna.
Diversamente, gli avvocati e i dottori commercialisti, posti di fronte alla domanda proveniente soprattutto dalle imprese di disporre di servizi professionali integrati, sono stati indotti a dare vita a entità capaci di coordinare una varietà di competenze professionali, interne ed esterne, e in grado di rispondere a una domanda molto sofisticata e diversificata. Questa trasformazione culturale si è diffusa tra gli avvocati a partire dalle regioni del Nord, mentre tra i professionisti economico-contabili pur nel quadro generale di sviluppo (inteso come crescita degli studi associati, del tasso di appartenenza a un network, di collegamento a società di servizi), sono le aree del Nord-Est a imporsi come le più innovative tanto da imporre quasi un proprio modello, ossia la prevalenza dello studio associato di grandi dimensioni che appartiene a una rete.
L’universo delle professioni liberali è stato fino a pochi decenni fa uno dei luoghi privilegiati del dominio maschile. Entrate in numero quasi insignificante nel mondo delle libere professioni tra Otto e Novecento (le donne medico e le ragioniere) e la fine della Prima guerra mondiale (le donne avvocato) e da esso respinte immediatamente dal fascismo, le italiane hanno faticato più delle altre consorelle dell’Europa occidentale ad affermarsi in questa cittadella della mascolinità. Oggi, a fronte di percorsi di studio universitario in cui le donne si caratterizzano per gli ottimi risultati ottenuti, il mercato professionale non sembra ancora riconoscerli appieno. La partecipazione delle donne alla libera professione varia a seconda dell’ambito professionale: si va dal 12,3% degli ingegneri a poco più del 29% per i notai, a più del 90% per le ostetriche e le assistenti sociali (tab. 2). Ma anche su questo piano permangono discrepanze regionali di un certo rilievo, sebbene la recente crescita della presenza femminile nelle libere professioni sia stata accompagnata da una notevole ridistribuzione geografica. In Emilia-Romagna per es., la femminilizzazione è scarsa, ma in aumento nell’area delle professioni tecniche, dove le donne sono circa l’1% tra i periti industriali, il 13% tra gli ingegneri, il 16% tra gli agronomi, il 18% tra i geologi. Sono il 29% tra i notai e il 39% tra i dottori commercialisti, raggiungono il 41% tra i veterinari e i medici, il 42% tra gli architetti, superano la componente maschile tra gli avvocati (sono il 51%), tra i consulenti del lavoro, dove le donne sono il 58% del totale, e gli psicologi (81%). Le ostetriche sono tutte donne. Nelle nuove iscrizioni all’ordine professionale, poi, sono più le donne rispetto agli uomini tra i medici e i veterinari.
Nei luoghi di formazione delle scelte politiche dei corpi professionali le donne contano ancora poco. Nei consigli degli ordini professionali sono, a livello nazionale, il 14%. Sopra la media nazionale si confermano alcune regioni, per es. l’Emilia-Romagna, dove le donne nei consigli degli ordini professionali provinciali e/o regionali sono quasi il 30% dei componenti e 28 sono gli ordini presieduti da donne.
Nel corso della storia dell’Italia unita, le professioni protette – ovvero regolate da una legge che ne ha garantito il titolo professionale e ha attribuito loro forme variabili di monopolio del mercato professionale – hanno costruito la propria identità avendo come principale referente lo Stato. Detentore del monopolio dell’istruzione e della formazione professionale, lo Stato ha giocato un ruolo determinante nel processo di professionalizzazione: è un agente di legittimazione attraverso le leggi di regolamentazione professionale, esercita un potere di selezione – contribuendo così a creare una gerarchia sociale e di status delle libere professioni – che ha privilegiato dapprima i professionisti del diritto, che per quasi quaranta anni furono i soli ad avere una legge di inquadramento nazionale, poi le professioni sanitarie, i tecnici negli anni del fascismo, infine, nell’Italia repubblicana le altre professioni, dagli infermieri professionali ai giornalisti, geologi, biologi, periti agrari, dottori agronomi e dottori forestali, consulenti del lavoro, psicologi, assistenti sociali, tecnologi alimentari e altre ancora per un totale, oggi, di oltre trenta. Nel sistema delle professioni italiane, lo Stato però non è l’unico attore. L’altro polo sono ovviamente i gruppi professionali e la loro forza combattiva, intesa come capacità di condizionamento e di contrattazione.
Nel 2001, la riscrittura del titolo V della seconda parte della Carta costituzionale ha mutato lo scenario di riferimento. Il nuovo art. 117 Cost., ponendo sullo stesso piano la potestà legislativa statale e quella regionale, ha affermato una competenza «concorrente» tra Stato e regioni in materia di professioni. Si è venuto in tal modo ad ampliare lo spazio a disposizione dell’autonomia regionale e un terzo protagonista – le regioni appunto – si è inserito nella relazione che intercorre tra lo Stato e le libere professioni. Sulla questione della distribuzione delle competenze tra Stato e regione, così come sulla difficoltà a segnare con certezza i confini e i limiti d’intervento, si è aperto un intenso dibattito giurisprudenziale nel quale sono stati coinvolti il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale. Ma il fatto che già poche settimane dopo l’entrata in vigore della riforma della legge costituzionale le regioni cominciassero a legiferare ha dimostrato non solo la tendenza di queste ultime a fare propria la materia, ma l’effettiva attenzione verso il mondo delle professioni, sia quelle protette sia quelle non regolamentate, cioè verso un ampio settore della vita economica dell’Italia, la cui disciplina investe aspetti sensibili quali il diritto al lavoro, l’uguaglianza dei cittadini, la libertà di circolazione e occupazione negli Stati dell’Unione Europea e sul territorio nazionale.
La prima regione a intervenire è stata la Calabria. La l. reg. 26 nov. 2001 nr. 27 definisce all’art. 1 i compiti spettanti alla regione. Essa è tenuta a svolgere una politica in tema di professioni che includa attività di natura informativa e promozionale (tra le quali l’aggiornamento finalizzato anche all’inserimento nel contesto europeo); deve inoltre individuare le finalità da perseguire, cioè assicurare «un’adeguata tutela del cliente e degli interessi pubblici connessi al corretto e legale esercizio della professione, la correttezza e la qualità delle prestazioni, il rispetto delle regole deontologiche», e tutelare «l’autonomia del professionista nelle scelte inerenti lo svolgimento della propria attività, la diretta e personale responsabilità del professionista incaricato per l’adempimento della prestazione professionale, nonché il danno ingiusto derivante dalla prestazione stessa»; deve infine istituire e disciplinare un nuovo organismo, la Consulta per la valorizzazione degli ordini, collegi, associazioni professionali. La portata di questa legge – come ha evidenziato Riccardo Salomone (2010) – è innovativa e al tempo stesso ambigua nel momento in cui definisce il nuovo assetto delle competenze regionali. La volontà di ridimensionare o comunque circoscrivere il sistema delle professioni italiane, intaccando gli spazi di autonomia di cui esse godono, si unisce a quella di far partecipare i gruppi professionali alle decisioni politiche ed economiche fondamentali della regione attraverso lo strumento concreto della Consulta per la valorizzazione degli ordini, collegi, associazioni professionali, cioè di un organismo che riunisce i rappresentanti degli ordini, collegi e associazioni professionali istituiti e disciplinati dalla legge e che ne fanno richiesta.
Nella definizione delle modalità di raccordo funzionale tra la regione e gli enti che rappresentano le professioni, la traccia inaugurata dalla Regione Calabria è stata seguita dalla Lombardia. La l. reg. 14 apr. 2004 nr. 7 ha istituito la Consulta regionale degli ordini, collegi e associazioni professionali. La composizione dell’organismo lombardo risulta differente da quello calabrese. Fanno parte della Consulta per la valorizzazione degli ordini, collegi, associazioni professionali calabrese due rappresentanti di ciascun ordine e collegio professionale provinciale o distrettuale e due rappresentanti delle associazioni professionali provinciali oltre che tre rappresentanti dei gruppi politici, due per la maggioranza e uno per la minoranza; la Consulta regionale degli ordini, collegi e associazioni professionali lombarda è invece composta dall’assessore competente o da un suo delegato, che la presiede, da cinque rappresentanti designati dal Consiglio regionale di cui due in rappresentanza della minoranza, da un rappresentante per ogni ordine, collegio, associazione professionale regolarmente costituiti, da un rappresentante del Comitato regionale tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti, da un esperto per ogni disciplina di riferimento designato dalle singole università della Lombardia.
Ma al di là di queste diversità, identico è il minimo comune denominatore, cioè il riconoscimento della funzione sociale delle professioni e del ruolo propositivo svolto dalle istituzioni che le rappresentano, così come l’impostazione in senso autonomistico, tale per cui alla Consulta delle professioni viene attribuito un ruolo consultivo, di raccordo e di informazione nei confronti degli organi di governo e di decisione della regione. La Consulta regionale degli ordini, collegi e associazioni professionali prevista e attuata in Lombardia, per es., ha tra i suoi compiti di studiare i problemi relativi all’esercizio delle attività professionali intellettuali, di proporre iniziative tese a qualificare le professioni anche nel contesto dello sviluppo europeo, di promuovere studi e iniziative per la tutela dei professionisti, per la salvaguardia della correttezza e della qualità delle prestazioni; presenta proposte e fornisce indicazioni in materia di formazione professionale, formula pareri sugli interventi programmatici e sui progetti di legge attinenti all’esercizio professionale e la tutela del rapporto tra professionisti e clienti, sugli interventi dei vari organismi regionali con competenza in materia di libere professioni.
Al modello inaugurato dalle Regioni Calabria e Lombardia, che hanno entrambe attribuito alle consulte finalità di qualificazione delle libere professioni, di partecipazione e di collaborazione tra istituto regionale e mondo professionale, si sono richiamate altre regioni con l’approvazione di disposizioni di legge che, pur con diversa terminologia (Consulta regionale per la promozione e qualifica delle libere professioni in Piemonte; Consulta delle professioni in Friuli Venezia Giulia – l. reg. 22 apr. 2004 nr. 13; Consulta per la valorizzazione degli ordini delle associazioni professionali in Molise – l. reg. 18 ott. 2004 nr. 19; Consulta degli ordini, dei collegi e delle associazioni professionali in Abruzzo – l. reg. 8 febbr. 2005 nr. 6; Comitato consultivo regionale per la valorizzazione degli ordini, collegi e associazioni professionali in Basilicata – l. reg. 1° marzo 2005 nr. 23), definiscono in modo omogeneo gli ambiti di competenza e gli spazi di manovra attribuiti sia agli organismi di rappresentanza delle professioni sia all’ente regionale. L’unica eccezione, tra le regioni che sono intervenute in materia di professioni, è rappresentata dall’Emilia-Romagna che su questo terreno continua a muoversi all’insegna della prudenza.
Restando nel solco tracciato dalla l. reg. 21 apr. 1999 nr. 3 per il sostegno alle attività produttiva, essa si è infatti limitata con successive delibere della giunta a mirati interventi di sostegno per gli ordini, le associazioni di professionisti, gli studi professionali e i singoli professionisti, pur non mancando da parte del mondo delle professioni richiami e appelli sull’importanza di creare una consulta delle professioni. Per Confprofessioni Emilia-Romagna, cioè la delegazione regionale della Confederazione italiana libere professioni che è l’associazione sindacale fondata nel 1966, la consulta avrebbe l’obiettivo di «facilitare il recepimento delle istanze provenienti dal lavoro professionale nelle politiche regionali» (Tre proposte al femminile, «Italia Oggi», 14 marzo 2013, p. 32). Anche la Regione Emilia-Romagna, comunque, mira a una politica di condivisione delle finalità con le libere professioni intellettuali, come dimostra la Carta per le pari opportunità e l’uguaglianza sul lavoro che è stata firmata presso la sede della regione nel maggio 2011 da Confprofessioni Emilia-Romagna.
Lungo la direttrice di un sempre più marcato ed effettivo intervento legislativo regionale in materia di professioni, si è mossa, infine, la Regione Toscana che, con l’emanazione della l. 28 sett. 2004 nr. 5, ha compiuto un vero e proprio salto di qualità. Questa legge si propone infatti, in maniera organica e compiuta, di delineare le modalità di raccordo strutturale e funzionale tra la regione e le professioni riconosciute e regolamentate dallo Stato attraverso l’istituzione dei coordinamenti regionali, ossia di soggetti di rappresentanza istituzionale delle singole professioni che partecipano alle scelte regionali sulle tematiche di loro competenza (formulano pareri e proposte, partecipano alle attività di formazione professionale, designano i loro rappresentanti in seno agli organismi regionali, promuovono l’organizzazione di attività di formazione e di aggiornamento professionale in armonia con le linee di intervento definite dalla regione nel piano di indirizzo generale), e tra la regione e le professioni non protette; istituisce presso la giunta regionale la Commissione regionale delle professioni e delle associazioni professionali, facendone non solo il raccordo tra la regione e il mondo delle professioni come è per le altre legislazioni regionali, ma – e qui risiede la novità – lo strumento attraverso il quale gli ordini, i collegi e le associazioni professionali partecipano al governo della regione, collaborando alle scelte e agli indirizzi da adottare e alla elaborazione di norme e di disposizioni tecniche.
L’attività delle regioni di riregolazione del settore delle libere professioni intellettuali ha posto la questione, fondamentale e indubbiamente delicata, della imprescindibilità delle aree di competenza statale, da un lato, e delle prerogative degli ordini professionali, dall’altro. Di queste incursioni da parte delle legislazioni regionali in campi preclusi sono esempi evidenti: la l. reg. piemontese 24 ott. 2002 nr. 25, intitolata Regolamentazione delle pratiche terapeutiche e delle discipline non convenzionali, che prevede, tra l’altro, l’istituzione «nell’ottica del pluralismo scientifico e della libertà di scelta da parte del paziente» di un registro per le pratiche terapeutiche e per le discipline non convenzionali (art. 1), la costituzione di una commissione permanente presso l’assessorato regionale alla sanità con compiti di definizione dei requisiti minimi per il riconoscimento degli istituti preposti alla formazione degli operatori, di verifica del possesso, a seguito del superamento di un’apposita prova teorico-pratica, dei requisiti indispensabili all’iscrizione in uno specifico registro regionale (artt. 3-4), di verifica, nel periodo transitorio, di idoneità degli operatori che sul territorio già esercitavano tali pratiche non convenzionali, ai fini dell’iscrizione in questo registro (art. 7); la legge regionale molisana che si pone anche a tutela del cliente e a garanzia della qualità della prestazione e del rispetto delle regole deontologiche; infine la legge introdotta dalla Regione Friuli Venezia Giulia che, oltre a stabilire una propria definizione di attività libero professionale, ha istituito un registro delle professioni non ordinistiche e ha definito attività di sostegno e di finanziamento.
Il richiamo alla problematica distribuzione delle competenze in materia di professioni sia da parte degli ordini e dei collegi professionali sia dello Stato non si è così fatto attendere: se i primi, in particolare quelli dell’area sanitaria, si sono mobilitati contro l’apertura e il riconoscimento delle associazioni che rappresentano i professionisti della medicina alternativa, la Corte costituzionale è intervenuta contro molte delle legislazioni regionali – o parti di esse – dichiarandone l’illegittimità. In ordine di tempo, la prima decisione della Consulta ha riguardato la l. reg. piemontese del 2002 nr. 25, dichiarata in toto incostituzionale l’anno successivo, e due leggi emanate dalla Regione Abruzzo, la l. reg. 23 genn. 2004 nr. 2, laddove nello specificare i requisiti per l’abilitazione professionale ne attribuisce l’individuazione alla regione – e non allo Stato – come anche la definizione dei programmi di studio e le modalità di valutazione finale, e infine la l. 19 nov. 2003 nr. 17 sulla Istituzione del registro regionale degli amministratori di condominio.
Il caso più eclatante è però quello che ha riguardato la legislazione della Regione Toscana di cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale con sentenza del 2005. A essere contestata è stata la costituzione obbligatoria dei coordinamenti regionali e i poteri e le funzioni a essi attribuiti e spettanti invece – secondo la Corte – agli ordini e ai collegi professionali. E mentre proseguivano le pronunce sul tema da parte della Corte costituzionale, interveniva il d. legisl. 2 febbr. 2006 nr. 30 ‘La Loggia’, che dava attuazione all’art. 1, l. 5 giugno 2003 nr. 131 in materia di professioni. Con questa disposizione di legge si sono intese evitare invasioni di campo in attesa di una riforma della disciplina delle professioni che tardava ad attuarsi. In dettaglio il provvedimento ha vietato apertamente alle regioni di imporre ostacoli al libero esercizio delle professioni; ha precisato che le associazioni rappresentative di professioni non ancora regolamentate possano ottenere il riconoscimento della personalità giuridica da parte delle regioni nel cui ambito esse esaurivano le proprie finalità statutarie; ribadiva, in tema di accesso alle professioni, che la gran parte delle competenze erano riservate all’ordinamento statale, così come per i requisiti e i titoli tecnici necessari allo svolgimento di attività professionali che richiedono una specifica preparazione a garanzia di interessi pubblici generali. Due anni dopo l’emanazione del decreto legislativo ‘La Loggia’, la legge che ha ampliato il numero delle professioni protette, istituendo gli ordini di numerose professioni sanitarie e della riabilitazione, ha ulteriormente delimitato lo spazio delle regioni laddove ha stabilito che sono di competenza di queste ultime esclusivamente l’individuazione e la formazione dei soggetti professionali non ancora disciplinati.
Al di là della cronistoria dei decisi interventi della Consulta, dei contenuti delle sentenze e dell’attività legislativa centrale, occorre invece sottolineare che le regioni, come del resto altre autonomie territoriali, sono nuovamente intervenute in materia di libere professioni intellettuali e non solo non si sono discostate dal modello censurato, ma hanno ampliato i campi di intervento andando a operare laddove lo Stato e/o gli ordini professionali non si sono assunti (o non possono assumersi) responsabilità. La l. reg. toscana 30 dic. 2008 nr. 73, per es., si pone ancora come obiettivo primario quello di definire le modalità di raccordo tra la regione e le associazioni professionali che operano sul territorio regionale allo scopo di valorizzare e incentivare l’innovazione delle attività professionali e di sostenere i diritti degli utenti; istituisce e disciplina la Commissione regionale dei soggetti professionali, «al fine di favorire il raccordo tra la Giunta regionale e le professioni» (art. 3), attribuendole una funzione consultiva e propositiva (formula pareri e proposte in materia di interesse delle professioni con particolare riguardo agli atti di programmazione e alle proposte di legislazione regionale connesse alla tutela delle attività professionali e degli utenti; alla semplificazione delle procedure amministrative che coinvolgono le professioni; ai processi di innovazione delle attività professionali); sostiene finanziariamente la costituzione di un soggetto consortile multidisciplinare a servizio dei professionisti e degli utenti, promossa congiuntamente dalle professioni ordinistiche e dalle associazioni di professionisti prestatori d’opera intellettuale; istituisce un apposito fondo di rotazione per il sostegno all’accesso e all’esercizio delle attività professionali, con particolare attenzione alle donne e ai giovani. È chiaro che se la costituzione della Commissione regionale dei soggetti professionali non rappresenta una novità, lo è la creazione di un fondo di sostegno economico ad hoc a favore dei soggetti tradizionalmente più deboli – i giovani professionisti e le professioniste – che va a supplire o a integrare le carenze dell’autogoverno delle professioni.
Dare risposte efficaci alle attese sociali che provengono dal mondo delle professioni rappresenta senza dubbio l’aspetto più significativo della più recente legislazione regionale in materia. Anche la l. reg. 10 ott. 2011 nr. 19 emanata dalla Regione Piemonte istituisce un fondo regionale di rotazione per le professioni ordinistiche per la concessione di agevolazioni finanziarie dirette ai professionisti iscritti o appartenenti a un ordine o collegio professionale legalmente riconosciuto (art. 7). Il fondo – 500.000 euro nel 2011 – concede la garanzia per prestiti d’onore per gli esercenti la pratica o il tirocinio professionale, di età non superiore ai 30 anni (in questo caso il prestito è erogato per le spese di acquisizione di strumenti informatici, nonché di altri strumenti o materiali utili per lo svolgimento dell’attività professionale); per prestiti ai giovani con età inferiore ai 40 anni, finalizzati al supporto alle spese di impianto di nuovi studi professionali, mediante programmi per l’acquisizione di beni strumentali innovativi e tecnologie per l’attività professionale, in coerenza con le iniziative regionali di sviluppo e standardizzazione delle tecnologie dell’informazione e della conoscenza; per prestiti ai professionisti che istituiscono progetti di avvio o sviluppo di studi professionali, con priorità per quelli forieri di nuove possibilità occupazionali e organizzati, nelle forme previste dalla legge, in modo associato anche pluridisciplinare; per progetti finalizzati a garantire la sicurezza dei locali in cui si svolge l’attività professionale.
La legge regionale piemontese, tuttavia, rappresenta una significativa divaricazione rispetto al modello toscano. Essa riconosce come unico destinatario degli incentivi alla valorizzazione dell’attività professionale le sole professioni protette e, quindi, come interlocutore istituzionale gli organi che ne rappresentano gli interessi. All’elaborazione del testo di legge regionale sulle professioni – come sottolinea l’Ordine professionale degli architetti di Torino – hanno contribuito attivamente gli ordini professionali piemontesi attraverso la partecipazione alle consultazioni avviate già nella precedente legislatura. La legge approvata dal Consiglio regionale del Piemonte nel 2011 stabilisce e disciplina l’istituzione di una Commissione regionale delle professioni ordinistiche con il compito di formulare proposte ed esprimere pareri su questioni inerenti le professioni ordinistiche (artt. 1, 3) e di collaborare alla promozione dell’attività di formazione e aggiornamento professionale (art. 5). Fanno parte della Commissione regionale delle professioni ordinistiche – dura in carica per l’intera legislatura – l’assessore regionale competente in materia che la presiede; un rappresentante regionale di ciascuna professione ordinistica di area giuridico-economica, uno dei quali assume la carica di vicepresidente; un rappresentante regionale di ciascuna professione ordinistica di area sociosanitaria, uno dei quali assume la carica di vicepresidente; un rappresentante regionale di ciascuna professione ordinistica di area tecnica, uno dei quali assume la carica di vicepresidente; sette rappresentanti sindacali datoriali delle professioni intellettuali ordinistiche di rilevanza nazionale presenti sul territorio regionale. Si viene così a creare una gerarchia delle libere professioni intellettuali, basata sull’avere o meno ottenuto il riconoscimento da parte dello Stato, e del ruolo sociale da esse svolto.
L’asprezza del dibattito tra Stato e regioni in materia di professioni, che rientra nel più generale processo di devoluzione dei poteri dal centro alla periferia, così come le contrapposizioni tra regioni e mondo delle professioni di fronte ai tentativi di invasione di aree di competenza o di erosione dei poteri normativi degli ordini professionali, non esaurisce però il tema della relazione tra regioni e professioni. La redistribuzione dei poteri tra Stato ed enti territoriali che ha ispirato il dibattito politico e gli interventi normativi degli ultimi anni si è infatti tradotta in una progressiva riduzione della struttura verticistica e piramidale dello Stato, ponendo le basi per un crescente policentrismo istituzionale.
Le istituzioni regionali, in particolare, hanno acquisito legittimazione, autonomia, ma anche nuove funzioni e capacità decisionali. Sul piano concreto tutto questo ha significato l’affermazione, sia pure lenta e non priva di intoppi, di un nuovo modello di governance territoriale nel quale le libere professioni intellettuali – come gruppi professionali e/o singoli professionisti – sono soggetti attivi, interlocutori privilegiati delle istituzioni perché portatori e interpreti di quella expertise fondamentale per una buona governance. Ne sono esempi i vari piani regionali in materie quali la pianificazione del territorio e del paesaggio, la programmazione socioeconomica regionale, la sostenibilità del sistema sanitario, la sicurezza pubblica e la concertazione di progetti e patti di sviluppo la cui struttura è stata elaborata dalle istituzioni regionali con il supporto tecnico degli ordini e delle associazioni professionali. Il Quadro territoriale regionale paesaggistico della Regione Calabria (approvato dalla giunta regionale con delibera 20 marzo 2012 nr. 113) è il risultato di un lungo confronto con gli ordini professionali competenti (architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori; ingegneri; geologi; agronomi; geometri); analogamente il Patto per la giustizia della città di Bologna (firmato nel 2012) è frutto di un percorso condiviso tra la Regione Emilia-Romagna, le amministrazioni locali, gli ordini professionali (avvocati; dottori commercialisti ed esperti contabili; notai) e gli uffici giudiziari del capoluogo emiliano, mentre il Piano sanitario regionale 2009-2011 della Regione Umbria prevede la costituzione e il funzionamento di un Osservatorio regionale sulla qualità della formazione in collaborazione con gli ordini, i collegi e le associazioni professionali.
Altri importanti luoghi di confronto, di raccordo e di collaborazione tra gli esecutivi regionali e gli ordini professionali sono i tavoli di lavoro e le commissioni istituite dai vari assessorati, dove gli ordini sono presenti attraverso la nomina di propri iscritti quali esperti del settore. Per es. gli ordini professionali delle aree tecnico-scientifica e ingegneristica operanti in Emilia-Romagna siedono accanto ai rappresentanti delle istituzioni politiche (locali e regionale) e delle associazioni di categoria nel Comitato regionale per la riduzione del rischio sismico, nella Commissione regionale sul paesaggio e al tavolo tecnico sulle politiche del territorio. All’insegna della interdisciplinarietà è la Commissione per la qualità architettonica e il paesaggio (CQAP). Vi partecipano, in qualità di esperti nella definizione, interpretazione, progettazione e applicazione delle politiche di «qualità della vita: ambiente, paesaggio, sicurezza», rappresentanti dell’ordine degli agronomi e dottori forestali, di quello degli ingegneri e dell’ordine degli architetti.
La richiesta di supporto e di collaborazione qualificata da parte delle istituzioni periferiche (regioni, province e comuni) ha fatto sì che gli ordini professionali territoriali attivassero specifiche commissioni di studio al proprio interno, come, per es., la Commissione su energia e sostenibilità dell’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori della provincia di Milano.
Il processo di riforma che ha investito le regioni ha determinato una più articolata ripartizione dei poteri: la modifica del titolo V della Costituzione ha infatti attribuito a esse la titolarità della legislazione corrente, fatta eccezione per alcune materie quali la politica estera, la difesa, la politica monetaria e fiscale, la giustizia e la previdenza. Gli enti regionali sono così divenuti lo snodo e il soggetto fondamentale di questo nuovo assetto poliarchico dei poteri attraverso l’acquisizione e/o il rafforzamento di funzioni, e ciò ha comportato una trasposizione di obiettivi e di responsabilità di forte impatto sul sistema gestionale e, quindi, su quello delle competenze. I consulenti e le società a cui affidare attività di outsourcing sono così divenuti attori riconosciuti e indispensabili nel passaggio dalla cultura del government – cioè di gestione della cosa pubblica – a quella della governance, ovvero di direzione, guida, coordinamento.
Per ricostruire come si è articolato il sistema delle consulenze e il contributo dei professionisti alla governance delle regioni, sono stati presi in esame due casi di studio, la Lombardia e l’Emilia-Romagna, che rappresentano uno specchio eloquente, quanto a logiche politiche e modelli di governo adottati, della geografia istituzionale dell’Italia. Di esse sono state indagate le consulenze esterne (tipologia e numero, profilo professionale del consulente) e la composizione degli organi di gestione e di controllo (Consiglio di amministrazione e collegio sindacale) di enti e agenzie regionali. La fonte da cui sono state ricavate le informazioni è la banca dati sulle consulenze disponibili sui portali istituzionali delle due regioni (http://www.regione.lombardia.it; http://www.regione.emilia-romagna.it).
Nell’esercizio quotidiano delle funzioni, così come nei momenti eccezionali, gli esecutivi regionali e i diversi servizi che li compongono si avvalgono della consulenza professionale di esperti, siano essi libero professionisti, docenti universitari, manager o anche imprenditori. Ma non tutte le regioni si comportano allo stesso modo poiché si registrano notevoli differenze sia nella frequenza con cui esse ricorrono a consulenze esterne sia nel tipo di consulenza che viene richiesta (giuridica, scientifica, economico-finanziaria, di controllo) e di incarico affidato. Dai primi anni del Duemila i consulenti esterni della Regione Emilia-Romagna sono stati circa il triplo di quelli a cui si è affidata la Regione Lombardia e molto più ampio appare lo spettro delle problematiche messe in campo: non solo legali o tecniche, ma amministrativo-gestionali, finanziarie, di pianificazione e programmazione, sociali, sanitarie, di razionalizzazione e maggiore efficienza dei servizi erogati.
I consulenti legali delle regioni, oltre a svolgere l’attività di consulenza specialistica, esercitano il patrocinio in sede giudiziaria. Nel 2012 la Regione Lombardia ha conferito quattro incarichi di patrocinio legale (davanti al Consiglio di Stato e alla Corte costituzionale) valendosi dell’assistenza di tre avvocati del foro di Roma, specializzati in diritto costituzionale, diritto regionale e diritto amministrativo.
Oltre che di mirate e specialistiche consulenze, le istituzioni regionali hanno avvertito la necessità di stabilizzare il rapporto con i propri consulenti esterni esaltandone le qualità tecniche. La giunta regionale della Lombardia, per es., ha istituito comitati tecnico-scientifici con funzioni consultive per le materie che concorrono a definire gli ambiti di intervento e di competenza degli assessorati e delle direzioni di cui si compone la struttura organizzativa regionale, formati da liberi professionisti e docenti universitari di grande esperienza e prestigio. Dei sette esperti chiamati a far parte del Comitato tecnico-scientifico legislativo, ossia l’organo che supporta l’esecutivo regionale nella elaborazione delle leggi regionali e nel recepimento delle leggi statali e sovranazionali, cinque sono avvocati, specializzati in un preciso ramo del diritto (costituzionale, amministrativo, tributario) e titolari di importanti studi legali, uno è docente universitario (insegna diritto commerciale all’Università statale di Milano). La docenza – oltre alla specializzazione – rappresenta, del resto, il trait d’union che unisce i componenti del Comitato tecnico-scientifico legislativo, poiché anche i liberi professionisti sono professori universitari.
Dinamiche simili relative ai percorsi formativi compiuti e al curriculum professionale sono presenti tra i componenti del Supporto tecnico-giuridico alla Giunta istituito dall’esecutivo regionale dell’Emilia-Romagna per rispondere alla crescita della domanda di pareri e di responsi legali. Questo organo si compone di sette esperti giuridici che alla docenza universitaria affiancano, a eccezione di uno, l’esercizio libero professionale.
Il binomio libera professione/docenza accademica – una costante di lungo periodo per i professionisti del diritto – diventa meno scontato quando si esamina il profilo degli esperti che compongono altri organismi di consulenza. E ciò appare vero soprattutto con riguardo ai professionisti tecnici (ingegneri e architetti) e a quelli economico-contabili: dei 44 esperti che la Direzione generale ambiente della Regione Emilia-Romagna ha nominato come propri consulenti solo due sono anche docenti universitari.
Altri comitati tecnico-scientifici raggruppano, poi, una maggiore pluralità di profili professionali derivante dalla necessità da parte dell’istituzione regionale di affrontare e dare risposta a bisogni che richiedono un più ampio spettro di competenze qualificate. Il Comitato tecnico-scientifico per la trasparenza degli appalti e la sicurezza dei cantieri, istituito dalla Giunta regionale lombarda nell’ultima legislatura allo scopo di vigilare sulla regolarità dei contratti di appalto e sulle modalità di erogazione dei finanziamenti regionali, si compone di cinque esperti (nominati dalla Giunta regionale e dalla minoranza): due manager pubblici, un ingegnere, un avvocato e un magistrato; del Comitato tecnico consultivo fanno parte, tra gli altri, due avvocati liberi professionisti e un economista docente dell’Università Bocconi.
L’attività di consulenza specialistica e, limitatamente agli avvocati, il patrocinio legale davanti agli organi giudiziari, non esauriscono tuttavia il rapporto che lega i professionisti e le istituzioni regionali, dal momento che i primi vengono chiamati dalle regioni a rappresentarne gli interessi all’interno delle società da queste controllate o partecipate. Si tratta, è bene ricordarlo, non di una caratteristica specifica delle regioni, ma di una prassi che esse – e lo stesso vale per gli enti locali – hanno mutuato dal mondo dell’economia: tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, quando l’Italia entrò nel processo di industrializzazione, le banche e le imprese cominciarono ad avvalersi della consulenza professionale di esperti (a quei tempi soprattutto avvocati e procuratori), dando avvio a un processo di specializzazione dei professionisti, i quali adeguarono le proprie competenze alle esigenze nuove e molteplici delle aziende, e alla tendenza a instaurare con un gruppo ristretto di consulenti una salda e durevole relazione professionale che si esplicitava, tra le altre, nella nomina nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società controllate. Oggi, in maniera molto più massiccia rispetto al passato, i professionisti siedono nelle strutture di vertice delle imprese italiane dove dialogano alla pari – perché in possesso delle stesse competenze tecniche – con i manager esecutivi.
I meccanismi di cooptazione degli attori nelle strutture di governance non sono comunque semplicemente determinati da comportamenti personali dei soggetti che hanno il potere di scelta, ma su di essi un’influenza rilevante è esercitata dall’esterno, ossia dal contesto politico, economico, culturale, socioistituzionale. E se ciò è vero per le imprese, ancor di più lo è per gli esecutivi regionali che sono luoghi di rappresentanza degli interessi politici. Delle 147 nomine effettuate dal presidente e dalla Giunta regionale lombarda nel 2011 negli organi di governo (Consiglio di amministrazione, Consiglio di gestione) di società partecipate, il numero di professionisti – così come dei docenti universitari – è nettamente inferiore a quello dei politici di professione (si tratta spesso di soggetti che ricoprono o hanno ricoperto incarichi di governo a livello locale e/o nazionale). Per di più anche nei meccanismi che sono stati alla base della scelta da parte della regione di professionisti ed esperti, l’appartenenza politica – un partito o una corrente – non risulta mai irrilevante. E non si tratta certo di una prassi eminentemente lombarda. Tra l’inizio del 2011 e la metà dell’anno successivo la Regione Emilia-Romagna ha proceduto a 42 nuove nomine tra consiglieri di amministrazione, sindaci e revisori (la differenza che si riscontra tra Emilia-Romagna e Lombardia nel numero delle nomine effettuate si deve al fatto che la prima ha molte meno partecipazioni, soprattutto in campo sanitario dove l’unica società partecipata è Cup 2000, né dispone di una cassaforte finanziaria come è invece Finlombarda S.p.A.). Ebbene, nella scelta dei componenti degli organi di governo l’influenza esercitata dai partiti è e rimane evidente, pur non mancando le eccezioni rappresentate da professionisti nominati più per la competenza tecnica di cui sono portatori che per l’appartenenza politica.
Il criterio della competenza professionale sembra invece prevalere nella composizione degli organi di controllo e vigilanza (collegio sindacale, Consiglio di sorveglianza). Dei 21 sindaci e controllori nominati dalla Regione Lombardia nel 2011 all’interno degli organi di controllo di fondazioni, agenzie regionali e camere di commercio, tutti sono iscritti all’albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili e solo quattro contano un filo diretto con la politica. Che il campo della vigilanza sia quello più rispondente al binomio competenza ed esperienza acquisita/incarico ricoperto lo dimostra anche il caso dell’Emilia-Romagna, dove nel periodo 2011-12 l’esecutivo regionale ha nominato 19 sindaci e revisori. Di questi, 15 sono dottori commercialisti, a conferma della supremazia dei professionisti economico-contabili nei collegi sindacali, e due sono avvocati – specchio, questo, di una evoluzione generale che vede i professionisti legali sempre più numerosi in un campo di competenza esclusiva dei professionisti economico-contabili – ma nessuno vanta un curriculum o esperienze politiche.
Sulle istituzioni regionali l’impatto derivante dall’aumento delle funzioni e degli ambiti di intervento è stato tuttavia duplice. Da un lato, è emersa una nuova e crescente domanda di consulenza qualificata che ha portato le istituzioni regionali a ricorrere al supporto di professionisti esterni, instaurando con un più ristretto gruppo di essi un rapporto privilegiato e/o continuativo. Dall’altro, il criterio della maggiore efficienza ha favorito l’internalizzazione della consulenza esperta e il successivo ampliamento dei servizi a questa preposti, come dimostra l’elevato numero di professionisti che occupa posti dirigenziali o di responsabilità all’interno della struttura organizzativa delle regioni, ma anche un profondo mutamento nella qualità delle mansioni compiute. La valorizzazione delle professionalità interne, ossia l’individuazione dei servizi (tecnici, amministrativo-contabili, legali) in termini dinamici anziché statici, ha, in sostanza, fatto sì che i professionisti che vi operano e che sono dotati di saperi professionali specialistici, siano chiamati a esprimere giudizi di valore partecipando al decision making process.
Questa trasformazione, che vede i professionisti – esterni e stipendiati – proiettati al centro delle dinamiche delle istituzioni regionali e assumere un ruolo di attiva compartecipazione alla loro governance, è un processo generale che investe tutte le realtà regionali. Resta tuttavia da capire se esistano, pur nella omogeneità della tendenza in atto, comportamenti diversi da parte delle singole regioni, prodotti da specifici assetti e umori della società civile. Per cercare di rispondere a questo interrogativo è stata presa in esame la composizione della dirigenza di due regioni del Nord e Centro-Nord, Lombardia ed Emilia-Romagna, e di una regione del Sud, la Puglia, nel 2012.
L’analisi ha evidenziato che in tutti i casi indagati i quadri dirigenziali hanno conseguito la laurea (quasi inesistente il numero di coloro che hanno un più basso livello di istruzione) e che i bacini da cui le regioni attingono per formare la propria dirigenza sono quello economico, giuridico e ingegneristico, seguiti dal campo delle scienze politiche. All’interno di questo gruppo, circa la metà dei dirigenti è iscritta a un albo professionale. I non professionisti sono infatti 110 (pari al 52% del totale) nella Regione Lombardia, 78 in Emilia-Romagna (53%) e 74 nella Regione Puglia (45% del totale dei dirigenti). I profili dei 258 professionisti attestano la netta supremazia delle discipline tecniche (tab. 3). Oltre il 60% possiede una laurea di questo tipo: gli ingegneri e gli architetti costituiscono il 33,3% del totale, gli agronomi sono il 18,6%, i geologi l’8,9%. L’affermarsi delle specializzazioni tecniche lascia in secondo piano gli avvocati che sono il 17,8%, i medici e i veterinari (sono il 6,6% del totale dei dirigenti iscritti a un albo professionale a cui vanno aggiunti 7 tra biologi e chimici), i professionisti economico-contabili e i giornalisti che non arrivano al 6% del totale dei dirigenti regionali iscritti a un albo professionale.
Il prevalere delle specializzazioni tecnico-ingegneristiche – tra i dirigenti professionisti quelli dell’area tecnica costituiscono circa il 70% in Lombardia e in Emilia-Romagna mentre in Puglia superano sia pure di poco il 50% – è strettamente connesso al processo di devoluzione dallo Stato alle regioni delle funzioni di governo, direzione e programmazione del territorio, di cui è prova l’inglobamento e poi la soppressione degli enti statali e parastatali preposti a tale scopo. A tale proposito possono essere ricordate come esempio le vicende dell’Ente per la colonizzazione del Delta padano. Istituito dallo Stato nel febbraio 1951 e sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, l’ente operava nelle province di Venezia, Rovigo, Ferrara e Ravenna e svolgeva funzioni volte all’espropriazione delle distese latifondistiche, a interventi di bonifica e trasformazione fondiaria, all’assegnazione dei terreni ai contadini e ad altre opere strutturali per assicurare la viabilità e l’irrigazione del territorio. Nel 1966 assunse la denominazione di Ente Delta padano-Ente di sviluppo. Con l’istituzione delle regioni e l’attribuzione a esse delle competenze in materia di agricoltura, l’Ente Delta padano fu sciolto nel 1976 e ricostituito con l. reg. 13 maggio 1977 nr. 19 come Ente regionale di sviluppo agricolo (ERSA) per l’Emilia-Romagna. Nel 1992 venne posto in amministrazione straordinaria e definitivamente soppresso con l. reg. 1° apr. 1993 nr. 18, quando le sue mansioni furono affidate in «gestione speciale» agli uffici dell’Assessorato regionale all’agricoltura.
Se la laurea in discipline dell’area tecnico-scientifica (da ingegneria ad agraria a geologia) è di gran lunga la più frequente tra i dirigenti regionali iscritti all’albo professionale, la Regione Puglia diverge per quanto attiene gli avvocati e i dottori commercialisti perchè la quota dei dirigenti professionisti che hanno conseguito una laurea di questo tipo è nettamente più alta. Tra i dirigenti regionali della Puglia i professionisti legali rappresentano il 30,7% del totale contro l’8% della Lombardia e il 16,6% dell’Emilia-Romagna; i dottori commercialisti sono undici in Puglia, tre in Lombardia e solo uno in Emilia-Romagna. Va anche detto che per i professionisti economico-contabili che ricoprono incarichi dirigenziali esiste una perfetta sovrapposizione tra formazione accademica conseguita e mansioni effettivamente svolte in Puglia, dove tutti i dottori commercialisti indagati ricoprono incarichi direttivi all’interno delle strutture e dei servizi bilancio e tributi, e in Emilia-Romagna dove l’unico dirigente iscritto all’albo professionale di dottore commercialista ed esperto contabile ricopre la funzione di cassiere economo centrale, mentre in Lombardia, dei tre dirigenti professionisti due si caratterizzano per un più ampio spettro di competenze svolte anche al di fuori dell’ambito economico-finanziario.
Il più accentuato ricorso e utilizzo di competenze legali ed economico-contabili da parte della Regione Puglia si deve a una precisa scelta compiuta dagli esecutivi regionali quando si è delineata l’architettura strutturale e organizzativa interna, ossia quella di potenziare i servizi amministrativi di controllo. Rispetto alle Regioni Lombardia ed Emilia-Romagna, infatti, in Puglia il numero delle strutture dedicate al governo e pianificazione del territorio è inferiore. D’altro canto, se la Regione Puglia si caratterizza per una maggiore presenza tra i suoi dirigenti di avvocati e di dottori commercialisti, è in Lombardia che il numero di medici e di veterinari che ricoprono incarichi dirigenziali nelle direzioni generali della sanità e nelle agenzie per la salute assume proporzioni rilevanti: sono dodici contro i tre della Puglia e i due dirigenti dell’Emilia-Romagna.
In alcuni settori, come quello della tutela dell’ambiente, la necessità di integrare le professionalità provenienti dal mondo della sanità con altre più legate alle competenze naturalistico-territoriali (ingegneri, geologi, agronomi) è apparsa al legislatore più spiccata e urgente. È il caso delle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente (ARPA), nate tra la metà e la fine degli anni Novanta del 20° sec. sulla scia del referendum del 1993 che aveva sancito «l’autorità» dell’ambiente. Le ARPA svolgono diverse attività e funzioni, dal monitoraggio delle diverse componenti ambientali, al controllo e vigilanza del territorio e delle attività antropiche, alle attività di supporto per le regioni, province e comuni nella valutazione dell’impatto ambientale di piani e progetti, alla realizzazione e gestione del Sistema informativo regionale sull’ambiente; si compongono esclusivamente di funzionari in possesso di una laurea dell’area sanitaria o di quella tecnico-scientifica (medici, chimici, biologi, ingegneri, geologi, fisici). Ciò non vale, invece, per i direttori generali o comunque per coloro che sono al vertice delle ARPA, dove il tipo di laurea conseguita spazia dall’indirizzo economico, al giuridico, al medico, al tecnico-scientifico.
La ridefinizione del ruolo dei professionisti che compongono gli staff interni della struttura delle regioni appare comunque in divenire ed è legata all’affermarsi di una nuova organizzazione del lavoro di consulenza qualificata, caratterizzata non più da una divisione funzionale tra consulenti esterni e professionisti stipendiati, ma da una stretta affinità, poiché entrambi concorrono alla realizzazione delle strategie e degli obiettivi delle regioni. Ne sono esempio le autorità di bacino. Istituite nel quadro della l. 18 maggio 1989 nr. 183, intitolata Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, sono organismi misti, costituiti cioè da Stato e regioni. Le autorità di bacino (regionale, interregionale, nazionale) operano sul bacino idrografico per la risoluzione di problemi di competenze e per una razionale e unitaria pianificazione e programmazione fisico-ambientale, sociale ed economica. La loro struttura organizzativa si compone al vertice di un segretario generale; di un comitato istituzionale che è l’organo più spiccatamente politico (ne fanno parte rappresentanti del Ministero dell’Ambiente, delle regioni e delle province coinvolte) ed è dotato di funzioni e poteri organizzativi; di un comitato tecnico che è l’organo di consulenza; di una segreteria tecnico-organizzativa. Il segretario generale è sempre un esperto del settore. Guida per es. l’Autorità del bacino regionale romagnolo il biologo Giuseppe Bortone direttore generale Ambiente, difesa del suolo e della costa della Regione Emilia-Romagna, mentre ingegneri sono il segretario generale dell’Autorità di bacino nazionale del fiume Adige, Roberto Casarin, e quello dell’Autorità di bacino del fiume Tevere, Giorgio Cesari. All’interno del comitato tecnico i funzionari e gli esperti designati dalle amministrazioni statali e regionali rappresentate, sono portatori di competenze specialistiche che spaziano dall’ingegneria all’ambiente, alla tutela del suolo, e cooperano fornendo indirizzo e supporto tecnico-scientifico alla elaborazione dei piani di bacino e delle attività a essi connessi.
La tendenza delle istituzioni regionali a considerare i professionisti e i manager come gli interlocutori più qualificati nell’elaborare e influenzare la qualità e l’efficacia della governance, contribuisce ad accrescere il ruolo e il prestigio sociale dei gruppi professionali, oltre che ad ampliare il mercato dei servizi professionali e gli spazi occupazionali. E non ci si riferisce soltanto al campo delle consulenze che gli organi regionali richiedono e che ovviamente investono solo una parte, più o meno piccola, di liberi professionisti intellettuali. Al pari dello Stato, anche la Regione è divenuta un agente di creazione del mercato delle libere professioni con l’introduzione di normative che rendono indispensabile per i cittadini e le imprese il ricorso a un professionista qualificato, mediatore, interprete e amministratore dei rapporti che questi soggetti hanno con le istituzioni e/o il mercato. Si pensi alla certificazione energetica degli edifici, introdotta dalle regioni in attuazione della direttiva 2002/91/CE sul rendimento energetico nell’edilizia e della direttiva 2006/32/CE concernente l’efficienza degli usi finali dell’energia.
La normativa regionale dell’Emilia-Romagna (prevista dal Piano energetico regionale e dalla delibera dell’assemblea legislativa 4 marzo 2008 nr. 156 Atto di indirizzo e coordinamento sui requisiti di rendimento energetico e sulle procedure di certificazione degli edifici) ha introdotto dal 1° luglio 2008 l’obbligatorietà della certificazione energetica degli edifici di nuova costruzione o oggetto di ristrutturazione integrale e della certificazione degli immobili oggetto di compravendita. Contemporaneamente ha preso avvio il processo di accreditamento degli operatori, singoli tecnici o società, interessati a svolgere questa attività: liberi professionisti abilitati alla progettazione di edifici e impianti e iscritti al relativo albo professionale, ma anche dipendenti pubblici o privati che siano in possesso della laurea in architettura, ingegneria, scienze e tecnologie agrarie, forestali e ambientali, o del diploma di geometra, perito industriale, perito agrario o agrotecnico, limitatamente al proprio specifico ambito di competenza.
Che il campo della certificazione energetica non costituisca un’attività marginale, ma un settore di un certo peso nelle dinamiche legate al reddito e alla capacità dei professionisti di inserirsi in nuovi mercati professionali, lo dimostra il ricorso presentato nel giugno dello scorso anno dalla Federazione dei collegi dei periti industriali del Veneto contro la decisione dell’ufficio della regione preposto all’individuazione dei requisiti dei professionisti abilitati alla redazione e sottoscrizione degli attestati di certificazione energetica di edifici situati nel territorio della Regione del Veneto di escludere dall’elenco dei soggetti abilitati i periti industriali iscritti all’albo professionale.
Se le regioni generano nuovi spazi operativi e contribuiscono ad ampliare quelli esistenti, i liberi professionisti a loro volta sono attori del sistema economico e partecipano della e alla vitalità socioeconomica del territorio portando innovazione e producendo ricchezza. Nel 2008 il mondo delle professioni intellettuali – protette e non regolamentate – è arrivato a produrre, stando ai dati forniti dal Centro ricerche economiche, sociologiche e di mercato per l’edilizia e il territorio (CRESME), il 15,1% del Prodotto interno lordo (PIL) nazionale con un volume d’affari complessivo di 196 miliardi di euro; nel 2011 gli iscritti agli ordini professionali dell’Emilia-Romagna (circa 280.000) hanno avuto un’incidenza del 5,3% sul PIL regionale.
Analizzando le statistiche relative ai redditi dichiarati dai professionisti nel 2008 fornite dalla varie casse previdenziali, in prima posizione si trovano i notai, che guadagnano 90.243 euro, anche se il loro reddito è diminuito del 10% rispetto all’anno precedente; al secondo posto si collocano i professionisti economico-contabili: i dottori commercialisti con un reddito medio annuo di 64.479 euro e un volume d’affari di 113.119 euro, i ragionieri commercialisti con un reddito medio annuo di 58.536 euro; seguono gli avvocati che dichiarano un reddito medio annuo di 50.351 euro; chiudono la classifica i veterinari con un reddito medio annuo di 15.062 euro.
Il dato nazionale relativo ai redditi dei professionisti nasconde però al proprio interno delle profonde aporie legate all’età – i professionisti di età compresa tra i 24 e i 30 anni hanno un reddito molto inferiore rispetto a quello dei loro colleghi di età superiore (per es. i legali con meno di 45 anni, pur rappresentando il 69% degli iscritti alla Cassa forense, guadagnano il 40% del totale) –, al genere e alla collocazione geografica. Le donne avvocato, nonostante siano cresciute dal 7% al 40% negli ultimi trenta anni, percepiscono un reddito inferiore al 30-50% rispetto a quello dei loro colleghi uomini durante l’intero arco della loro vita professionale, nel 2008 il reddito medio degli avvocati maschi è stato di 66.025 euro contro i 28.117 delle colleghe; le commercialiste del Veneto guadagnano meno della metà dei loro colleghi uomini; in Emilia-Romagna, solo per fare un altro esempio, i redditi medi delle professioniste sono inferiori a quelli dei colleghi maschi del 57% tra gli avvocati, del 50% tra i commercialisti, del 42% tra gli ingegneri e i veterinari, del 45% tra gli architetti, del 40% tra i geologi e gli agronomi. Dato poi per scontato il dualismo geografico che permane per tutte le professioni – il reddito medio dichiarato dagli avvocati iscritti alla Cassa forense nel 2010 è stato di 59.863 euro al Nord, di 51.609 euro al Centro e di 31.901 euro al Sud – si deve registrare una elevata variabilità territoriale. Ancora tra gli avvocati, la regione che nel 2010 ha dichiarato di più è stato il Trentino-Alto Adige con 78.808 euro, quella che ha dichiarato di meno la Calabria con 24.237 euro.
Del tutto analoga appare la situazione dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Un’indagine condotta nel 2011 sulle quote di reddito e di volume d’affari relative all’anno precedente (tab. 4), ha evidenziato che per i professionisti economico-contabili non solo il divario tra Nord e Sud appare particolarmente pronunciato ed evidente – si va dai 78.010 euro di reddito del Nord ai 29.901 euro del Sud (il volume d’affari è di 145.697 euro al Nord contro 51.766 euro al Sud) – ma tale divario si amplia ancora di più sul piano regionale, raggiungendo un rapporto di 5 a 1, con il Trentino-Alto Adige al più alto livello di reddito (102.599 euro, quasi il doppio della media nazionale), seguito da Lombardia (90.784 euro), Valle d’Aosta (76.559 euro), e la Calabria al livello più basso (23.572 euro), preceduta da altre due regioni del Sud, la Campania, con 28.893 euro di reddito medio dichiarato, e la Puglia (29.328 euro).
L’asimmetria territoriale tra le regioni del Nord e quelle del Sud in termini di reddito e di volume d’affari che si riscontra, va ribadito, per tutte le categorie di professionisti, si rivela notevolmente più marcata quando si sale al vertice dell’offerta di servizi professionali, quello che si può definire la componente imprenditoriale di professioni ancora caratterizzate da una grande frammentazione nelle modalità di esercizio, nel raggio d’azione, nelle forme organizzative. Uno sguardo alla distribuzione geografica dei primi 50 studi di architettura per fatturato nel 2010 rivela come le regioni del Mezzogiorno siano davvero poco rappresentate tra le grandi firme della progettazione (fig. 1). Tra le prime 50 società di architettura per fatturato – nel 2010 hanno fatturato 146,7 milioni di euro – compaiono soltanto due studi con base a sud di Roma. Per il resto il club è per la metà presidiato da realtà milanesi (26 società su 50) che fatturano la metà abbondante della cifra d’affari totale. Otto studi hanno base a Roma, mentre tutti gli altri svolgono l’attività professionale nelle regioni del Centro-Nord (Toscana, Liguria, Piemonte) e del Nord-Est (Emilia-Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia).
Se tra le archistar il primato spetta alle regioni del Nord, fra le migliori offerte di ingegneria, rappresentate dalle società che nel 2009 hanno superato la soglia dei 10 milioni di fatturato, sono presenti anche le regioni del Sud, dove l’industria delle costruzioni ha più peso che al Nord. È però nel mercato dei servizi legali che il gotha costituito dalla consulenza d’affari – i primi 20 studi legali, italiani e internazionali, hanno chiuso il 2011 con un fatturato di 128,7 milioni di euro – appare quanto a collocazione geografica il più concentrato, muovendosi quasi esclusivamente sull’asse Milano-Roma.
Le libere professioni intellettuali sono tra le più esposte alle dinamiche sociali e ai cambiamenti istituzionali, e le più influenzate dall’ambiente economico in cui operano, tanto che la recessione coinvolge e danneggia i professionisti di ogni categoria professionale e si fa sentire a tutti i livelli della professione (nel 2010 i ricavi delle prime 50 società di architettura hanno conosciuto un calo del 5,6% rispetto all’anno precedente) pur colpendo con maggiore durezza i mercati più deboli e i professionisti che vi operano. Tra i dottori commercialisti ed esperti contabili, le regioni che nel 2010 presentano i cali più vistosi di reddito e di fatturato sono il Molise (−5,9%) e la Basilicata (−2,8%). Dal 1999 al 2008 il reddito dei legali è cresciuto di solo lo 0,3% in un mercato che rimane praticamente invariato, tanto che nel triennio 2007-10 il reddito medio degli avvocati iscritti alla Cassa forense è sceso di quasi il 7%. Ancora più marcata è la recessione che colpisce i notai il cui reddito è diminuito di un terzo nell’arco degli ultimi tre anni.
A Milano, che pure rimane la ‘regina’ del foro con un monte redditi complessivo di 90.368 euro medie annue nel 2011, si è registrato un −8,3% nell’ultimo triennio. In flessione anche le altre metropoli: Roma con 68.160 euro (−6,2% tra il 2007 e il 2010); Napoli con 42.822 euro (−12% registrato nello stesso lasso di tempo) e Bari con 32.979 euro (−8,1% nell’ultimo triennio). Per i professionisti tecnici il blocco dell’edilizia privata e successivamente la scomparsa dell’edilizia pubblica, così come il ritardo nei pagamenti da parte dei committenti hanno inciso in negativo su fatturato e reddito: tra il 2007 e il 2008 il reddito medio di ingegneri e architetti ha subito un calo dell’1,5%, scendendo da 33.037 euro a 32.552 euro nel 2008 a fronte di un fatturato che è rimasto pressoché invariato (44.240 euro nel 2007 e 44.122 euro l’anno successivo); tra i geometri, invece, sono soprattutto i professionisti più giovani che risentono della crisi, mentre i colleghi affermati mantengono un reddito stabile (nel complesso, tra il 2007 e il 2008 il reddito medio dei geometri è sceso di solo lo 0,80% passando da 22.695 euro a 22.506 alla fine del periodo considerato, nonostante il fatturato abbia conosciuto un trend inverso, essendo cresciuto da 34.701 euro a 35.055 euro nel 2008).
Nel valutare il rapporto tra professioni e ricchezza dichiarata occorre comunque tenere presente che su di esso pesa ed è diffuso il fenomeno dell’evasione fiscale. L’indagine realizzata da EURES (Ricerche Economiche e Sociali) nel 2012 sui comportamenti fiscali di 52 categorie di lavoratori (la metodologia adottata si basa su un campione casuale di 1.225 italiani di 19 regioni, 94 province e 367 comuni) attribuisce, tra i liberi professionisti, il più alto indice di illegalità fiscale, cioè di omesso rilascio della fattura o della ricevuta, agli avvocati, seguiti dai geometri, gli psicologi e gli psichiatri, gli architetti, i dietologi, i medici specialisti e i dentisti. Più virtuoso appare il comportamento fiscale di veterinari, dottori commercialisti e notai. L’indagine conferma poi l’immagine di un mondo delle professioni dove il fattore territoriale continua a influire in maniera significativa sulla correttezza dei comportamenti fiscali seguiti. Tra le regioni al Sud sono più frequenti i comportamenti fiscalmente illeciti da parte dei professionisti, ricalcando la classifica sull’indice di rischio evasione elaborato dal Centro studi sintesi che vede nella parte alta della graduatoria le regioni del Nord (guidate da Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Piemonte, insieme al Lazio) e in fondo il Mezzogiorno con l’incoerenza tra redditi e consumi che si fa particolarmente marcata in Campania, Sicilia, Sardegna e Calabria.
Rispetto al recente passato – come dimostra il confronto con le indagini realizzate da EURES nel 2004 e nel 2007 – i liberi professionisti mostrano comportamenti fiscali più virtuosi, pur rilevando il trend opposto di alcune professioni, specie dell’ambito sanitario, per le quali il tasso di illegalità è in aumento, ma l’evasione fiscale continua a restare elevata. Secondo le stime EURES il sommerso prodotto annualmente dai liberi professionisti è di 4,5 miliardi di euro e di questi, l’evasione di imposte dirette è di 1,9 miliardi di euro. A registrare i valori più elevati sono i dentisti con 1,5 miliardi di euro di compensi non dichiarati (pari a 639 milioni di euro evasi), seguiti dagli avvocati con 911 milioni di euro non dichiarati (387 milioni di euro evasi) e dai notai con 492 milioni di euro di compensi non dichiarati (209 milioni di euro evasi). L’entità di queste cifre provoca, come è ovvio, ricadute negative importanti sull’intera economia, di ostacolo allo sviluppo del Paese e, come tale, è percepito dall’opinione pubblica traducendosi in minori risorse per la spesa pubblica e in una maggiore pressione fiscale.
Il tema del ruolo complessivo del libero professionismo sulla scena politica nazionale e locale – aspetto della più generale questione dei caratteri della rappresentanza politica – è da alcuni decenni presente nell’indagine storiografica nazionale. Sono invece mancati, se si escludono alcune ricerche sulla prima legislatura finalizzate all’individuazione di linee comuni o, al contrario, di discontinuità, tra la composizione del personale politico regionale e quello nazionale, tentativi di analisi del ruolo politico dei liberi professionisti nelle strutture di governo delle regioni – i consigli e le giunte – e sull’incidenza storica del background formativo e socioprofessionale del personale regionale. Gli studi sulla classe politica regionale hanno attribuito all’esercizio professionale un peso del tutto marginale tra i criteri che concorrono nella composizione delle istituzioni della rappresentanza politica regionale.
La ricerca che è stata qui compiuta ha dunque i caratteri di una prima ricognizione a largo spettro sull’argomento e, come tale, si limita a fornire dati e spunti di riflessione che devono ritenersi semplicemente orientativi. L’indagine sul campo ha preso in considerazione quattro regioni – Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio e Puglia – distinguendo attraverso le legislature (dalla I alla IX) la distribuzione di presidenti, assessori e consiglieri per professione e appartenenza politica. Grazie alle informazioni raccolte è stato possibile ricostruire la dimensione quantitativa del fenomeno, sintetizzata nelle tabelle e figure qui riportate. La prospettiva numerica non è stata tuttavia accompagnata da una analisi qualitativa dei comportamenti politici, costituiti dagli interventi fatti dagli esponenti delle categorie di liberi professionisti nella assemblea regionale in occasione delle discussioni generali e delle dichiarazioni di voto. Le fonti utilizzate per ricostruire la composizione dei consigli regionali dal punto di vista dell’appartenenza professionale sono la Guida delle regioni. Annuario di informazioni politiche, amministrative, economiche, culturali, turistiche (1971-95) che per il periodo compreso tra la I e la VI legislatura rappresenta la raccolta più completa per ricostruire i dati biografici e politici del personale politico regionale, e l’Annuario delle regioni: i presidenti, gli assessori, i consiglieri regionali in Italia (2006) che contiene la scheda biografica di tutti i consiglieri, presidenti e assessori regionali dell’VIII legislatura. Per la VII e la IX legislatura, invece, sono state necessarie verifiche incrociate tra le informazioni presenti nei portali istituzionali delle regioni e quelle contenute nei siti personali dei politici. La raccolta dei dati qui presentati è stata tuttavia condizionata dall’impossibilità di reperire informazioni sulla composizione del Consiglio e della giunta regionali pugliesi della VII legislatura e su quella della giunta regionale della Lombardia anch’essa della VII legislatura, che perciò sono escluse da tale analisi.
La scelta delle regioni indagate rappresenta il tentativo di dare una visione d’insieme del sistema politico regionale. Se la Lombardia e l’Emilia-Romagna sono infatti due realtà a ‘sistema predominante’, la Puglia e il Lazio presentano una maggiore propensione all’alternanza e alla frammentazione politica (http://elezionistorico.interno.it). Nelle prime elezioni regionali la Democrazia cristiana (DC) lombarda sfiorò la maggioranza assoluta dei consensi con il 40%, confermò questa supremazia con una coalizione tra DC, Partito socialista italiano (PSI), Partito socialista democratico italiano (PSDI) e Partito liberale italiano (PLI) nelle successive consultazioni elettorali fino al 1992 quando il vortice di tangentopoli provocò sì il tracollo della classe politica dirigente (si diede allora vita a una nuova giunta regionale minoritaria guidata dai Democratici di sinistra che governò fino al 1995), ma non intaccò le scelte dell’elettorato che nelle consultazioni per la VI legislatura consegnò la guida della regione a una coalizione di centro-destra, poi riconfermata. La Regione Emilia-Romagna si caratterizza per una fisionomia politica altrettanto netta, ossia la lunga e ininterrotta egemonia dei partiti di sinistra, prima il PCI con una quota di consenso oscillante tra il 44% e il 48,3%, e poi la coalizione di centro-sinistra (http://lanostrastoria.regione.emilia-romagna.it). Nella Regione Lazio, sei tornate elettorali regionali sono state vinte da partiti di centro o di centro-destra, e tre (1975, 1995, 2005) da coalizioni di centro-sinistra. La storia politica della Regione Puglia si può invece suddividere in tre fasi: la prima (dalla I alla IV legislatura) è dominata dalla coalizione DC-PSI alla quale succede nella V, VI e VII legislatura uno schieramento di centro-destra, guidato, in termini percentuali di consenso, prima da Alleanza Nazionale (AN) e poi da Forza Italia; nell’VIII legislatura il governo della regione passa al centro-sinistra, che si conferma anche nella successiva tornata elettorale regionale.
Un’avvertenza infine deve essere fatta per il numero dei consiglieri che varia da regione a regione e nelle legislature secondo quanto stabilito dai singoli statuti regionali (tra le regioni considerate solamente in Emilia-Romagna i consiglieri sono 50 in tutte le legislature).
Le percentuali che si riferiscono ai professionisti mostrano con grande chiarezza come questa categoria abbia sin dall’inizio rappresentato – assieme al lavoro dipendente nella sua componente impiegatizia e poi dirigenziale – l’ossatura della classe politica regionale, pur rivelando con il passare del tempo un progressivo rimaneggiamento della loro presenza all’interno del potere regionale (fig. 2). Le professioni liberali raggiungono infatti il picco nella prima legislatura (sfiorano il 40%) quando la Regione Lombardia è impegnata contemporaneamente a fondarsi sul piano interno (approvazione dello statuto, prima organizzazione degli uffici, coordinamento e intervento nell’ambito delle prime competenze delegate con i decreti del 1972) e sul piano dei rapporti esterni sia nei confronti dell’amministrazione dello Stato sia rispetto alla società nazionale e locale; per poi conoscere, già dalla seconda legislatura – dominata inizialmente da una accesa conflittualità tra Stato e regioni per il completamento dei trasferimenti e dell’ordinamento nazionale e poi dall’impegno della regione, dei comuni, delle province e degli altri enti locali per l’acquisizione delle necessarie capacità di coordinamento, programmazione e gestione di specifiche politiche e interventi – un trend discendente, che continua nelle legislature successive, pur non calando mai al di sotto del 20% del totale degli eletti.
Un quadro in larga parte speculare è quello che emerge dalla composizione dell’esecutivo, la giunta regionale, dove professionisti e lavoro dipendente si affermano come categorie di riferimento almeno fino all’VIII legislatura, quando il primato passa ai politici di professione (tab. 5). La giunta nella quale i professionisti liberali sono il gruppo più numeroso è senza dubbio la prima. Su nove componenti, sei sono gli assessori che provengono dalla libera professione: un veterinario all’assessorato all’agricoltura, un commercialista al bilancio, un medico all’assistenza sociale, un architetto ai trasporti, un ingegnere all’urbanistica. Al vertice del primo governo regionale della Lombardia si nota quindi la presenza di assessori che hanno alle spalle percorsi formativi e professionali conformi alle mansioni di governo che sono chiamati a svolgere. Questa tendenza si conferma anche nelle successive due legislature, per poi scomparire specie a partire dalla VI legislatura, la prima del lungo governatorato Roberto Formigoni. Da sottolineare anche come gli equilibri di forza tra politici di professione, professionisti e lavoro dipendente tendano a riallinearsi nell’ultima legislatura esaminata.
Estremamente significativa appare la distribuzione delle singole professioni nel Consiglio regionale (tab. 6) che vede i professionisti tecnici – ingegneri e architetti, ma anche geometri – proporsi come i soggetti privilegiati dell’agire politico nelle prime due legislature e poi nella V e VI legislatura; gli avvocati restano la categoria percentualmente più consistente nei consigli regionali eletti nel 1980 e nel 1985, nella VII e VIII legislatura fino a quasi scomparire nel 2010 a vantaggio dei professionisti della salute – sensibilmente in crescita dal 1995 – e di quelli tecnici (i primi passano dal 34,8% nel 2005 al 12,5% nel 2010; i secondi sono sette nella VII e VIII legislatura e quattro nell’ultima legislatura considerata; ingegneri, architetti e geometri si mantengono stazionari tra il 16 e 17% nel 2000 e nel 2005 per poi passare al 31,25% nel 2010). Tendono invece progressivamente a scomparire i professionisti economico-contabili, mentre la presenza dei giornalisti è percentualmente consistente solo nella VII legislatura quando, sul totale delle professioni rappresentate, diventano la terza in ordine di incidenza.
Se si passa a considerare l’appartenenza politica dei liberi professionisti eletti in Consiglio regionale si vede come nelle prime cinque legislature sia la DC a mantenere saldamente il primato (i professionisti eletti nelle sue fila sono dodici nella I, undici nella II, nove nella III e IV legislatura, sette nella quinta).
All’interno di questo schieramento politico, è l’avvocatura la più rappresentata (gli avvocati sono cinque nel 1970, tre nel 1975, 1980 e 1990; due nel Consiglio regionale che si insedia dopo la competizione elettorale del 1985); ma gli avvocati, come del resto i commercialisti, sono presenti anche tra gli scranni del Movimento sociale italiano (MSI) dove sono uno nella I e V legislatura, due nella II e III legislatura, e ben quattro nella IV. I commercialisti eletti nelle file del MSI sono uno nella prima tornata elettorale e due nel Consiglio regionale uscito dalle elezioni del 1975 e del 1980; gli appartenenti alla DC sono due nelle prime quattro legislature. Fanno eccezione i giornalisti che nel 1970, 1975, 1980, 1985 vengono eletti nel PCI o nel gruppo socialista. Altro dato che va sottolineato è l’incidenza dei professionisti tecnici che restano un’importante fonte di reclutamento sia per la DC (gli ingegneri, architetti e geometri sono quattro nella I, IV e V legislatura, tre nel 1975 e due nella successiva tornata elettorale) sia per i partiti di sinistra (PCI e PSI), anche se la presenza tra le fila di questi ultimi mostra un andamento più altalenante, passando da quattro nelle prime due legislature, a uno nella legislatura successiva, a due nella IV e V legislatura. Considerazioni diverse vanno riservate ai professionisti sanitari (medici, veterinari, farmacisti) che registrano la punta massima nel 1975 (tre nella DC, uno nel PCI e uno nel PSI), mentre risultano stazionari verso il basso nelle successive legislature (nel 1980 sono due tra le file della DC e due in quelle del PSI, per poi passare a un eletto nel 1985, nella DC, e nel 1990, nel PSI).
Nelle ultime quattro legislature (1995-2010), lo sconquasso provocato dalle inchieste giudiziarie di tangentopoli e la modifica del sistema elettorale regionale, intrapresa con la l. 23 febbr. 1995 nr. 43 e completata con la riforma costituzionale del 1999 che ha introdotto l’elezione diretta del presidente della giunta regionale, la nomina degli assessori da parte di quest’ultimo e la stesura di nuovi statuti regionali, si sono riverberati anche sul profilo politico dei professionisti presenti nel Consiglio regionale, poiché si nota uno spostamento verso le formazioni di centro-destra e la Lega Nord che coinvolge tutte le categorie professionali. Particolare è la situazione della VI legislatura, dove tutti i professionisti presenti in Consiglio regionale sono eletti nelle liste di Forza Italia (sei), di AN (due), della Lega Nord (uno), ma non nelle formazioni politiche di centro-sinistra. Da parte dello schieramento di centro-destra il reclutamento tra le fila degli avvocati, dei professionisti dell’area sanitaria e di quella tecnica, dei giornalisti ha continuato a essere alto anche nelle successive legislature, mentre per i partiti e gli schieramenti di centro-sinistra la quota di avvocati, ingegneri, architetti, geometri, medici, veterinari, farmacisti, commercialisti e giornalisti è rimasta invece sostanzialmente bassa.
La figura 3 mostra come nella Regione Emilia-Romagna il modello di rappresentanza si discosti nettamente da quello lombardo nel senso che nelle prime sette legislature si mantiene alta l’incidenza del lavoro dipendente (nella componente impiegatizia più che dirigenziale) e dei politici di professione, continuando a registrare una presenza di professionisti che oscilla tra il 26% della IV legislatura e il 12% della sesta. Tale tendenza però si inverte nelle due ultime legislature, quando la quota dei consiglieri regionali provenienti dal libero professionismo affianca e poi supera il lavoro dipendente e i politici di professione, diventando nell’ultimo Consiglio regionale esaminato il gruppo più consistente: nel 2010 sono il 34% dei consiglieri contro il 24% rispettivamente dei politici di professione e del lavoro dipendente.
Nella sezione delle libere professioni (tab. 7) emerge la netta supremazia delle professioni legali per tutto l’arco cronologico considerato. Costoro non solo rappresentano il gruppo più numeroso – si va dal 36,7% nella I legislatura al 75% nel Consiglio regionale uscito dalla consultazione elettorale del 6 maggio 1990 –, ma anche, al pari dei giornalisti, quello più costante, essendo presenti nel Consiglio regionale di tutte le legislazioni. Delle altre categorie di professionisti eletti nell’assemblea regionale, i professionisti tecnici non sono presenti nella IV e nella VI legislatura, i sanitari dalla I alla III legislatura e nella V, i commercialisti nella V e nella VII legislatura.
Il trend delle professioni liberali all’interno della giunta, organo del potere esecutivo e ambito decisionale più ristretto del governo regionale, rivela un andamento che si discosta da quello che l’assemblea rappresentativa ha seguito nelle due ultime legislature, dove, come detto, l’ingresso massiccio di professionisti liberali in entrambi gli schieramenti ha contribuito a mutarne la morfologia (tab. 8). In giunta, infatti, preponderante è ancora la presenza dei politici di professione e del lavoro dipendente, mentre quella dei professionisti resta, in tutto l’arco cronologico esaminato, poco più che simbolica.
Incrociando i dati tra l’appartenenza politica e le professioni, è interessante verificare come la Regione Emilia-Romagna non si caratterizzi per quella polarizzazione emersa in Lombardia, poiché i professionisti trovano spazio in tutti gli schieramenti o gruppi politici con la sola eccezione del Consiglio regionale uscito dalla tornata elettorale del 16 aprile 2000, dove su nove professionisti presenti, sette (quattro avvocati, un medico, un giornalista e un ingegnere) sono eletti nelle fila di Forza Italia. Nelle elezioni per la prima legislatura risulta un Consiglio regionale in cui i professionisti sono per il 30% del PCI, per il 30% della DC e per il restante 40% appartengono ai partiti minori della sinistra, del centro e della destra; nella successiva legislatura sono i partiti di massa democristiano e comunista che si dividono pressoché a metà i professionisti eletti (due avvocati e due giornalisti nel PCI, un professionista tecnico e due commercialisti nella DC); nella terza e quarta legislatura la presenza dei professionisti torna a essere più variegata: nel 1980 sono eletti un avvocato e un commercialista nelle fila della DC; un avvocato, un giornalista e un professionista tecnico nel PCI; un avvocato, un commercialista e un giornalista nei partiti minori; nel 1985 i consiglieri regionali professionisti sono quattro nella DC (tre avvocati e un giornalista); sei nel PSI e in altri partiti minori (due giornalisti, due commercialisti e due professionisti dell’area sanitaria); un avvocato nel PCI e un commercialista nel MSI.
Nella V legislatura è invece la DC che assume il primato eleggendo quattro avvocati, che costituiscono la metà dei professionisti presenti in Consiglio regionale. Con la sparizione della DC, la metamorfosi del PCI e del MSI e l’emergere di nuove formazioni politiche, la tornata elettorale regionale del 1995 segna il ritorno a una situazione di maggiore frammentazione: gli avvocati eletti sono due in Forza Italia e uno in AN; tra le fila del Partito democratico della sinistra (PDS) sono presenti un giornalista e un professionista dell’area sanitaria; un commercialista è eletto in formazioni politiche minori. Questa situazione di sostanziale equilibrio è, come detto, spazzata via dalla VII legislatura in cui si assiste al marcato spostamento dei professionisti nelle fila dello schieramento di centro-destra, ma, dalla legislatura successiva, la morfologia politica dei professionisti eletti nell’assemblea legislativa ritorna progressivamente a rappresentare in maniera omogenea lo schieramento di centro-destra e quello di centro-sinistra: nel Consiglio regionale uscito dalle elezioni del 2010 il Popolo della libertà (PDL) insieme alla Lega Nord hanno tra le loro fila cinque avvocati, un professionista sanitario, un commercialista e un giornalista; nel Partito democratico (PD) si contano tre professionisti dell’area sanitaria, due avvocati, due giornalisti e un professionista tecnico.
Nel Lazio l’andamento della presenza dei professionisti nell’assemblea legislativa regionale è simile a quello registrato per la Lombardia: sono percentualmente al primo posto nella legislatura uscita dalle elezioni del 7 giugno 1970, si ridimensionano nelle successive a fronte di altre categorie (politici di professione e lavoro dipendente), ma con forti oscillazioni: la presenza del libero professionismo passa dal 32,2% della II legislatura al 17,2% nella V, cresce fino al 33,3% nel 1995 quando raggiunge il punto più alto, cala bruscamente di dieci punti percentuali nell’VII legislatura, si attesta al 25,4% cinque anni dopo, scende nuovamente al 19,7% nella IX legislatura (fig. 4).
Il medesimo andamento altalenante caratterizza anche la composizione delle giunte regionali (tab. 9).
La distribuzione delle professioni liberali tra gli eletti nel Consiglio regionale laziale (tab. 10) mostra come nelle prime cinque legislature il gruppo più rappresentato sia quello degli avvocati che registra nella III legislatura (1980-1985) addirittura una percentuale del 56,25%. Dalla VI legislatura il primato passa alle altre professioni: i giornalisti – sono il 35% nel 1995, lo stesso anno in cui presidente della giunta regionale è eletto il giornalista Piero Badaloni, e il 33,3% nel 2005 – , i professionisti dell’area tecnica e quelli della sanità che, entrambi, salgono al 28,6% nel 2000. L’ultima legislatura considerata registra da un lato il prepotente ritorno degli avvocati sulla scena politica regionale (passano dal 22,2% nel 2005 al 42,9% nel 2010), dall’altro conferma la centralità delle professioni sanitarie, anch’esse attestate al 42,9% del totale dei professionisti eletti.
Come in Emilia-Romagna, anche i professionisti eletti nel Consiglio regionale laziale tendono a distribuirsi su tutte le formazioni politiche, anche se in maniera tutt’altro che omogenea. Nella I legislatura i professionisti eletti sono quattro nella DC, tre nel PCI, due nel PSI, uno nel MSI e sette in altri partiti minori; nella legislatura successiva la DC conta cinque professionisti, quattro ne elegge il PCI, tre ciascuno il PSI e il MSI, cinque sono i professionisti presenti negli scranni di altre formazioni politiche. Nella III e IV legislatura diminuisce la quota dei professionisti nei due partiti di sinistra (nel 1980 il PCI elegge due giornalisti e un professionista sanitario, il PSI un professionista tecnico; nella tornata successiva i numeri si invertono) a vantaggio della DC, che raggiunge la punta massima di sei professionisti (quattro avvocati, un commercialista e un professionista sanitario) nella tornata elettorale del 1980, e del MSI che in entrambe le legislature conta, tra le sue fila, quattro professionisti (tutti avvocati nella III legislatura, tre avvocati e un commercialista in quella successiva). Nella V legislatura sono invece i due partiti di massa (DC e PCI) che schierano ciascuno un terzo dei professionisti eletti in Consiglio regionale, mentre la quota del MSI cala al 10% (un avvocato). Le due legislature successive si segnalano per l’alta presenza di professionisti nelle formazioni di centro-destra: Forza Italia e AN toccano, rispettivamente, il 21,05% e il 26,3% nel 1995; il 28,6% e il 35,7% nel 2000. La situazione si ribalta nell’VIII legislatura quando è l’Ulivo che conta 8 professionisti (due avvocati, due professionisti tecnici, tre giornalisti e un medico), contro i cinque (due medici, due avvocati, un giornalista) di Forza Italia e uno (un professionista tecnico) di AN. Si tratta, comunque, di una tendenza temporanea poiché con le elezioni del 28 marzo 2010 lo spostamento a favore dello schieramento di centro-destra si fa schiacciante: dei quattordici professionisti eletti, cinque appartengono al PDL e quattro – tutti medici – alla lista di Renata Polverini, candidata del centro-destra alla guida della Regione Lazio.
Per quanto riguarda il profilo socioprofessionale dei consiglieri regionali, le legislature esaminate mettono in evidenzia l’unicità del caso pugliese, data dal fatto che l’incidenza dei liberi professionisti, in particolare degli avvocati, è molto più accentuata che altrove. In Puglia si è verificata infatti una sostanziale continuità del libero professionismo come bacino privilegiato di reclutamento della classe politica regionale: la quota dei professionisti sul totale dei consiglieri eletti è del 46% nelle prime due legislature, scende al 40% nella III e al 28% nella IV legislatura, quando prende consistenza la categoria dei lavoratori dipendenti (provenienti soprattutto dal funzionariato e dall’area dirigenziale), dal 1990 conosce un trend ascendente – regolare e ininterrotto – che nell’ultima legislatura porta i professionisti a occupare la metà dei seggi nel Consiglio regionale pugliese (fig. 5).
Il primato delle professioni – sotto il profilo numerico e della permanenza nel luogo della rappresentanza politica regionale – lo si deve essenzialmente all’avvocatura, di gran lunga la più sovrarappresentata tra le professioni pugliesi (tab. 11); essa raccoglie in media circa la metà dei professionisti eletti nei consigli regionali che si sono succeduti dal 1970 al 2010, conosce un’impennata nel 1980 quando schizza al 68,75% e solo una volta, nella VIII legislatura, scende di pochissimo al di sotto del 40%. Delle regioni prese in esame, solo per la Puglia continua a valere l’assioma dell’avvocato come professionista della politica, protagonista assoluto e indiscusso del circuito della politica regionale, oltre che nazionale e locale. Seguono i medici, i professionisti tecnici e i giornalisti, professioni la cui rappresentatività nel Consiglio regionale pugliese è assai volatile: in alcune legislature la loro presenza appare consistente, in altre si dimezza o addirittura scompare. Poco più che simbolica è, in tutto l’arco cronologico considerato, la partecipazione dei professionisti economico-contabili.
Se dalla configurazione dell’assemblea rappresentativa si passa a quella più ristretta della giunta regionale, si può notare come anche qui l’area di reclutamento privilegiata continui a essere il libero professionismo (tab. 12). I professionisti sono infatti il gruppo maggiormente rappresentato, con la sola eccezione della IV legislatura dove tra i componenti della giunta regionale prevale il lavoro dipendente. I professionisti pugliesi hanno, dunque, lungo tutto il periodo considerato la capacità di tramandarsi un potere di gestione della regione, come dimostra anche il fatto che siano ben cinque i presidenti della giunta regionale provenienti dalle fila delle professioni liberali (quattro avvocati e un giornalista-pubblicista).
I dati sull’appartenenza politica dei professionisti che siedono nell’assemblea legislativa pugliese rivelano un trend simile a quello registrato per la Lombardia: la quasi totalità dei professionisti presenti nelle prime cinque legislature sono eletti nelle fila della DC: sono dodici nella I, undici nella II, otto nella III, cinque nella IV e nove nella V legislatura. All’interno di questo partito gli avvocati mantengono per tutto il periodo considerato una posizione di preminenza, che in alcuni casi è pressoché assoluta – costituiscono il 75% nella I legislatura e il 63,6% nella II – in altri non scende mai al di sotto del 50% come nelle tre legislature successive. Per quanto riguarda gli altri schieramenti, è il MSI quello che nelle prime quattro legislature conta il maggior numero di professionisti tra le sue fila: sono quattro nella I, tre nella II, due nella III, cinque (quattro avvocati e un giornalista) nella IV. Nella legislatura successiva, invece, il MSI schiera tra i propri consiglieri regionali un solo professionista. Nei due partiti di sinistra si registra una differenza sostanziale per quanto riguarda la presenza dei professionisti. Per i comunisti la punta massima la si registra nella II legislatura con quattro professionisti eletti, per poi calare in quelle successive fino a raggiungere lo zero nella V legislatura; per i socialisti, invece, va sottolineata la tendenza all’aumento: i professionisti sono due nella I legislatura, tre nella II, due nella III, tre nella IV, cinque (due avvocati, due professionisti dell’area sanitaria, un professionista tecnico e un giornalista) nel Consiglio regionale uscito dalla tornata elettorale del 1990. Nella VI legislatura il mondo delle professioni liberali è ampiamente presente solo nello schieramento politico di centro-destra dove AN conta tra le sue fila otto professionisti (cinque avvocati, due professionisti dell’area sanitaria e un giornalista), che costituiscono il 33,3% del totale dei consiglieri regionali professionisti.
La vittoria della coalizione di centro-sinistra, guidata da Nichi Vendola, sancita dalle elezioni regionali del 3 aprile 2005 e poi confermata nelle successive elezioni, avvia un cambiamento nella distribuzione politica dei professionisti presenti nel Consiglio regionale della Puglia. Se si considerano non solo le formazioni politiche maggiori, ma l’insieme dei partiti che compongono la coalizione di centro-destra e quella di centro-sinistra si può infatti vedere, da un lato, come nello schieramento di centro-destra il numero dei professionisti si mantenga elevato (sono il 39,8% del totale nell’VIII legislatura e il 32,4% nella IX); dall’altro lato, la tendenza dei professionisti – soprattutto gli avvocati, ma anche i dottori commercialisti – a caratterizzarsi come gruppo emergente anche all’interno dello schieramento di centro-sinistra.
Giunti a questo punto è possibile provare a svolgere alcune considerazioni conclusive. Tenendo presente che nei meccanismi di composizione delle liste dei candidati alle poltrone di consigliere regionale, e nei rituali di formazione degli esecutivi regionali l’appartenenza politica e correntizia dei prescelti esercitano una influenza senza dubbio maggiore del background formativo e professionale, l’analisi e i dati quantitativi qui mostrati fotografano la centralità dei professionisti proiettati all’interno dei luoghi del potere regionale. A risultarne esaltata è senza dubbio la loro identità di attori pubblici che al bagaglio cognitivo di sapere codificato coniugano un preciso impegno sociale e politico, identità che spicca maggiormente nei momenti in cui la regione è impegnata a fondarsi sul piano interno e sul piano dei rapporti esterni, così come nei processi di riforma dell’ordinamento amministrativo regionale e di elaborazione di nuovi strumenti di regolazione.
Al contempo l’indagine conferma il radicamento dei professionisti nel tessuto politico italiano a tutti i livelli, non solo nazionale e locale, ma anche regionale. Sia pure con diversi accenti e dimensioni, si tratta infatti di una tendenza che accomuna tutte le regioni indagate e i sistemi politici di cui esse sono espressione, e contraddice, o quantomeno appanna, l’idea che la partecipazione agli organi di governo regionale costituisca un terreno privilegiato dei soggetti che appartengono in modo organico alle strutture di partito.
Tutto questo, ovviamente, non può che suggerire ulteriori e stimolanti spunti di riflessioni.
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Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 9 dicembre 2013
Si ringrazia Paolo Fabbri per la collaborazione nel rilevamento dei dati e per l’apporto all’impostazione delle tabelle statistiche.