Le politiche industriali del 21° secolo
Le economie moderne evolvono di continuo, con attività private e pubbliche che nascono e muoiono in tutti i settori, ma alcuni cambiamenti – legati alla struttura dell’economia – sono di grande rilievo e di difficile realizzazione. Esempi di queste trasformazioni sono: il progressivo passaggio dall’agricoltura allo sviluppo industriale nei Paesi più poveri; il declino dell’industria tradizionale e lo sviluppo di servizi avanzati nei Paesi più ricchi; il passaggio da sistemi produttivi basati sulla meccanica e la chimica a un’economia dominata dalle tecnologie dell’informazione e comunicazione; la necessità di rendere la produzione sostenibile dal punto di vista ambientale. Dopo due secoli in cui le politiche industriali hanno svolto un ruolo essenziale nei processi di industrializzazione delle economie avanzate, nell’ultimo ventennio molti Paesi hanno lasciato ai mercati, in un contesto di crescente apertura internazionale, la guida dei processi di cambiamento economico. Con la crisi iniziata nel 2008, tuttavia, le politiche industriali stanno tornando di attualità, con una rivalutazione del ruolo dello Stato nell’economia.
Le politiche industriali si fondano sulla presenza di una comunità politica definita (gli Stati, l’Unione Europea, le regioni), dotata di un sistema di governo avente poteri per definire le regole dei comportamenti economici e orientare l’evoluzione dell’economia. Le politiche industriali presuppongono una condivisione tra governo, imprese, sindacati, opinione pubblica di giudizi di valore sulla desiderabilità sociale di particolari sviluppi nella struttura dell’economia e richiedono la presenza di istituzioni che abbiano competenze e strumenti per realizzarle.
Obiettivi, strumenti e limiti delle politiche industriali
Gli obiettivi
L’obiettivo generale delle politiche industriali è quello di favorire l’evoluzione dell’economia verso direzioni ritenute desiderabili dal punto di vista economico (migliorando l’efficienza), sociale (rispondendo a bisogni sociali e migliorando l’equità), ambientale (assicurando la sostenibilità) o politico (proteggendo particolari interessi nazionali). Le politiche industriali intervengono nel momento in cui tale obiettivo non può essere raggiunto dai comportamenti privati degli operatori sui mercati.
Le politiche industriali che puntano a raggiungere obiettivi economici possono essere distinte sulla base di quattro obiettivi specifici: migliorare l’efficienza statica dell’economia; migliorare l’efficienza dinamica; assicurare il coordinamento delle decisioni; fornire le necessarie condizioni di contesto.
L’autorità pubblica può ottenere miglioramenti di efficienza statica intervenendo nei casi di fallimenti di mercato, cioè dove i comportamenti privati non portano a un uso efficiente delle risorse. Diverse sono le cause di tali fallimenti: in primo luogo, vengono provocati dalla presenza di mercati imperfetti, con monopoli naturali (nei casi in cui gli elevati costi fissi di investimento rendono efficiente la presenza di un solo produttore, come nelle reti ferroviarie o nei servizi locali) o con poche imprese oligopolistiche che, disponendo di forte potere di mercato, condizionano i prezzi oppure, con eccessive regolamentazioni pubbliche, limitano la concorrenza. In secondo luogo, derivano da informazione imperfetta, quando gli operatori privati hanno conoscenze inadeguate e asimmetrie informative, che limitano gli scambi e avvantaggiano particolari soggetti. In terzo luogo, si hanno fallimenti di mercato quando le attività economiche presentano esternalità positive o negative, cioè quando i benefici e i costi sociali non sono tenuti in considerazione nei prezzi di mercato.
In tutti questi casi l’intervento pubblico ha l’obiettivo di ‘far funzionare i mercati’ in modo efficiente, influenzando domanda e offerta, prezzi e quantità dei beni in modo da avvicinarli – attraverso forniture dirette, regole o incentivi e tasse – ai livelli che risulterebbero da mercati efficienti; il risultato che ci si attende, date le risorse disponibili, è ottenere la massima quantità di beni al più basso prezzo possibile.
Le politiche industriali hanno l’obiettivo di ottenere miglioramenti di efficienza dinamica quando puntano ad accrescere le risorse disponibili, favorendo la crescita di settori e imprese caratterizzate da forti processi di apprendimento, cambiamento tecnologico, internazionalizzazione, con elevate economie di scala e rapida crescita della domanda e della produttività. Se la struttura dell’economia è caratterizzata da un dualismo tra settori a bassa crescita (agricoltura o industrie e servizi tradizionali) e settori con una forte dinamica della domanda e della produttività (industrie ad alta tecnologia o servizi avanzati), lo spostamento di attività dai primi ai secondi è destinato ad accrescere il reddito medio del Paese. Compito delle politiche industriali è quindi favorire un tale cambiamento strutturale e agevolare la crescita di attività ‘schumpeteriane’ che sviluppino nuove tecnologie e produzioni.
Nel caso in cui i settori dinamici presentino forti economie di scala e conseguenti barriere all’entrata – per es., quelli dell’auto, della chimica, dell’elettronica di consumo, dell’aeronautica – le politiche industriali puntano a favorire la concentrazione delle risorse nazionali, private e pubbliche, con il fine di ottenere elevati volumi di produzione, tali da assicurare una rapida riduzione dei costi e la possibilità di competere sui mercati internazionali; tale strategia richiede in genere fusioni o accordi tra imprese private, un forte coordinamento pubblico, una qualche protezione del mercato interno e sostegno all’esportazione.
Quando i settori dinamici sono caratterizzati da un rapido cambiamento tecnologico – per es., l’elettronica, l’informatica, le comunicazioni, le biotecnologie, le tecnologie ambientali – le politiche industriali e dell’innovazione puntano a favorire l’acquisizione e la diffusione di conoscenze in questi ambiti, sostenendo le attività di ricerca e sviluppo, la creazione di nuove imprese, l’introduzione di nuovi prodotti, processi e modelli organizzativi. Tale strategia richiede in genere interventi di sostegno all’offerta delle imprese attive in questi campi e di stimolo alla domanda, attraverso la creazione e l’organizzazione di nuovi mercati con le necessarie regolamentazioni e un uso strategico della domanda pubblica.
Spesso i settori dinamici sono segnati da una forte apertura internazionale (è frequente che entrambi i casi precedenti lo siano), dovuta alla localizzazione di conoscenze e tecnologie essenziali, al rilievo dei mercati di esportazione, alla presenza di sistemi di produzione organizzati su scala internazionale, al ruolo chiave delle imprese multinazionali. In questi casi le politiche industriali possono sostenere i processi di internazionalizzazione delle imprese nazionali, favorendone la capacità di competere sia sul piano tecnologico sia su quello dei costi. I benefici attesi in questo caso sono un aumento del prodotto e del reddito, della competitività internazionale del Paese, dell’occupazione e dei salari.
Le politiche industriali sono necessarie per assicurare il coordinamento tra le decisioni dei principali operatori privati e pubblici. Le grandi trasformazioni nella struttura dell’economia richiedono investimenti e cambiamenti da parte di molti soggetti diversi; per es., lo sviluppo della produzione di automobili richiede la produzione di materie prime – acciaio, benzina ecc. –, la presenza di un sistema di subfornitori, di una forza lavoro con le competenze necessarie, di una rete stradale e un sistema di trasporti adeguato. Gli investimenti dei soggetti privati in queste attività vengono effettuati soltanto se si realizzano gli investimenti complementari richiesti e le politiche pubbliche assumono un ruolo fondamentale per programmare e coordinare grandi sforzi di questo tipo.
Infine, le politiche industriali sono necessarie per fornire le condizioni di contesto – istruzione, conoscenze, infrastrutture, materie prime – indispensabili per lo sviluppo di nuovi settori. Tali condizioni cambiano a seconda delle fasi di sviluppo; l’emergere delle tecnologie dell’informazione e comunicazione e di un’economia basata sulla conoscenza richiede nel 21° sec. più elevati livelli d’istruzione, un ruolo maggiore delle università e della ricerca, la realizzazione di reti – basate su cavi, fibre ottiche o collegamenti wireless – per assicurare le connessioni e l’accesso a Internet; sono inoltre necessarie nuove regole di funzionamento per le attività basate sull’informazione, in termini di diritti di proprietà intellettuale sui beni disponibili in rete, di pratiche di cooperazione e di scambio tra pari (peer to peer) fuori dalle transazioni di mercato, ridisegnando i confini tra la sfera propria dell’economia e le attività sociali.
Va segnalato che esistono potenziali conflitti tra i quattro obiettivi economici prima citati; tipico è il caso del trade off tra efficienza statica e dinamica nel caso dei settori con rapido cambiamento tecnologico e mercati oligopolistici. Se prevale il primo obiettivo, le politiche industriali punteranno ad accrescere la concorrenza e ridurre gli extra-profitti delle imprese, in modo da abbassare i prezzi dei prodotti esistenti nel breve periodo; se prevale il secondo, le politiche industriali consentiranno il rafforzamento delle imprese maggiori, favorendo il reinvestimento degli extra-profitti nella ricerca e innovazione, in modo da offrire nuovi prodotti a prezzi decrescenti nel lungo periodo.
Le politiche industriali che puntano a raggiungere obiettivi sociali si delineano nei casi in cui il cambiamento della struttura economica comporti elevati costi sociali di adattamento o apprendimento. Per es., nei Paesi in via di sviluppo assicurare adeguate condizioni di vita alla popolazione che vive nelle campagne può richiedere interventi a protezione e sostegno dell’agricoltura nazionale. Con l’emergere delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, favorire la diffusione di personal computer e Internet può richiedere interventi volti a incentivare e sostenere la produzione e il consumo di tali beni.
Le politiche industriali che puntano a raggiungere obiettivi ambientali si delineano quando l’attività economica ha gravi esternalità negative sull’ambiente, cioè quando i costi ambientali – inquinamento, cambiamenti climatici, danni alla biodiversità ecc. – non sono tenuti in considerazione dai prezzi di mercato. Interventi pubblici sono in tal caso richiesti per porre limiti ad alcune produzioni (per es. le emissioni di anidride carbonica), definire regole, dare sostegno alle fonti energetiche rinnovabili, favorire lo sviluppo di produzioni ecologiche, in modo da migliorare la sostenibilità ambientale dell’economia.
Le politiche industriali che puntano a raggiungere obiettivi politici vengono giustificate dalla presenza di particolari interessi nazionali, per es. l’autosufficienza energetica, l’esistenza di una compagnia aerea di bandiera, la presenza di un’industria militare nazionale che sostenga la politica di potenza del Paese. In questi casi lo strumento tradizionale per perseguire tali obiettivi è la creazione di imprese pubbliche poste sotto il controllo dell’autorità politica; esse operano sui mercati ma dispongono di capitali, finanziamenti, commesse e – se necessario – copertura delle perdite assicurati dallo Stato.
Tali diversi obiettivi possono essere in conflitto tra loro: misure per la sostenibilità ambientale possono comportare maggiori costi economici; obiettivi sociali possono essere in contrasto con strategie di crescita economica o di potenza nazionale; l’industria militare spesso risulta inefficiente dal punto di vista economico. In questi casi le scelte di politica industriale riflettono le priorità dei governi tra obiettivi diversi.
Gli strumenti
Per raggiungere i diversi obiettivi sopra illustrati, le politiche industriali hanno a disposizione – almeno sulla carta – un ampio arco di strumenti che consentono di influenzare costi e incentivi alla base delle scelte dei soggetti privati.
L’erogazione di sussidi (o l’imposizione di tasse) può stimolare (o scoraggiare) le attività private sui mercati caratterizzati da inefficienze statiche o dinamiche. Tipici esempi sono il sostegno alla ricerca e sviluppo e all’innovazione, agli investimenti e all’adozione di nuove tecnologie, la tassazione o la regolamentazione di produzioni inquinanti. Gli strumenti per misure di sostegno comprendono sgravi fiscali (sia generalizzati sia limitati ad attività specifiche), agevolazioni creditizie, finanziamenti agevolati, detassazione e garanzie per gli investimenti. Il sostegno agli investimenti può prendere la strada – specie nei Paesi in via di sviluppo – della creazione di development banks o banche d’investimento a partecipazione pubblica, che possono acquisire quote del capitale di nuove imprese e fornire finanziamenti a lungo termine.
Nel caso di mercati imperfetti, gli strumenti specifici per accrescere l’efficienza (statica) comprendono le misure per la tutela della concorrenza (da parte di autorità antitrust), per la liberalizzazione dell’accesso ai mercati e, dall’altro lato, il controllo dei prezzi.
Nel caso della regolamentazione, invece, istituzioni specifiche definiscono norme concernenti quantità e qualità per le produzioni che risultano caratterizzate da alte esternalità e mercati imperfetti, in modo da poter migliorare l’efficienza statica.
La domanda pubblica, attraverso commesse ai produttori nazionali delle industrie emergenti, può favorire il raggiungimento di economie di scala e migliorare l’efficienza dinamica, fornendo un importante stimolo iniziale per le nuove attività; gli esempi comprendono le telecomunicazioni, i treni ad alta velocità, l’aerospazio, gli armamenti, i sistemi sanitari.
La creazione di imprese pubbliche, nei settori caratterizzati da monopoli naturali, mercati oligopolistici, elevate esternalità, rilevanti interessi nazionali, può consentire di sviluppare conoscenze e capacità produttive in settori strategici e definire quantità e prezzi dei beni prodotti sulla base di valutazioni di politica industriale, migliorando l’efficienza statica e dinamica. In questo caso risorse pubbliche (in genere tratte dalla fiscalità generale) vengono destinate alle imprese pubbliche per dotarle di capitali, consentirne gli investimenti o coprirne le eventuali perdite dovute alla fissazione di prezzi inferiori ai costi, quando l’obiettivo è di trasferire benefici agli utenti o ai consumatori. Le imprese pubbliche (specie in Europa) sono tipiche dei settori dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti, dei servizi locali, degli armamenti.
La creazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo di nuove attività è un altro tipico strumento delle politiche industriali che puntano a migliorare l’efficienza dinamica. Le costruzioni di autostrade e ferrovie nel secondo dopoguerra e di reti informatiche e di comunicazione alla fine del 20° sec. sono state iniziative pubbliche essenziali per le diverse fasi dello sviluppo. Non si tratta solo di infrastrutture materiali; un ruolo analogo è svolto dal sistema pubblico di istruzione superiore, ricerca e innovazione e dalle azioni pubbliche per definire regole, standard tecnici e forme di organizzazione per le nuove attività e i nuovi mercati.
Le azioni pubbliche per il coordinamento delle decisioni comprendono gli strumenti di programmazione per settori o attività specifiche, le forme di concertazione tra le parti sociali e gli accordi (formali o informali) con le grandi imprese private per programmare lo sviluppo di nuove attività.
Comuni alle politiche industriali e a quelle commerciali sono le misure di sostegno alle esportazioni, gli incentivi per la localizzazione di filiali di imprese multinazionali, la protezione commerciale delle industrie nascenti (con tariffe, dazi, restrizioni volontarie delle esportazioni), l’uso di commercio amministrato e di negoziati per aprire particolari settori di esportazione, un insieme di misure che hanno come obiettivo quello di rafforzare particolari settori produttivi, migliorando l’efficienza dinamica.
I limiti
L’individuazione di obiettivi condivisi e di strumenti appropriati non assicura tuttavia un automatico successo delle politiche industriali. Per quanto giustificata in teoria, la messa in pratica di tali politiche presenta numerosi punti deboli. Esse sono realizzate da governi e istituzioni pubbliche che non dispongono di informazioni sistematiche sull’intera economia e possono quindi commettere errori di valutazione sulle potenzialità di sviluppo di particolari attività, provocando sprechi di risorse pubbliche. Le autorità pubbliche spesso non hanno le strutture amministrative, le competenze tecniche e gli strumenti di controllo per intervenire con efficacia, individuare i settori e le imprese di successo e calibrare le misure richieste. I responsabili delle istituzioni, inoltre, possono essere tentati da comportamenti collusivi con le imprese favorite dalle politiche industriali, dando luogo così a fenomeni di corruzione. Infine, in presenza di una forte regolamentazione pubblica, può accadere che le imprese puntino alla conquista e al mantenimento di posizioni di rendita assicurate dalle decisioni pubbliche, anziché mirare all’accrescimento dell’efficienza.
L’esistenza di rischi delle politiche industriali è dovuta ai fallimenti dello Stato, accanto a quelli del mercato, e questi rischi appaiono particolarmente gravi quando le istituzioni pubbliche sono più fragili e inefficienti. Quando prevalgono valutazioni di questo tipo, le politiche industriali presentano più rischi di fallimento che opportunità di crescita. È questo approccio che è prevalso negli ultimi vent’anni del 20° secolo. L’affermarsi delle politiche liberiste ha ridotto l’intervento pubblico nell’economia e messo in discussione il concetto stesso di politica industriale: sono i mercati – questa era la tesi – a saper guidare meglio dei governi l’evoluzione delle economie, sia quelle avanzate sia quelle in via di sviluppo.
Le lezioni delle politiche industriali
Il caso europeo
Il 20° sec. ha visto l’ascesa e il declino delle politiche industriali. La crescita economica senza precedenti registrata dai Paesi europei, dal Giappone e, negli ultimi decenni, dai Paesi dell’Asia orientale è stata sostenuta da attive politiche industriali. Nel secondo dopoguerra gli obiettivi erano lo sviluppo di un’ampia e diversificata base produttiva nell’industria manifatturiera nei settori tipici della produzione ‘fordista’: acciaio, automobili, chimica, trasporti, energia. A partire dagli anni Ottanta, i settori al centro delle politiche industriali si sono progressivamente spostati verso quelli legati alle tecnologie dell’informazione e comunicazione – elettronica, software, media – e ad altre tecnologie avanzate – aeronautica, farmaceutica, biotecnologie.
Tra gli anni Cinquanta e Settanta, la quasi totalità dei Paesi europei e il Giappone hanno utilizzato praticamente tutto l’arco di strumenti sopra descritti per perseguire gli obiettivi di industrializzazione e cambiamento strutturale.
Il caso francese è quello di maggior rilievo tra le politiche industriali europee. La Francia ha una lunga tradizione di intervento dello Stato nell’economia, dai tempi di Jean-Baptiste Colbert e della prima rivoluzione industriale. Nel secondo dopoguerra, in un quadro di pianificazione dello sviluppo, sono state realizzate importanti politiche di settore e sono state sviluppate grandi imprese pubbliche nell’ambito dell’elettricità (EDF), delle telecomunicazioni (France Télécom), delle automobili (Renault), dell’aerospazio (Aérospatiale, confluita nel gruppo europeo EADS che produce gli Airbus), nel settore bancario e in molte altre industrie. Anche durante le privatizzazioni degli anni Novanta, le industrie di Stato francesi hanno mantenuto il loro ruolo, e le vendite ad azionisti privati sono state limitate.
Un modello analogo, se pure con minor programmazione e lo stesso ruolo chiave delle imprese pubbliche, è stato seguito in Italia, dove si sono affermate l’IRI (nei settori dell’acciaio, cantieri navali, telecomunicazioni, auto, aeronautica, armamenti, banche ecc.), l’ENI (oggi Eni, petroli), l’ENEL (elettricità), l’EFIM (armamenti); nel nostro Paese le privatizzazioni degli anni Novanta hanno però cancellato quasi interamente la presenza di imprese pubbliche.
In quasi tutti i Paesi europei, per molti decenni le imprese pubbliche hanno rappresentato una risposta efficace ai fallimenti di mercato nei settori caratterizzati da monopoli naturali, alte esternalità, intenso cambiamento tecnologico e opportunità di miglioramenti di efficienza dinamica. Un punto di forza di questo approccio è stata l’integrazione, all’interno della sfera delle politiche pubbliche, dell’insieme di attività che vanno dalla ricerca di base e applicata allo sviluppo di nuovi prodotti e sistemi, fino a produzioni di grande scala, in cui le commesse pubbliche svolgevano il ruolo chiave di assicurare domanda finale e sbocchi di mercato per i settori emergenti.
Oltre al successo nello sviluppo delle produzioni ‘fordiste’ dominate dalle economie di scala fino agli anni Settanta, questo modello ha continuato a produrre successi anche nel 21° sec. in alcuni settori in cui i Paesi europei hanno costruito una leadership mondiale, come i treni ad alta velocità, l’aeronautica civile (il consorzio europeo Airbus nel 2003 ha superato la Boeing americana come più grande produttore mondiale di aerei civili), alcune tecnologie ambientali, quelle farmaceutiche e sanitarie, in cui la ricerca e la produzione di farmaci e apparecchiature elettromedicali si integrano strettamente con sistemi sanitari pubblici particolarmente avanzati. Nel complesso, queste attività sono caratterizzate da miglioramenti tecnologici su traiettorie oramai consolidate, e da un grande rilievo della domanda pubblica, che continua a rappresentare uno strumento chiave per guidare l’evoluzione delle strutture produttive.
Viceversa, il modello europeo delle politiche industriali ha registrato, alla fine del 20° sec., seri fallimenti nei settori dell’elettronica, dell’informatica, del software, con il tramonto delle grandi imprese private o pubbliche che svolgevano il ruolo di ‘campioni nazionali’ – come ICL in Gran Bretagna, Bull in Francia, Olivetti in Italia –, aprendo la strada a una rinnovata leadership degli Stati Uniti e dei nuovi produttori asiatici. Le istituzioni e i meccanismi delle politiche industriali europee, ancora centrate su un orizzonte nazionale, si sono mostrati inadeguati nel caso di attività caratterizzate da un rapidissimo cambiamento tecnologico, da una continua evoluzione dei prodotti, dei mercati e dei modelli d’impresa, e da sistemi di produzione che si sono sviluppati su scala internazionale per ottenere contemporaneamente i benefici della ricerca e della tecnologia dei centri di eccellenza occidentali e dei bassi costi del lavoro nei Paesi asiatici per le attività di routine, nell’assemblaggio dell’hardware come nello sviluppo del software. Il risultato per l’Europa è stata la perdita di capacità produttive in settori chiave e un forte deficit commerciale per i prodotti e i servizi legati alle tecnologie dell’informazione e comunicazione.
Il caso del Giappone e dell’Asia orientale
Nella seconda metà del 20° secolo l’Asia orientale – il Giappone prima, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore poi – ha registrato una crescita economica molto rapida, sostenuta da un largo impiego di politiche industriali e da un ruolo pervasivo dell’intervento pubblico. Nei decenni più recenti un percorso analogo è stato seguito da Indonesia, Malesia e Thailandia e poi da Cina e India, in un contesto di maggiore apertura internazionale dei mercati e maggiore ruolo delle imprese multinazionali.
Il modello di crescita avviato dal Giappone si fondava sul coordinamento degli investimenti e della diffusione delle tecnologie da parte delle autorità pubbliche e delle grandi imprese, e programmava il cambiamento della struttura economica dai settori tradizionali ad attività con rapida crescita della produttività, elevate esternalità, e ampia domanda sui mercati internazionali. In tal modo, questi Paesi hanno via via affiancato e sostituito le produzioni industriali tradizionali (acciaio, tessile ecc.) con l’automobile e gli elettrodomestici, e poi con l’elettronica e le comunicazioni. Gli strumenti di politica industriale utilizzati – in particolare nei casi di Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Singapore – comprendevano la protezione delle industrie nascenti, sussidi alle esportazioni, il coordinamento tra investimenti complementari, una ‘concorrenza amministrata’ con regole sull’entrata e uscita delle imprese dai mercati, su prezzi e investimenti, e un ampio sostegno al cambiamento tecnologico, attraverso sussidi alla ricerca, riduzione della concorrenza, acquisizione regolata di licenze, tecnologie e investimenti diretti dall’estero in modo da favorire l’apprendimento interno, in un contesto che ha saputo integrare le politiche industriali con quelle per l’innovazione e la formazione. Anche le politiche macroeconomiche e del cambio hanno favorito gli investimenti attraverso misure espansive, un’elevata liquidità e la compressione dei consumi.
Ugualmente importante è stato l’assetto istituzionale di questi Paesi, con uno Stato capace di operare scelte autonome, con orizzonti di lungo periodo, rispetto agli interessi delle grandi imprese, ma legato a esse da stretti rapporti di cooperazione che hanno reso efficace il coordinamento delle decisioni (nel caso giapponese, le istituzioni chiave della politica industriale sono state il Ministero del Commercio internazionale e dell’Industria, l’Agenzia per la scienza e la tecnologia, i Consigli di deliberazione con le imprese ecc.). Inoltre, un approccio cooperativo alle relazioni industriali e misure di tutela dell’occupazione hanno reso possibile un modello di organizzazione delle imprese che coinvolgeva i lavoratori nei processi di apprendimento e miglioramento continuo delle produzioni, favorendo l’introduzione di innovazioni.
Il successo di questo modello di politiche industriali è documentato dalla rapida crescita economica, prima con l’‘inseguimento’ delle capacità produttive e tecnologiche occidentali e poi con il raggiungimento di posizioni di leadership internazionale in molti settori – dall’auto all’elettronica, alle tecnologie dell’informazione – in cui questi Paesi registrano attualmente considerevoli surplus negli scambi commerciali con Stati Uniti ed Europa.
Negli ultimi decenni, lo sviluppo delle altre economie asiatiche – Paesi dell’Asia sud-orientale, Cina e India – è avvenuto attraverso meccanismi che in parte replicano le politiche industriali inaugurate dal Giappone, ma le applicano in contesti caratterizzati da una maggior apertura internazionale, da un ruolo chiave delle imprese multinazionali, dalla libertà di movimento dei capitali, e da un cambiamento tecnologico dominato dalle tecnologie dell’informazione e comunicazione che si è fatto più intenso e differenziato. È questo il quadro che definisce ora le politiche industriali del 21° secolo.
L’evoluzione delle politiche industriali
Nel 21° sec. la questione delle politiche industriali si presenta ancora come l’esigenza di favorire lo sviluppo di nuove attività, basate su conoscenze tecnologiche che sono difficili e costose da acquisire e sviluppare, realizzate con processi produttivi complessi, che coinvolgono soggetti diversi e richiedono decisioni coordinate e l’organizzazione di nuovi mercati. Le imprese che possono sviluppare le nuove attività hanno bisogno di informazioni, coordinamento, incentivi, risorse e protezioni temporanee per potere affrontare i rischi e coprire i costi dell’apprendimento e dell’investimento. Tuttavia, tali processi avvengono in un contesto contrassegnato da tre elementi particolari: un cambiamento tecnologico di tipo evolutivo, dominato dalle tecnologie dell’informazione e comunicazione; un’elevata apertura internazionale delle economie e un sistema di produzione internazionale organizzato intorno alle imprese multinazionali; una regolazione dei mercati interni e internazionali in cui la liberalizzazione e la tutela della concorrenza assumono un ruolo prevalente rispetto alle considerazioni sull’evoluzione della struttura economica.
Le nuove tecnologie
L’inizio del 21° sec. è caratterizzato dal pieno sviluppo del ‘paradigma tecnologico’ fondato sulle tecnologie dell’informazione e comunicazione, che si diffondono in numerose attività economiche e sociali e trasformano la natura dei beni prodotti, delle conoscenze e del lavoro utilizzato, dei sistemi produttivi e dei mercati. Ciò cambia i luoghi dove si accumulano competenze, i confini delle imprese – con l’esternalizzazione di fasi produttive e funzioni aziendali – e la dimensione territoriale dell’innovazione e della produzione. Tutto questo riguarda non solo le merci, ma anche i servizi: attività come la ricerca, lo sviluppo di software, le funzioni amministrative, i call centers possono essere svolte in modo efficiente fuori dalle grandi imprese e fuori dai confini nazionali, e vengono localizzate sulla base sia della presenza di competenze di eccellenza sia delle possibilità di riduzione dei costi.
Per l’innovazione, gli elementi fondamentali sono l’accelerazione del cambiamento tecnologico e organizzativo, l’elevata incertezza sulla direzione e le applicazioni che possono emergere, l’eterogeneità tra le imprese e i settori, il ruolo chiave dell’apprendimento a tutti i livelli, la natura sistemica dell’innovazione. Il cambiamento tecnologico è sempre più il risultato dell’operare di sistemi innovativi nazionali, definiti dai rapporti tra imprese, finanza, università e ricerca, e le istituzioni pubbliche che guidano le politiche; soltanto la presenza di punti di forza in ciascuno di questi aspetti e la stretta integrazione tra i diversi elementi del sistema, tra produttori e utilizzatori delle tecnologie, possono condurre a buone prestazioni innovative a livello nazionale. Ciascun Paese dispone di un sistema innovativo con competenze su uno spettro limitato di attività; gli assetti istituzionali e le specializzazioni settoriali esistenti condizionano le possibilità di sviluppo economico e rappresentano il punto di partenza per politiche tecnologiche e industriali che puntino a sviluppare nuove attività, caratterizzate da elevato apprendimento, produttività e domanda.
In passato, nei Paesi avanzati, tali politiche si concentravano su due aspetti; da un lato la politica scientifica offriva sostegno alla produzione di conoscenza e alla formazione avanzata nelle università e nei centri di ricerca, con lo Stato che si faceva carico della fornitura di un bene pubblico. Dall’altro lato, la politica tecnologica favoriva l’acquisizione di conoscenze e capacità produttive in settori emergenti selezionati, sostenendo l’imitazione, l’acquisizione di licenze, i trasferimenti di tecnologia e le importazioni di macchinari dai produttori più avanzati. Sia i campi della ricerca scientifica sia i settori dell’inseguimento tecnologico erano relativamente ben definiti dal contesto nazionale in cui si operava; viceversa, ora il cambiamento tecnologico ha provocato un aumento dell’incertezza – e della varietà di opzioni possibili – su tutti i fronti: sulle fonti e sul tipo di conoscenze che possono avere utili applicazioni, sui prodotti che possono incontrare nuova domanda, sui processi e le organizzazioni che possono realizzarli con efficienza, sui costi e benefici associati all’innovazione.
In queste condizioni, le politiche industriali dei Paesi avanzati dovrebbero plasmarsi sulla natura evolutiva del cambiamento tecnologico, favorendo i processi di apprendimento in tutta l’economia, la capacità di acquisire e sviluppare conoscenze attraverso i confini nazionali, rafforzando non soltanto le singole imprese e istituzioni capaci di introdurre nuove attività, ma anche le relazioni e le reti tra i diversi elementi del sistema innovativo, facilitando la capacità degli utilizzatori di esprimere una domanda di beni innovativi e organizzando gli sbocchi di mercato che possono guidare il cambiamento tecnologico. In un contesto di questo tipo, tra gli obiettivi della politica industriale perdono rilievo le considerazioni di efficienza statica sull’equilibrio dei mercati e diventa di conseguenza predominante la dimensione dinamica: l’apprendimento necessario per limitare l’incertezza, le nuove competenze necessarie per competere sulla base di vantaggi tecnologici e di qualità dei prodotti, anziché di costi inferiori.
La produzione internazionale
Nel 20° sec. le politiche industriali si sono sviluppate in economie relativamente chiuse, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di imprese nazionali, che potevano contribuire ad accumulare conoscenze all’interno del Paese, a offrire occupazione qualificata, a ridurre la dipendenza dalle importazioni di beni avanzati, allentando così i vincoli di bilancia dei pagamenti. Tali strategie si sono tradizionalmente affiancate a politiche commerciali basate sulla sostituzione delle importazioni, puntando cioè a sviluppare produzioni nazionali nei settori in cui sussistevano maggiori condizioni di dipendenza dall’estero e più sfavorevole era la dinamica delle ragioni di scambio.
I processi di globalizzazione avviati a partire dagli anni Ottanta hanno portato a una maggiore integrazione internazionale e a una liberalizzazione degli investimenti esteri e dei flussi di capitali. Protagoniste di questi processi sono state le imprese multinazionali, società con attività produttive in più Paesi; si calcola che nel mondo siano oltre 70.000, con circa 700.000 filiali all’estero e che pesino per circa un quarto del prodotto interno lordo mondiale; le filiali estere realizzano oltre un terzo delle esportazioni mondiali e hanno un’occupazione totale vicina ai 60 milioni di persone. Si è affermato in questo modo un sistema di produzione internazionale fortemente radicato nei Paesi avanzati – che realizzano ancora oltre due terzi della produzione industriale mondiale – organizzato sulla base di reti che localizzano le diverse fasi della produzione nei Paesi in cui esistono le condizioni più favorevoli, siano esse le capacità di ricerca, le competenze produttive o i bassi costi del lavoro.
Le politiche industriali, specie per i Paesi in via di sviluppo, si trovano così a operare in un contesto profondamente diverso: per sviluppare nuove attività produttive è necessario l’inserimento del Paese nelle reti di produzione internazionale, è spesso importante l’arrivo di investimenti diretti da parte di imprese multinazionali straniere ed è richiesto un forte orientamento verso l’esportazione. Nelle reti di produzione internazionale, le case-madri delle imprese multinazionali concentrano in genere nei Paesi avanzati le attività ad alto valore aggiunto, la ricerca e sviluppo, l’innovazione, le produzioni di componenti chiave, le funzioni finanziarie e strategiche; le politiche industriali dei Paesi in via di sviluppo partono inizialmente con l’obiettivo di attrarre produzioni standardizzate ad alta intensità di lavoro, e tentano poi progressivamente di incrementare le competenze del Paese in attività a maggior contenuto di conoscenza e valore aggiunto e di elevata domanda internazionale.
Molte politiche industriali si intrecciano così con le misure per accrescere l’apertura internazionale delle economie, come gli incentivi e i crediti agevolati alle imprese che esportano, e la creazione di ‘zone franche’ e di ‘piattaforme di esportazione’ – ne esistono oltre mille nel mondo – dove si può produrre con buone infrastrutture e servizi, con esenzioni doganali, riduzioni fiscali e spesso in deroga alle normative sulla tutela del lavoro e dell’ambiente. Le politiche di attrazione di investimenti esteri nel Paese hanno posto spesso condizioni particolari alle multinazionali straniere: che siano realizzati attraverso joint ventures con imprese locali, in cui a volte esse abbiano quote di maggioranza; che ci sia una quota rilevante di produzioni e subforniture realizzate all’interno del Paese; che ci sia una presenza rilevante di manager e tecnici qualificati del Paese; che ci siano ulteriori meccanismi di diffusione delle conoscenze e delle tecnologie a lavoratori e imprese nazionali. Misure di sostegno alle esportazioni e di attrazione degli investimenti sono molto diffuse nei Paesi in via di sviluppo e appaiono come una nuova forma di politiche industriali per lo sviluppo di nuove attività. Tipiche di questa strategia sono le politiche industriali realizzate dalla Cina, che sono riuscite attraverso questa via a sviluppare nuove produzioni in tutti i settori, compresi quelli più avanzati (elettronica, aeronautica ecc.) e a far crescere nuove imprese nazionali.
Un’ulteriore novità del nuovo contesto internazionale è che le politiche industriali dei Paesi in via di sviluppo si trovano in concorrenza tra di loro per attrarre investimenti e produzioni di imprese straniere, percepite spesso come la principale opportunità per uscire da condizioni di sottosviluppo; tale situazione aumenta i costi delle politiche di attrazione, peggiora le possibilità di miglioramento dei salari e delle tutele del lavoro e permette alle imprese multinazionali di spostarsi di continuo verso nuovi Paesi che offrono condizioni più favorevoli. Anche in questi casi, l’approccio che ispira queste politiche industriali è legato a una prospettiva dinamica, puntando a sviluppare nuove attività, diffondere competenze, accrescere produttività ed esportazioni.
La liberalizzazione dei mercati
Il 21° sec. si è aperto con l’affermazione di politiche di liberalizzazione dei mercati nel Nord come nel Sud del mondo, all’interno delle economie nazionali come nel commercio estero. Alla base di tale successo era l’idea – radicata nelle convinzioni ideologiche neoliberiste – che i benefici di efficienza statica (più beni, a prezzi inferiori) offerti da mercati più aperti e concorrenziali fossero superiori a ogni altra considerazione. Le politiche di liberalizzazione riducono le protezioni di ogni tipo, allargano i mercati e offrono grandi benefici ai produttori più efficienti, aspettandosi che una parte dei vantaggi sia poi trasferita ai consumatori nella forma di prezzi inferiori. Quando esistono diverse aree di forza e debolezza relativa tra imprese e Paesi diversi, la liberalizzazione dei mercati rafforza le specializzazioni più forti e rende più difficile l’emergere di nuovi competitori, l’inseguimento dei ‘ritardatari’ e la diversificazione delle capacità produttive. Nel caso di Paesi con analogo livello di sviluppo, o di imprese con capacità tecnologiche simili, tale dinami-ca può offrire un’equa ripartizione di costi e benefici; nel caso di asimmetrie nello sviluppo o di presenza di fallimenti di mercato (informazione imperfetta, potere di mercato ecc.) sono i soggetti più forti a ottenere maggiori vantaggi. Da questo punto di vista, le misure di liberalizzazione rappresentano l’opposto delle po-litiche industriali che puntano a sviluppare attività nuove, produzioni che attualmente sono di necessità relativamente poco efficienti, ma che potranno diventare efficienti domani se sostenute da apprendimento e investimenti.
Le politiche di liberalizzazione hanno caratterizzato profondamente l’integrazione europea dalla fine del 20° sec., con la creazione del ‘mercato unico’ e dell’Unione economica e monetaria. Tra le misure introdotte c’è l’eliminazione delle barriere non tariffarie interne all’Unione, l’introduzione di una politica antimonopolistica, la liberalizzazione di molti settori dei servizi, dai trasporti alla finanza, il divieto di sussidi pubblici alle imprese, le spinte alla privatizzazione delle imprese pubbliche; l’esigenza di offrire possibilità di sviluppo alle regioni più arretrate è stata affrontata con l’erogazione di ‘fondi strutturali’ di dubbia efficacia. L’Italia ha riprodotto tali liberalizzazioni sul mercato interno, eliminando i controlli sui prezzi e introducendo autorità antitrust e di regolamentazione in vari settori, riducendo le barriere amministrative all’attività economica in molti settori dei servizi, realizzando estesissime privatizzazioni di imprese pubbliche, comprese quelle attive nei monopoli naturali (autostrade, servizi pubblici locali).
Sul piano internazionale, l’inizio del 21° sec. è stato caratterizzato dai negoziati per la liberalizzazione del commercio promossi dalla WTO (World Trade Organization, istituita nel 1996); gli accordi raggiunti riducono o azzerano le tariffe doganali, vietano i sussidi all’esportazione (compresi quelli offerti dalle ‘zone franche’), le norme sulle quote minime di produzione nazionale e le restrizioni alle importazioni, limitando così in varie forme gli interventi pubblici a sostegno dei produttori nazionali. L’accordo TRIPs (Trade Related aspects of Intellectual Property rights) sui diritti di proprietà intellettuale rafforza notevolmente la protezione accordata agli innovatori (tipicamente grandi imprese dei Paesi avanzati) e riduce le possibilità di imitazione da parte dei Paesi in via di sviluppo, anche in campi di rilievo sociale come, per es., la produzione di farmaci. Norme analoghe, oppure addirittura più restrittive, di liberalizzazione e riduzione dell’intervento pubblico sono presenti in molti accordi commerciali bilaterali che Stati Uniti e Unione Europea stipulano con Paesi in via di sviluppo.
Con politiche di questo tipo, l’evoluzione della struttura produttiva diventa il risultato di decisioni delle imprese che perseguono interessi privati e riflettono le posizioni di efficienza produttiva e potere di mercato (in mercati, tuttavia, con profonde imperfezioni), con una prospettiva necessariamente di breve periodo. Tali decisioni non tengono conto delle prospettive per l’insieme dell’economia, che risultano fortemente influenzate dalla presenza di esternalità positive legate allo sviluppo di nuove (ma costose) tecnologie e di settori più avanzati (ma con profittabilità differita). Una politica di liberalizzazione dei mercati appare, di fatto, come una politica industriale che tende a consolidare le posizioni di forza esistenti e a indebolire le attività che affrontano competitori più forti, rendendo più difficile lo spostamento verso specializzazioni più qualificate.
All’inizio del 21° sec. i benefici promessi dalla liberalizzazione dei mercati, sia su scala nazionale sia nel commercio internazionale, si sono rivelati inferiori alle attese, come documenta la bassa crescita e lo scarso dinamismo industriale dell’Europa, il declino economico italiano, il fallimento dell’accordo WTO sul Millennium Round. Tuttavia, le istituzioni, le regole e le politiche di liberalizzazione introdotte continuano a condizionare le possibilità di realizzare – a scala europea e nazionale – politiche industriali appropriate al nuovo contesto del cambiamento tecnologico e della produzione internazionale.
Il futuro delle politiche industriali
Nel 21° sec. il cambiamento economico è caratterizzato da un’elevata incertezza sulle tecnologie, i prodotti, i mercati, la domanda, e da complesse reti di produzione internazionale. Le politiche industriali restano necessarie per favorire lo sviluppo di nuove attività con alto apprendimento, esternalità positive e produttività, e si devono fondare su una collaborazione strategica tra autorità pubbliche, imprese, soggetti sociali, in modo da migliorare le informazioni disponibili sulle opportunità produttive, da assicurare il coordinamento delle decisioni pubbliche e private sui nuovi investimenti, da accelerare la diffusione di conoscenze. Se in passato, con economie nazionali relativamente chiuse, lo Stato poteva individuare le priorità dello sviluppo, ora, con economie sempre più aperte, conta soprattutto il processo con cui si possono sperimentare nuove politiche industriali. Perché esse siano efficaci, sono necessarie – sulla base del dibattito attuale e delle recenti esperienze di successo in Asia – alcune condizioni istituzionali e la definizione delle politiche. Sul piano delle istituzioni, è necessaria un’elevata autonomia dello Stato rispetto agli interessi delle imprese, la presenza di istituzioni e agenzie pubbliche con competenze consolidate e comportamenti non collusivi, la definizione di obiettivi realistici. Nella realizzazione delle politiche, il sostegno concesso deve essere temporaneo, legato a buone prestazioni economiche e di esportazione, con criteri specifici per valutare i risultati delle misure introdotte, e la flessibilità di concentrare gli sforzi su attività e imprese con possibilità di affermazione. Anche nel 21° sec., molte esperienze di successo di imprese, settori e Paesi continueranno a essere legate ai risultati positivi di qualche forma di politica industriale.
Bibliografia
H.-J. Chang, The political economy of industrial policy, New York 1994.
La politica industriale. Teorie ed esperienze, a cura di A. Ninni, F. Silva, Roma-Bari 1997.
A.H. Amsden, The rise of ‘the rest’: challenges to the West from late-industrializing economies, New York-Oxford 2001.
S. Lall, Reinventing industrial strategy: the role of government policy in building industrial competitiveness, G-24 discussion paper 28, New York-Geneva 2004.
D. Rodrik, Industrial policy for the twenty-first century, KSG working paper RWP04-047, Cambridge (Mass.) 2004.