Le Paleoscienze. Le 'conoscenze scientifiche' dell'uomo di 25.000 anni fa
Le 'conoscenze scientifiche' dell'uomo di 25.000 anni fa
Le tendenze interpretative più recenti (Renfrew 1994) ipotizzano l'esistenza di meccanismi cognitivi sostanzialmente analoghi a quelli attuali, per lo meno dopo che l'uomo moderno si era pienamente affermato nel corso del Paleolitico Superiore, intorno a 20.000 anni fa. Se tale ipotesi è valida, si può ritenere che i modi di porsi in rapporto con il mondo naturale (a sua volta caratterizzato dal principio di uniformità che regola, sia pure in maniera diversa, i fenomeni fisico-chimici e biologici) possano avere alcuni punti in comune sia con quanto si è verificato in contesti successivi, sia tra diverse situazioni della preistoria. È vero pure che la comprensione di alcuni principî generali passa frequentemente da un settore di attività a un altro, pur cambiando i contesti di applicazione e le caratteristiche dei materiali utilizzati. È probabile che i gruppi umani privi di scrittura non avessero interesse per un'attività di conoscenza della realtà scissa da implicazioni dirette sul mondo pratico o simbolico più generale; in ogni caso l'unico modo per cercare di acquisire dati su questo aspetto, sia pure in modo indiretto, resta quello di passare attraverso l'analisi delle tracce dei loro comportamenti rimaste sul terreno. Il primo punto da porre in evidenza, riprendendo un concetto espresso in modo chiaro a suo tempo da Gordon Childe (Childe 1956), consiste nel rilevare che, se molti di questi comportamenti osservati dal vivo, anche quelli connessi con attività pratiche, ci potrebbero apparire strani e 'irrazionali', tuttavia per essere efficaci sul reale essi dovevano fondarsi su un adeguato livello di conoscenza dei fenomeni naturali. La razionalità infatti non è connessa allo scopo delle azioni compiute, che possono essere dettate da finalità di carattere sociale e ideologico, ma alla modalità con cui si raggiungono tali scopi, eseguendo una serie di operazioni consequenziali. È molto probabile che nei diversi contesti specifici, accanto ad acquisizioni che avevano una buona corrispondenza con la realtà, ve ne fossero altre totalmente erronee; queste però sono più difficili da cogliere, data l'inefficacia delle azioni che derivavano da esse, per cui non si può comprendere il nesso tra un determinato effetto riscontrabile dal punto di vista archeologico e i presupposti errati alla sua base.
A parte le difficoltà ora ricordate, affrontare in modo sintetico l'esame delle concezioni della realtà attraverso forme di 'scienza applicata' nelle società preistoriche, a partire dal Paleolitico Superiore (cioè da circa 37.000 anni fa), è complesso anche per la grande varietà di situazioni attestate a livello sincronico e diacronico. Si farà riferimento prevalentemente ai contesti culturali europei e delle aree adiacenti, come il Vicino Oriente, prima dell'adozione della scrittura.
Caccia, pesca e raccolta
Queste attività, svolte anche precedentemente (tranne forse la pesca) con modalità in parte differenti, caratterizzano il Paleolitico Superiore e il Mesolitico (cioè complessivamente il periodo circa tra 37.000 e 8000 anni fa), ma, sia pure con peso diverso nelle varie situazioni, continuano a essere praticate nelle fasi successive della preistoria e in tempi storici. Tali attività implicano un'ampia gamma di tipi di conoscenze, come il riconoscimento stesso delle diverse specie vegetali e animali, l'individuazione delle loro caratteristiche rilevanti per gli usi cui erano destinate e l'osservazione del loro comportamento. I primi due aspetti si collegano, costituendo quelle che a livello etnografico sono definite 'tassonomie folk': i modi di distinguere le diverse categorie di piante e di animali possono essere piuttosto diversi da ciò che consideriamo scientifico ed essere effettuati tenendo presenti elementi che non consideriamo importanti, e viceversa. L'idea stessa di riunire più categorie entro insiemi organizzati in modo gerarchico, per noi usuale dopo Linneo, non è detto che avesse senso in questo tipo di contesti culturali, dove presumibilmente la classificazione non aveva carattere sistematico, ma era costruita in relazione al valore pratico o simbolico assegnato a una determinata categoria di esseri viventi.
Lo sfruttamento a fini alimentari (per altri usi v. oltre) delle piante allo stato selvatico, su cui abbiamo in genere scarse informazioni dirette, coinvolgeva una serie di conoscenze non soltanto sulle caratteristiche per riconoscerle, ma anche sul potere nutritivo o sugli effetti tossici che esse potevano avere. Questo tipo di resti si trova raramente nei depositi archeologici e comunque non in uno spettro tale da restituirci un'idea delle conoscenze botaniche in un determinato contesto preistorico. Situazioni di particolare interesse da questo punto di vista sono costituite dai siti paleolitici scavati nell'area di Wadi Kubbaniya, a nord-ovest di Assuan, nell'Alto Egitto, databili tra 17.000 e 15.000 anni fa. A causa dell'elevata aridità si sono conservati molti resti di piante: oltre 20 specie vegetali furono raccolte a scopi alimentari, comprendendo soprattutto tuberi (prevalentemente Cyperus rotundus), ma anche semi di piante erbacee e frutti di piante arboree, come la palma. Per quel che riguarda i tuberi, è probabile che fosse stato notato che la raccolta con il bastone da scavo stimolava la crescita di esemplari giovani e che si avesse qualche forma di cura delle piante. Un altro contesto di grande rilevanza per cercare di rendersi conto del grado di conoscenza e di utilizzazione delle risorse alimentari vegetali spontanee è rappresentato dall'insediamento di Tell Abu Hureyra, in Siria. Nel X-IX millennio in questa località, come in altre situazioni simili del Vicino Oriente, si aveva un insediamento stabile nel corso dell'anno, senza forme di produzione del cibo. Erano utilizzate, e quindi riconosciute nelle loro caratteristiche, circa 160 specie selvatiche, tra cui diversi tipi di cereali e di leguminose; nei livelli neolitici, databili dalla seconda metà dell'VIII millennio, la coltivazione dei cereali e delle leguminose fece abbandonare quasi del tutto le attività di raccolta. Una situazione in una certa misura analoga è documentata per la grotta di Franchti, nel Peloponneso, caratterizzata da una grande varietà di semi e di frutti selvatici raccolti nei livelli mesolitici, in gran parte sostituiti da cereali e leguminose coltivati negli strati neolitici, qui databili dal VII millennio.
Situazioni eccezionali di conservazione in Europa si hanno soprattutto in rapporto con i siti umidi, che possono fornire importanti dati relativi alle piante selvatiche raccolte. Uno dei casi che offre una buona documentazione in questo senso è l'insediamento neolitico perilacustre di Sipplingen, nella Germania meridionale, dove, oltre a varie specie infestanti dei campi coltivati, sono attestate diverse decine di piante (tra cui ghiande e faggine per l'alimentazione umana o animale, nocciole, prugne, bacche di rosa, fragole, more e lamponi), anche acquatiche. Un quadro in parte simile, in rapporto con la differente situazione ambientale (presenza di fico e di vite selvatici), si ha per l'insediamento neolitico, ora sommerso, della Marmotta nel lago di Bracciano. L'affermazione dell'agricoltura nel Neolitico (tra il VII e il IV millennio) in gran parte dell'Europa probabilmente non fece diminuire la raccolta di vegetali selvatici ed è viceversa possibile che l'attenzione ai cicli riproduttivi delle specie coltivate sia stata in una certa misura estesa a quelle spontanee.
Tra i casi eccezionali di conservazione rientrano anche alcuni corpi mummificati per cause naturali, che possono offrire importanti testimonianze relative alle piante selvatiche considerate commestibili in determinati contesti culturali. Il rinvenimento dell'uomo del Similaun ci può dare un'idea su tale aspetto in ambiente alpino agli inizi del periodo caratterizzato dall'uso dei metalli, fenomeno che in quest'area si pone nella seconda metà del IV millennio. Diversi frutti selvatici erano conosciuti e consumati, corrispondenti in parte a quelli di Sipplingen (prugne, nocciole, bacche di rosa, fragole, lamponi, more, oltre a semi di chenopodiacee). Una gamma ancora più ampia di specie selvatiche è indicata dalle ricerche su alcuni corpi rinvenuti nelle torbiere danesi, ma non senza problemi d'interpretazione. In particolare, in rapporto con il cosiddetto 'uomo di Grauballe', riferibile all'Età del Ferro (tra il IX e il VI sec.), è stato possibile individuare 55 specie selvatiche consumate: l'ipotesi formulata in prima istanza, che diverse di queste fossero state inserite nell'ultimo pasto per motivi rituali, trattandosi di un sacrificio umano, è stata però smentita dalla constatazione che si tratta in gran parte di piante infestanti dei campi di cereali e in particolare di quelle specie con semi molto piccoli che erano eliminate con la setacciatura e che erano usate per l'alimentazione umana soltanto in caso di carestia. In questa seconda ipotesi, sia che il sacrificio sia stato compiuto per invocare un aiuto soprannaturale in una situazione di carenze alimentari, sia che si tratti di un pasto di pessima qualità destinato a un condannato a morte, non si avrebbe un'attestazione di piante riconosciute individualmente, ma percepite e utilizzate come insieme, presumibilmente in genere per l'alimentazione animale e in casi particolari per quella umana. Un'altra importante fonte di dati sullo spettro di piante selvatiche conosciute per le loro proprietà alimentari è costituita dai coproliti umani, vale a dire dagli escrementi umani fossili.
Per quel che riguarda la conoscenza del mondo animale, almeno in rapporto con la caccia ai mammiferi, su cui si dispone in genere di una maggiore quantità di dati forniti dai resti ossei, in alcune situazioni del Paleolitico Superiore è possibile ricostruire l'esistenza di forme selettive connesse con l'uccisione privilegiata sia di determinate specie (che implica comunque un'operazione di selezione), sia di individui di sesso ed età definiti (che indica la capacità di riconoscerli, presumibilmente a distanza, da alcune caratteristiche specifiche). Le raffigurazioni rupestri del Paleolitico Superiore (circa tra 37.000 e 10.000 anni fa) possono costituire una fonte di informazioni sull'elevata capacità di cogliere le caratteristiche essenziali di alcune specie di mammiferi: anche in questo caso si ha l'impressione non di una visione sistematica dell'intero mondo animale, ma di una forte selezione, che può essere stata legata a criteri diversi rispetto a quelli che ispiravano la caccia. Una profonda conoscenza degli aspetti etologici, almeno delle specie considerate rilevanti per quest'ultima attività, appare indispensabile per assicurarne il successo: per esempio, l'osservazione del comportamento gregario della renna può aver favorito lo sviluppo di forme di caccia specializzata in diversi contesti europei del medesimo periodo nell'Europa occidentale. Il diradamento della foresta per mezzo del fuoco in alcune aree dell'Europa settentrionale nel Mesolitico (circa tra 10.000 e 8000 anni fa) per favorire il pascolo dei principali animali cacciati, implica la conoscenza delle loro abitudini alimentari (oltre che degli effetti di un incendio sulle modificazioni della vegetazione). L'esistenza nel Paleolitico Superiore di siti temporanei che sembrano essere stati destinati in prima istanza all'osservazione del passaggio degli animali può costituire un indizio dell'importanza assegnata a questa attività. Della fine del Paleolitico e del Mesolitico (intorno al VII millennio), dopo il ritiro dei ghiacciai, in aree con forti dislivelli altimetrici, sono i campi posti a quote molto elevate, anche oltre 2000 m s.l.m., per lo sfruttamento di risorse stagionali: indicano la capacità di comprendere gli effetti sul comportamento degli animali delle mutate condizioni climatiche come base cognitiva per un nuovo tipo di adattamento. Nel Paleolitico Superiore (circa 37.000-10.000 anni fa) fu introdotto l'uso di attrezzature di lancio, come il propulsore e l'arco, che sfruttano principî diversi: la leva il primo, l'elasticità di alcuni tipi di legno il secondo. La loro utilizzazione incrementò la distanza, la precisione e la capacità di penetrazione degli elementi scagliati, ampliò lo spettro di risorse animali utilizzabili e al tempo stesso, probabilmente, favorì una più profonda conoscenza del comportamento degli animali nel momento in cui divenivano potenziali prede. La caccia a diverse specie di uccelli migratori, sviluppatasi notevolmente nel Mesolitico, può rientrare in questa tendenza, che implica un'accurata osservazione dei loro modi di vita e dei tempi degli spostamenti, a loro volta mutati per il variare delle condizioni ambientali alla fine dell'ultimo periodo glaciale. In alcuni casi sono documentati resti di esemplari giovani di Alca impennis, catturati, probabilmente in base alla constatazione delle fasi del loro ciclo vitale, al momento della muta, quando questi uccelli erano particolarmente indifesi.
La presenza di propoli nella sepoltura del Riparo Villabruna, nella valle alpina del Cismon, riferibile a un momento finale del Paleolitico Superiore (circa 10.000 anni fa), e la raccolta del miele, rappresentata nella ben nota pittura rupestre di Alpera, nella penisola iberica, probabilmente databile al Mesolitico, implicano una piena consapevolezza del comportamento delle api.
Per quel che riguarda la pesca, di particolare interesse sono quei casi che dimostrano una buona conoscenza del comportamento di alcune specie di pesci, caratterizzato dallo spostamento nel corso dell'anno di consistenti gruppi di individui. Si possono citare: i salmoni, già documentati in contesti del Paleolitico Superiore, e gli storioni, presenti in insediamenti neolitici della valle del Danubio, catturati nei periodi in cui risalgono i fiumi per deporre le uova; i tonni, attestati in siti neolitici del Mediterraneo; i merluzzi, pescati essenzialmente a partire dal Neolitico nella Scandinavia. Anche l'uso dell'amo, documentato almeno dal Mesolitico (intorno a 9000 anni fa), indica un'elevata conoscenza del comportamento delle diverse specie di pesci. La raccolta di vari tipi di molluschi, iniziata precedentemente, ma sviluppatasi in particolare nel Mesolitico ed effettuata soprattutto, ma non solo, per scopo alimentare, indica esperienza di diversi ambienti marini, lagunari e di acqua dolce. La potenzialità delle alghe per l'alimentazione umana o animale era nota almeno a partire dal Neolitico tardo (intorno a 5000 anni fa) in ambienti costieri dell'Europa settentrionale.
È probabile che si conoscessero alcuni metodi di conservazione della carne e del pesce in grado di impedire i processi di putrefazione, per esempio l'essiccazione o l'affumicatura. La prevalenza nel sito Mesolitico danese di Svaerdborg di ossa della testa di lucci fa pensare che qui avvenisse un processo di trattamento per conservare le parti più importanti dal punto di vista nutritivo, scartando le teste stesse.
Lo sfruttamento di risorse stagionali implica di per sé il riconoscimento di eventi ciclici nel corso dell'anno e per alcuni gruppi di cacciatori-raccoglitori preistorici ben documentati, come le comunità epipaleolitiche e mesolitiche di diverse aree europee e vicino-orientali, è possibile ricostruire una sorta di calendario di attuazione delle varie attività, integrando caccia, pesca e raccolta di più specie. Nell'ambito di un'ipotesi non facilmente verificabile, è stata proposta l'interpretazione di sequenze di tratti su oggetti di arte mobiliare (ma si hanno anche su pareti rocciose) del Paleolitico Superiore (circa 37.000-10.000 anni fa) come sistemi di annotazione temporale. Per la conduzione di attività di caccia e di raccolta su territori che si ritiene possano essere stati anche molto estesi, seguendo per esempio gli spostamenti stagionali delle specie più rilevanti per la caccia, come il cervo nel tardo Paleolitico Superiore nell'area mediterranea, erano necessarie inoltre nozioni connesse con l'orientamento, accanto a conoscenze sulla morfologia e sull'idrografia dei luoghi.
Agricoltura e allevamento
L'affermazione della produzione del cibo costituisce una delle trasformazioni più importanti per le conseguenze economiche e sociali che ha avuto; anche dal punto di vista della comprensione e del controllo dei diversi aspetti del mondo animale e vegetale che essa implica, sia nei suoi momenti iniziali sia nei suoi sviluppi, rappresenta un fenomeno di grande rilievo. Senza entrare nel problema del come e perché si sia arrivati alla coltivazione delle piante e all'addomesticamento degli animali, si può cercare di definire quali siano state le conoscenze di base necessarie per iniziare tali attività. Almeno per quel che riguarda il Vicino Oriente ‒ una delle aree di origine autonoma dell'agricoltura e dell'allevamento ‒ i primi sviluppi si verificarono nel contesto di forme intensive e selettive di raccolta dei cereali selvatici, che formavano comunità vegetali dense, e di caccia. È probabile che una situazione di elevata stabilità degli insediamenti abbia consentito tali sviluppi, da un lato favorendo la conoscenza approfondita delle variazioni stagionali dell'ambiente nel corso dell'anno, dall'altro creando lo stimolo alla costituzione di riserve alimentari, anche vive, nel caso degli animali. Alcuni procedimenti, quali la tostatura, cioè l'inserimento in pozzetti rivestiti di argilla di cereali già puliti o sotto forma di spighette, spighe, ecc., implicavano la conoscenza certamente non delle cause, ma comunque dell'andamento dei processi naturali di alterazione, in assenza di un intervento umano che li inibisse. Il principio dell'abrasione effettuata con un movimento alternato, insito nelle macine e già applicato a elementi vegetali spontanei dal Paleolitico Superiore, ebbe ampia diffusione. Per la coltivazione, il punto essenziale è costituito dall'osservazione del rapporto tra il seme e la pianta che a distanza di tempo può nascere da questo e dalla constatazione che tale rapporto non si spezza, entro certi limiti, portando i semi stessi al di fuori delle zone dove i cereali crescono spontaneamente. Per quel che riguarda gli animali, in particolare i caprovini, che probabilmente furono i primi a essere addomesticati a scopo alimentare (ancora discussi sono la cronologia delle prime attestazioni e il ruolo iniziale del cane, forma domestica del lupo), la conoscenza dei loro comportamenti, da quelli gregari a quelli connessi con la riproduzione, costituì la base per passare da forme di caccia controllata (effettuata risparmiando le femmine e gli individui giovani per evitare lo sterminio del branco e proteggendo questo da predatori) a situazioni in cui il branco era accompagnato e indirizzato nei suoi spostamenti.
La comprensione dell'adeguato ruolo dell'acqua e delle caratteristiche dei suoli più adatte per l'agricoltura, così come delle migliori risorse alimentari per gli animali domestici nelle diverse regioni e nei differenti momenti dell'anno, costituì la base per la piena affermazione delle tecniche agricole e di allevamento; consentì inoltre la loro diffusione in ambienti con caratteristiche completamente diverse rispetto a quelle delle zone in cui ebbero inizio, nonché l'adattamento a tali ambienti di piante e di animali (come gran parte dei cereali e i caprovini) che non esistevano allo stato selvatico in Europa. La capacità di selezionare i suoli più fertili e facili da lavorare con strumenti semplici, come, per esempio, quelli formatisi sui depositi di löss nell'Europa centrale, nelle prime fasi del Neolitico (intorno a 8000 anni fa), è stata da tempo posta in evidenza. Parallelamente si arrivò a una selezione delle specie vegetali e animali più vantaggiose in rapporto alla resa che potevano offrire e ai diversi contesti ecologici. Per esempio, per quel che riguarda i cereali furono riconosciuti i caratteri positivi di alcuni ibridi spontanei, come quello tra il Triticum dicoccoides (farro selvatico) e l'Aegilops squarrosa che diede origine al Triticum aestivum (grano da pane), o si arrivò a riconoscere quali specie, come l'orzo, la spelta, l'avena, la segale, fossero in grado di resistere ai climi freddi dell'Europa settentrionale. Nelle prime fasi del Neolitico, nell'Europa centrosettentrionale ci si rese conto che il modello vicino-orientale e mediterraneo, basato su una forte incidenza di caprovini, non era particolarmente adatto all'ambiente densamente forestato, dati il comportamento e il tipo di alimentazione di questi animali, a meno che non si effettuassero ampi disboscamenti, come avvenne in seguito; l'allevamento s'incentrò inizialmente sulle specie che vivevano localmente allo stato selvatico, come i suini e i bovini.
Lo sviluppo delle tecniche agricole e di allevamento si fondò tuttavia su ulteriori acquisizioni relative ai meccanismi riproduttivi delle piante e degli animali, oltre che sulla comprensione del principio per cui una maggiore integrazione della coltivazione e dell'allevamento stessi poteva avere effetti positivi. Per questi ultimi si possono ricordare le forme di selezione iniziate già nel corso del Neolitico; tale selezione implica la comprensione dei risultati che si potevano ottenere nel giro di alcune generazioni attraverso uno stretto controllo degli individui coinvolti nella riproduzione, in particolare di sesso maschile, che presentavano in forma accentuata elementi connessi con le caratteristiche che si cercava di sviluppare (v. oltre). Un esempio degli effetti della pressione selettiva umana può essere costituito dai bovini con il manto pezzato, non esistenti in Natura, rappresentati nelle pitture rupestri del Sahara, riferibili a questo periodo. I meccanismi riproduttivi operanti nelle piante sono diversi, ma anche in questo caso la consapevolezza degli effetti derivanti dall'uso per la semina di esemplari con specifiche caratteristiche contribuì allo sviluppo di specie coltivate con tratti sempre più lontani da quelli presenti allo stato naturale. L'uso della setacciatura, probabilmente attestata da reperti eccezionali come quelli attribuiti all'uomo di Grauballe, sopra ricordato, per l'Età del Ferro della Danimarca, ma anche da un setaccio proveniente dall'insediamento neolitico perilacustre di Egolzwil, in Svizzera, insieme alla pratica della semina d'interi campi con un'unica specie, fanno pensare a una maggiore consapevolezza dei tempi di crescita e degli ambienti più adatti per le diverse specie di cereali e di leguminose. Indizi in questo senso si hanno già per il VI millennio a Chevdar, nella penisola balcanica, dove farro, orzo e veccia costituivano raccolti provenienti da campi diversi (o dagli stessi campi ma in anni diversi: in questo caso si avrebbe una testimonianza molto antica di rotazione delle colture), come attestano le differenti piante infestanti che li accompagnano.
L'osservazione dei cicli vegetativi dei diversi tipi di piante contribuì all'ampliamento della gamma di specie coltivate: tra queste, le piante legnose presentano una particolare complessità, poiché, in genere, richiedono la previsione di un risultato sull'arco non più di pochi mesi, ma di alcuni anni. La vite, l'olivo e il fico furono coltivati a partire da un periodo da collocare probabilmente fra IV e III millennio nel Mediterraneo orientale; il melo più o meno nello stesso periodo nell'Europa centrosettentrionale. Inoltre, l'utilizzazione di tecniche come l'innesto implica una profonda comprensione dei meccanismi di crescita di questo tipo di piante che però, a livello archeologico, sono difficilmente individuabili.
Un altro elemento di collegamento non direttamente percepibile, ma di particolare rilievo per le attività agricole, è il rapporto tra i fattori riguardanti la fertilità del suolo e la resa dei raccolti. Resta ancora aperta la discussione sulle modalità di comprensione in Europa di tale nesso nelle fasi iniziali del Neolitico (intorno a 8000 anni fa). L'ipotesi tradizionale, ma sostenuta recentemente anche da Colin Renfrew, prevede che il modello prevalente in tali fasi fosse costituito da forme di coltivazione basate sul metodo del taglio e dell'incendio di una parte del bosco per conferire fertilità al terreno con le ceneri ottenute in questo modo. Contro tale ipotesi si schierano coloro i quali ritengono che i primi gruppi di agricoltori fossero molto selettivi nella ricerca di suoli in cui si verificavano processi di rigenerazione naturale della fertilità (esondazione di fiumi; apporti di humus per ruscellamento). L'introduzione delle tecniche di concimazione dei campi con residui vegetali, integrando coltivazione e allevamento del bestiame, come avvenne anche con l'uso dell'aratro, costituì l'esito di un'importante acquisizione (oltre all'apporto diretto o indiretto dell'agricoltura all'alimentazione animale). Forme di concimazione con letame furono probabilmente attuate soltanto in seguito, forse a partire da periodi avanzati del Neolitico, quando aumentò il numero degli animali tenuti in vita per ricavarne i prodotti secondari. Questi animali potevano essere lasciati al pascolo sui terreni durante le fasi di non coltivazione oppure, com'è attestato in alcuni contesti dell'Europa centrale, tenuti in stalle da cui il loro letame poteva essere asportato per cospargerlo sui campi. In realtà, l'effetto fertilizzante della concimazione non costituisce un principio astratto omogeneo, ma si traduce in varie conoscenze empiriche (per es., sul grado di umidità e sul tempo di fermentazione), volte alla comprensione del giusto tipo di concimazione per determinati terreni e climi. La capacità fertilizzante delle leguminose potrebbe essere stata già individuata nel VI millennio, se quanto affermato poco sopra a proposito di Chevdar costituisce effettivamente un'attestazione di rotazione delle colture. Anche la comprensione degli effetti dell'aratro (dissodare il terreno, limitare l'evaporazione, ridurre le erbe infestanti, consentire la semina), o meglio dei diversi tipi di strumenti agricoli convenzionalmente riuniti entro questo termine, in uso con funzioni diverse almeno dal IV millennio, si basa sull'osservazione dei rapporti tra piante, suoli e interventi umani.
Trasformazioni complesse di prodotti alimentari, che implicano conoscenze empiriche di chimica organica, si hanno con la produzione di bevande alcoliche, che si possono ottenere da semi, frutti, tuberi o dal miele. La presenza di idromele è stata individuata, per esempio, in un recipiente campaniforme del III millennio in Gran Bretagna, ma il suo uso, come quello di vari tipi di birra potrebbe essere precedente. Almeno al III millennio dovrebbe risalire anche l'uso del vino nel Vicino Oriente e nell'Egeo, ma, come si è accennato, la raccolta dell'uva selvatica comincia a essere diffusa dal VI millennio in Italia e non si può escludere la sua utilizzazione per ottenere una bevanda fermentata. Quanto ai derivati del latte, questi sono testimoniati dalla presenza di 'coperchi di bollitoio' in diversi contesti europei, utilizzati per non disperdere il latte nel caso di un'ebollizione troppo vivace, e da recipienti probabilmente destinati alla lavorazione del burro in aree vicino-orientali, tra V e IV millennio. La produzione di bevande alcoliche rivela un certo grado di consapevolezza dei processi di fermentazione degli elementi ricchi di zuccheri; non meno semplice è la comprensione dell'effetto del caglio, estratto dallo stomaco di caprovini in corso di allattamento, per ottenere formaggi dal latte.
Materiali di origine organica
La possibilità di utilizzare un'ampia varietà di prodotti derivati dalle piante e dagli animali, la cui conservazione in contesti archeologici è comunque rara, a eccezione dell'osso e del corno, si basa sulla comprensione delle caratteristiche che questi hanno, in relazione a diverse esigenze, e dei principî che rendono efficace l'intervento umano per trasformarli. è da osservare che per lavorare parti di piante erano usate tecniche analoghe a quelle che stiamo per descrivere relativamente a parti di animali. L'utilizzazione di osso e di corno per realizzare oggetti di una certa complessità si afferma a partire dal Paleolitico Superiore, selezionando le parti scheletriche e le specie animali più adatte. Questi materiali differiscono dalle rocce prevalentemente lavorate per scheggiatura, come la selce, e possono essere più vicini al legno e in parte ad alcune pietre lavorate per levigazione, nei tratti che ne favoriscono la produzione e l'uso. Per esempio, la guaina esterna di parti di animali poteva essere rimossa agevolmente con uno strumento di pietra finché l'osso era fresco. La conoscenza degli assi preferenziali di frattura consentiva l'uso di cunei per spaccare l'osso; il basso grado di durezza rendeva possibile l'uso di strumenti di pietra, come i bulini (per praticare incisioni profonde); l'abrasione (che sfrutta in modo differente il diverso grado di durezza dei materiali) della superficie poteva essere realizzata con sabbia o rocce a grana grossa. Il principio alla base dell'abrasione poteva essere utilizzato anche per produrre fori, con elementi vegetali uniti a sabbia o con elementi litici, la cui velocità di rotazione poteva essere incrementata con il trapano a cordicella. La maggiore flessibilità di forme che si potevano realizzare con utensili d'osso e di corno, rispetto a quelli di pietra scheggiata (unita alla possibilità di praticare fori messa in atto in alcuni casi), rendeva tali utensili adatti per ottenere soprattutto punte di zagaglia, arpioni, oggetti per ornamento. Un uso particolare che sfrutta la proprietà elastica del corno, sviluppatosi almeno dal Mesolitico (cioè all'incirca da 10.000 anni fa), è costituito dalla realizzazione di manicotti inseriti tra l'impugnatura di legno e la lama dell'ascia di pietra per attutire il contraccolpo. I criteri alla base della lavorazione e dell'utilizzazione dell'osso e del corno non cambiarono molto nelle fasi successive della preistoria, almeno fino alla piena affermazione della metallurgia, anche se mutò in parte il tipo di oggetti prodotti, dagli ami ai morsi per i cavalli. L'introduzione della sega di metallo, attestata, per esempio, nell'Egeo nel III millennio, in cui l'abrasione è resa molto più efficiente in quanto è unita al movimento di taglio longitudinale, comportò, insieme all'uso di altri strumenti in metallo, lo sviluppo di lavorazioni dell'osso e del corno molto elaborate nell'Età del Bronzo e del Ferro (III-I millennio).
Numerose altre materie prime si possono ottenere dagli animali. La più importate è costituita dalla pelle, che di fatto fornisce vari tipi di materiali in rapporto ai diversi animali; si può ipotizzare che il primo uso sia stato rappresentato, a partire almeno dal Paleolitico Superiore, da pellicce non conciate, eventualmente cucite. L'operazione più complessa è rappresentata dalla concia della pelle, effettuata per evitare la putrefazione e renderla sufficientemente morbida. Se l'asportazione del grasso superfluo e dei residui di carne avveniva attraverso un'azione meccanica, come indicano le tracce d'uso su alcuni tipi di strumenti di pietra (successivamente sostituiti da quelli di metallo), la concia era connessa con l'azione di agenti chimici e fisici. Tra i procedimenti più semplici si possono ricordare l'affumicatura e l'uso di grassi estratti da animali come i mammiferi terrestri, i pesci o i cetacei che si arenavano sulle coste; in altri metodi si usavano componenti vegetali o minerali. È difficile definire quali fossero le tecniche utilizzate nei diversi contesti, ma resta il fattore dato dall'esistenza di una necessità ampiamente diffusa e della comprensione empirica di alcuni elementi in grado di provocare le trasformazioni desiderate.
La conoscenza dell'anatomia degli animali consentiva l'utilizzazione di altre parti, oltre alla pelle e alle ossa, a fini anche non alimentari, come il grasso per l'illuminazione e per i processi di concia appena ricordati, e i tendini, di cui venne riconosciuta la resistenza nell'utilizzazione come fili. Da alcuni tipi di uccelli si ricavavano le penne; oltre ai possibili usi ornamentali e simbolici, esse erano usate per la realizzazione delle punte delle frecce e questo fa pensare a una certa consapevolezza dell'effetto che le penne, opportunamente foggiate e inserite, possono avere sulla stabilizzazione della traiettoria di una freccia. Questa utilizzazione è stata ipotizzata per alcuni siti mesolitici in cui si sono rinvenute diverse ossa di aquile, le cui penne tradizionalmente erano adibite a questo scopo; la documentazione diretta di frecce impennate, e quindi della conoscenza implicita del principio balistico alla base di tale uso, si ha ancora una volta dai reperti connessi con l'uomo del Similaun.
Un prodotto non alimentare di origine animale di notevole importanza è costituito dalla lana. Nelle pecore allo stato selvatico il vello è estremamente ridotto; la sua utilizzazione comincia soltanto verso la fine del Neolitico (IV millennio) in Europa, in seguito all'introduzione di tecniche selettive di allevamento, forse sviluppatesi nel Vicino Oriente. La constatazione dell'elevata capacità di aderenza di questo tipo di fibra è all'origine di quello che s'ipotizza essere stato il primo uso (attestato archeologicamente soltanto intorno al 1800 a.C. da una sepoltura rinvenuta in Germania) per ottenere una sorta di feltro, prima di essere utilizzata per la filatura e la tessitura. L'uso della lana come fibra tessile, presente nel Vicino Oriente dal IV millennio, sembrerebbe essere documentato dalla seconda metà di questo millennio da una parte dei fili utilizzati per cucire gli abiti di pelle dell'uomo del Similaun.
La conoscenza di diversi tipi di conchiglie comportò anche l'uso di alcune di queste come materia prima per la realizzazione di oggetti per ornamento: i più noti sono i braccialetti di Spondylus gaederopus, una conchiglia mediterranea, rinvenuti anche nell'Europa centrale tra il Neolitico e l'Età del Rame (IV-III millennio), per quanto questa conchiglia fosse oggetto di scambio già dal Paleolitico Superiore (circa 37.000-10.000 anni fa). La comprensione del possibile uso dei murici per ottenere un colorante, la porpora, con un elaborato processo di estrazione, risale alla prima metà del II millennio nell'Egeo (Creta) e nel Mediterraneo centrale (Coppa Nevigata, presso Manfredonia).
Per quel che riguarda il legno, il primo dato che si ricava, soprattutto dai contesti in cui esso si è conservato in condizioni anaerobiche, è quello relativo alle forme di selezione operate in rapporto alle caratteristiche specifiche. Ampia disponibilità nella maggior parte degli ambienti, elasticità, resistenza, possibilità di dare un'ampia gamma di conformazioni a oggetti di dimensioni anche molto variabili, peso specifico minore di quello dell'acqua, sono tra le qualità complessivamente apprezzate per realizzare manufatti con questo materiale. Per esempio, per costruire le canoe, attestate almeno dal Mesolitico (circa 10.000-8000 anni fa), era utilizzata in genere la quercia, ma anche l'ontano, l'abete, l'olmo e il pioppo. Di quercia è costruita anche l'imbarcazione dell'Età del Bronzo rinvenuta recentemente a Dover, in Inghilterra, costituita da più tavole. Invece per la coeva imbarcazione mediterranea, rinvenuta a Ulu Burun, a sud della costa turca, è stato utilizzato il legno di una conifera. Quercia e, in misura minore, betulla e ontano furono impiegati per i cosiddetti 'sentieri di legno' (cioè piste per trasportare materiali mediante apposite slitte) inglesi, olandesi e tedeschi a partire dal Neolitico (6000-3500 a.C.). Nel Mesolitico della Scandinavia l'olmo e in seguito, con l'aumento della temperatura, il tasso, furono usati per gli archi, il pino per le frecce, il nocciolo per le lance. Nelle trappole della tarda Età del Bronzo dell'Europa settentrionale, cioè intorno al 1000 a.C., si utilizzavano tipi di legno diversi per l'intelaiatura (rovere, betulla) e per la molla (nocciolo, salice, faggio). Anche l'insieme degli oggetti di legno dell'uomo del Similaun, risalente agli inizi dell'Età del Rame (in Italia, intorno al 3500 a.C.), fornisce utili indicazioni in questo senso: per l'arco e il manico dell'ascia fu utilizzato il tasso, per le asticelle delle frecce il viburno (una sembra aver subito una riparazione con una parte di corniolo), per il manico del pugnale il frassino, per il manico del ritoccatoio il tiglio, per l'intelaiatura della faretra e dello zaino il nocciolo e il larice. La conoscenza delle caratteristiche del legno in genere (oltre a quelle più specifiche sulle qualità dei diversi tipi di legno) era alla base delle tecniche di lavorazione. Come si è accennato per l'osso e per il corno, con le dovute differenze, lo sfruttamento delle venature per mezzo di cunei, il distacco di schegge, il taglio, l'abrasione (anche combinata con il taglio nel caso della sega), l'incisione, la perforazione, oltre all'uso dell'impatto violento di diversi tipi di ascia, sono le operazioni connesse con tali caratteristiche.
L'uso del legno come combustibile si collega con l'inizio dell'uso del fuoco, e presumibilmente molto antica è la comprensione della capacità di mantenere a lungo il calore del carbone che si produce in un focolare, se adeguatamente protetto, evitando la frequente accensione del fuoco. La conoscenza di tale principio è direttamente documentata dall'uomo del Similaun, che portava con sé, a oltre 3300 m di altitudine, in un recipiente di corteccia di betulla con un involucro di foglie verdi di acero, carboni derivanti da diversi tipi di alberi, alcuni dei quali, come l'acero stesso, non crescono a un'altitudine superiore a 1500 m s.l.m. La piena comprensione delle potenzialità dei diversi tipi di carbone di legna in termini di resa calorica a unità di peso, si ebbe probabilmente in concomitanza con lo sviluppo della metallurgia.
Dalle piante si ricavavano numerosi altri prodotti, oltre al legno e a quelli destinati all'alimentazione umana e animale, che implicavano una stretta correlazione tra la conoscenza delle caratteristiche specifiche e l'uso cui potevano essere destinati. Fra tali prodotti si possono ricordare in primo luogo gli oli, estratti dal lino e dalle olive con una capacità intuitiva che va al di là della diretta percezione di questi elementi vegetali, in una prima fase forse prevalentemente destinati a usi non alimentari. Occorre citare per la loro capacità adesiva, oltre che impermeabilizzante, le resine di alcuni alberi: per esempio, il fissaggio di elementi di pietra, di osso o di metallo al manico di un utensile, oppure di diverse parti di legno, poteva essere rinforzato in questo modo. È difficile stabilire quale sia stato il significato, ornamentale o anche magico attribuito a una resina fossile come l'ambra, ma si può dire che questa fu riconosciuta e le sue caratteristiche di lavorabilità furono comprese almeno dal Mesolitico (8000-6000 a.C.) nella principale zona di estrazione, costituita dall'area del Baltico. Da alcune piante, come il sambuco l'ebbio e la robbia peregrina, furono probabilmente estratti coloranti: in particolare in diversi siti neolitici perilacustri sono state rinvenute bacche di sambuco. Molte piante, di cui è difficile avere una documentazione, erano presumibilmente raccolte per finalità magico-curative: a questo scopo fu probabilmente coltivato il papavero da oppio, già dalle prime fasi del Neolitico.
Di particolare rilievo sembra essere stata anche la comprensione delle qualità specifiche della corteccia di alcuni alberi (soprattutto la betulla, il tiglio e il pino) e la possibilità di lavorarla con tecniche in parte simili a quelle usate per le pelli, per esempio utilizzando le cuciture. La capacità isolante e impermeabilizzante della paglia o di altri steli di piante, sfruttata per realizzare sia coperture o pareti di strutture sia capi di abbigliamento, fu compresa verosimilmente in età molto antica, ma sono difficili da datare le sue prime applicazioni; le impronte di incannucciata su rivestimenti di argilla sono ben documentate dal Neolitico, e di un mantello di steli di graminacee si serviva l'uomo del Similaun. Alla base degli intrecci di fibre vegetali vi sono caratteristiche come la flessibilità, il bilanciamento delle forze esercitate dalle diverse parti, la resistenza alla trazione, utilizzate in modi diversi nelle varie categorie di manufatti e in funzione delle differenti materie prime, di cui devono essere ben note le qualità e, nel caso di piante selvatiche, anche i tempi e i luoghi di crescita. L'avvolgimento a spirale nel senso della lunghezza di più fibre vegetali ruvide e non elastiche mediante torsione permette di ottenere corde lunghe e robuste. In una rete da pesca il suo peso stesso (talora con l'ausilio di galleggianti e pesi aggiunti) distende i fili incrociati o annodati; in una stuoia l'intreccio delle fibre fa sì che non si allontanino tra loro; in alcuni tipi di trappole per pesci e di panieri di vimini la tendenza delle fibre a riprendere la forma originaria è impedita dalla loro disposizione alternata, interna/esterna, rispetto alle asticelle dell'intelaiatura. Queste categorie di manufatti sono documentati dal Mesolitico in Europa o da fasi antiche del Neolitico nel Vicino Oriente, indicativamente contemporanei tra loro, e almeno alcune risalgono al Paleolitico Superiore (35.000-8000 a.C.), come la corda fossilizzata rinvenuta a Lascaux.
La filatura e la tessitura, iniziate probabilmente con l'uso di fibre vegetali come il lino (tessuti di questa fibra sono attestati in Palestina e in Anatolia almeno da 10.000 anni fa), e poi estese a fibre di origine animale, come la lana, costituiscono l'applicazione di alcuni dei principî sopra citati. La filatura è basata sulla torsione delle fibre; l'uso della fusaiola come volano per regolarizzare e prolungare il movimento rotatorio sembra essere stato piuttosto precoce; la tessitura è basata sull'intreccio dei fili, anche se si possono avere numerosi modi diversi di realizzazione. Un aspetto assai complesso è legato alla preparazione delle fibre vegetali destinate alla filatura, che implicano diversi tipi di conoscenze empiriche sulla struttura delle piante utilizzate e sui loro processi di alterazione. Prendendo in considerazione come esempio il lino, si può porre in evidenza in particolare la fase di estrazione delle fibre dai gambi, per la quale non soltanto è necessaria l'osservazione di base che questa parte interna ha caratteristiche tali da consentirne la filatura (accresciute con la cardatura), ma anche la constatazione che l'immersione in acqua provoca il distacco (per l'azione di specifici batteri) dalla parte legnosa. Dal libro, tessuto conduttore della linfa posto sotto la corteccia, estratto dal salice, dal tiglio e dalla quercia, si ricavarono attraverso un processo di macerazione fibre ampiamente utilizzate durante il Neolitico (in Italia, circa 6000-3500) per intrecci e tessuti.
Un elemento a sé stante è costituito dai funghi; oltre a usi alimentari e allucinogeni, su cui manca la documentazione, vi sono indizi di utilizzazione del Fomes fomentarius come esca per accendere il fuoco forse già dal Paleolitico Medio (circa 252.000-37.000 anni fa); probabilmente come medicamento per le ferite era usato il Piptoporus betulinus rinvenuto con l'uomo del Similaun.
Materiali non organici
La ricerca e l'estrazione dei diversi tipi di materie prime non organiche implicano, ai fini della loro individuazione negli ambienti naturali, articolate conoscenze delle caratteristiche macroscopiche prima della lavorazione (spesso del tutto diverse da quelle che assumono i prodotti finiti), della conformazione delle zone in cui possono essere reperite e degli effetti che i processi di trasformazione comportano per ottenere i manufatti.
Se le rocce che si sfaldano secondo piani concoidi, come la selce, hanno una lunga storia di utilizzazione, la realizzazione di 'miniere' inizia nel Paleolitico Superiore, intorno a 37.000 anni fa. Questa forma di esplorazione del sottosuolo, applicata alla ricerca di una varietà di materie prime, che vanno, oltre alla selce, dai coloranti (limonite ed ematite) ai minerali da cui si estraevano i diversi tipi di metalli sfruttati nella preistoria recente, implica un'ulteriore serie di conoscenze: la comprensione del grado di coesione della roccia in cui si deve condurre lo scavo e della resistenza dei puntelli in legno, nelle situazioni in cui questi sono messi in opera; gli effetti dello shock termico, utilizzando il fuoco e il raffreddamento repentino con acqua per frantumare la roccia stessa; il principio della leva per distaccare blocchi dalla parete, testimoniato dai numerosi picconi ricavati da corna di cervo che si rinvengono in gran numero nelle miniere di selce dell'Europa centrosettentrionale; in ultimo le esigenze del corpo umano in un ambiente artificiale, connesse, per esempio alla realizzazione di pozzi di aerazione.
Il riconoscimento delle caratteristiche e l'uso di diversi tipi di rocce adatte a essere lavorate per martellatura o con l'ausilio di sostanze abrasive (compresa la perforazione), che implicano la consapevolezza del rapporto di durezza tra i diversi tipi di materiali che entrano in relazione (anelloni, macine, ornamenti, figurine, ecc.), iniziano almeno dal Paleolitico Superiore, cioè almeno da circa 40.000 anni fa. Nelle fasi successive si ampliano notevolmente la quantità di manufatti realizzati applicando questi principî, il numero di materie prime utilizzate, i tipi di manufatti prodotti, tra cui l'ascia è il più diffuso: l'abrasione è applicata anche a oggetti di selce, come asce e pugnali, lavorati nella prima fase per scheggiatura.
Il processo di allargamento delle conoscenze relative alle rocce che si possono lavorare per martellatura e anche con l'esposizione a fonti di calore, è forse alla base dell'individuazione di un certo grado di malleabilità che contraddistingue alcuni metalli allo stato nativo, come il rame e l'oro. Le caratteristiche fondamentali del rame nativo appaiono essere pienamente comprese, così da ricavarne manufatti, come possiamo osservare in Anatolia almeno dall'VIII millennio. L'insorgenza di una metallurgia complessa sembra avere luogo nella stessa regione nel VII-VI millennio. Il presupposto conoscitivo di base è costituito dalla comprensione del fatto che da minerali con aspetto fisico molto diverso da quello del rame nativo, come la malachite o l'azzurrite (più in generale ossidi e carbonati di rame), si può ottenere tale metallo con un procedimento che comporta l'uso di temperature elevate, senza necessariamente raggiungere quella di fusione del rame stesso, e il controllo della circolazione dell'aria. È possibile che una serie di sperimentazioni sull'effetto del calore e sugli effetti del controllo dei flussi di aria si sia svolta in parallelo con lo sviluppo della produzione della ceramica. Alle conoscenze sulle caratteristiche specifiche di minerali diversi tra loro, ma da cui si può ricavare la medesima materia prima, e sulle zone in cui essi si trovano, si uniscono quindi quelle sugli effetti di profonda trasformazione che il forte riscaldamento, applicato per un certo periodo di tempo in presenza di un agente riducente, come il carbone di legna, può indurre. La scoperta del cambiamento di stato fisico del rame, da solido a fluido, che la temperatura elevata può provocare, e il ritorno allo stato solido con il raffreddamento, costituisce l'altro punto fondamentale che consente il pieno sviluppo della metallurgia, sfruttando la possibilità di colare il metallo fuso in matrici realizzate con materiali che resistono a temperature elevate. Si comprese inoltre che la gamma di minerali da cui il rame poteva essere estratto, sia pure utilizzando temperature più elevate rispetto agli ossidi e ai carbonati di rame, era più vasta e che alcuni di questi minerali potevano dare luogo a un tipo di metallo che fondeva a una temperatura più bassa, dal quale si ottenevano oggetti più resistenti e con un aspetto differente. In particolare, i minerali di rame ricchi di arsenico furono riconosciuti per questi effetti almeno dal IV millennio e furono forse aggiunti intenzionalmente ad altri tipi di minerali di rame nella fase di estrazione del metallo da questi ultimi. L'aggiunta di determinati materiali durante la fusione serviva sia per favorire questa fase della lavorazione, sia per ottenere vere e proprie leghe (basti pensare al bronzo, in cui lo stagno è legato con il rame per renderlo più resistente). L'azione d'indurimento operata dalla martellatura (in particolare nel caso di manufatti di bronzo) e la necessità di un trattamento termico preventivo ('arrostimento') per rendere utilizzabili i minerali di rame ricchi di zolfo, ampiamente diffusi, furono comprese probabilmente entro il III millennio.
Alle conoscenze riguardanti l'individuazione, il reperimento e la lavorazione dei minerali di rame si aggiungono quelle relative allo sfruttamento di altri tipi di metalli, come l'argento e il piombo; si hanno indizi dell'estrazione di quest'ultimo metallo dal minerale nel VII millennio per l'altopiano iranico. La comprensione delle caratteristiche del ferro (tra cui in particolare l'impossibilità di fonderlo con i mezzi tecnici a disposizione, che non consentivano di raggiungere la necessaria temperatura di oltre 1500 °C), la conoscenza dei minerali da cui poteva essere estratto il ferro stesso e soprattutto la scoperta che la martellatura ad alta temperatura a contatto con il carbone influiva sulla durezza dei manufatti, determinarono lo sviluppo della metallurgia del ferro a partire dalla seconda metà del II millennio.
La scoperta che lo stato dell'argilla sottoposta a una temperatura elevata si modifica in modo non reversibile, dando luogo a materiali artificiali, la terracotta e la ceramica, è difficile da datare, ma fu sfruttata almeno a partire dal Paleolitico Superiore per realizzare figurine fittili, che univano alla plasticità dell'argilla umida, nella fase di realizzazione, la solidità di quella cotta. Una più ampia utilizzazione dei caratteri della terracotta si verificò in fasi successive, a partire dal Neolitico (cioè circa dal VI millennio), in rapporto a situazioni di maggiore sedentarietà da parte delle popolazioni. Per ottenere contenitori, destinati soprattutto alla conservazione, alla cottura e al consumo degli alimenti, si tenne conto in modo particolare della sostanziale impermeabilità (a parte fenomeni di trasudamento) e della resistenza al calore. Nel momento in cui si affermò la piena consapevolezza delle potenzialità della ceramica come nuovo materiale utilizzabile, con caratteristiche complessive che non si ritrovano in materie prime naturali (per es., i diversi tipi di pietra e di legno con cui si possono realizzare vasi non hanno la plasticità della ceramica, che consente soluzioni molto diversificate, e possono essere usati per cuocere i cibi soltanto con particolari accorgimenti), si sviluppò anche la ricerca dei fattori che potevano avere effetti positivi nelle diverse fasi della lavorazione o nell'uso del vasellame ceramico. A questo proposito, il primo punto è costituito dall'individuazione dei luoghi da cui estrarre l'argilla, che nelle diverse situazioni poteva essere più o meno selettiva in base ai risultati da ottenere. Un altro aspetto è quello delle sostanze, cosiddette 'smagranti', da immettere nell'impasto per ridurne il tenore di argilla e, in conseguenza, per impedire fratture durante i processi di essiccamento e di cottura, ma che possono fornire reazioni diverse anche in rapporto a usi differenziati (valutazione degli effetti di elementi vegetali come la paglia, di origine organica come le conchiglie, di minerali di diverso genere, di frammenti di ceramica triturati). Al di là dei fatti estetici, anche le modalità di trattamento della superficie (per es., la brunitura può ridurre il grado di permeabilità) e di cottura (temperatura raggiunta e sua applicazione in modo più o meno costante; circolazione dell'aria) incidono sulla connotazione fisica dei prodotti finiti e i principî alla base sembrano essere stati empiricamente compresi e consapevolmente applicati. Nell'ambito della foggiatura dei vasi, le due forze da mettere in equilibrio sono costituite dalla coesione dell'argilla umida e dalla gravità. Il tornio, adottato stabilmente nel Vicino Oriente dal IV millennio, è basato sul principio che la spinta impressa dal movimento rotatorio, combinata con la pressione della mano dell'artigiano sulla massa plastica dell'argilla, provoca un movimento verso l'alto dell'argilla stessa.
La comprensione degli effetti dell'applicazione di temperature elevate a materiali calcarei avvenne probabilmente in un più ampio contesto di sperimentazione che si sviluppò in diverse zone del Vicino Oriente nelle fasi di affermazione dell'economia produttiva. Il principio per cui tali materiali, quando sono fortemente riscaldati danno origine ad alcuni prodotti artificiali (calce e simili) che, una volta idratati, plasmati e successivamente essiccati, formano una massa solida, fu utilizzato a partire almeno dall'VIII-VII millennio, per ottenere statuette (come quelle, alte diverse decine di centimetri, con intelaiatura di fibre vegetali, di Ain Gazal, in Giordania), contenitori (come a El Kowm e a Ramad, in Siria) e rivestimenti di edifici (si può ricordare tra gli altri il caso di Catal Hüyük, in Anatolia).
Un altro materiale artificiale prodotto applicando empiricamente principî chimici e fisici è costituito dal vetro e dai rivestimenti vetrosi; questi ultimi sembrano avere la prima attestazione in Egitto almeno dal IV millennio. È possibile che si sia arrivati indipendentemente alla medesima scoperta in più aree lontane tra loro, come, per esempio, potrebbe essere avvenuto in Gran Bretagna agli inizi del II millennio, ma non si può escludere che le informazioni sulle materie prime da impiegare e i procedimenti da adottare abbiano circolato in modo ampio. I materiali utilizzati, costituiti da silicati, hanno temperature di fusione molto alte, oltre 1700 °C e soltanto l'utilizzazione di componenti a base di sodio o di potassio consente di ridurre tale temperatura intorno a 850 °C; l'aggiunta di altri elementi può migliorare la qualità del prodotto ottenuto e modificare il colore. È probabile che le sperimentazioni condotte sottoponendo ad alte temperature diversi tipi di materiali e unendoli insieme rientrino nell'ambito più generale in cui erano condotti i tentativi di estrazione dei metalli dai vari minerali e dai composti di alligazione.
La realizzazione di strutture edili, abitative e non, pone l'esigenza di risolvere una serie di problemi tecnici connessi con le loro stabilità e resistenza; a monte di tali soluzioni c'è la comprensione empirica di alcuni principî generali legati alle caratteristiche dei materiali utilizzati e alle fondamentali forze fisiche che entrano in gioco in manufatti di una certa dimensione, connesse con il peso stesso delle parti che compongono la struttura, con il peso degli uomini e degli arredi nel caso di solai e, infine, con l'azione degli agenti atmosferici (vento, pioggia, neve). Nei tempi ai quali ci si riferisce si doveva ancora comprendere la compressione degli elementi verticali portanti, la flessione degli elementi orizzontali od obliqui, la stabilità degli elementi verticali, anche in rapporto con le spinte esercitate dagli elementi orizzontali od obliqui e con la solidità del terreno sottostante. Ai problemi legati alla struttura portante si aggiungevano quelli relativi all'impermeabilizzazione della copertura e delle pareti, al deflusso delle acque meteoriche, alla fuoriuscita del fumo, ecc., che implicavano un'adeguata osservazione dei fenomeni naturali coinvolti, delle caratteristiche dei materiali utilizzati e degli effetti che le soluzioni adottate potevano avere. Se nei ripari documentati per l'Europa occidentale durante il Paleolitico Superiore, di piccole dimensioni e realizzati probabilmente con pali portanti obliqui e pelli cucite, i problemi statici erano scarsi e i materiali costruttivi non erano utilizzati al limite della loro resistenza, sembra che problemi più complessi dovessero essere affrontati invece in rapporto alle strutture coeve dell'Europa orientale, molto ampie (da 5 a 10 m di diametro), con elementi portanti costituiti da zanne e ossa di mammut.
Nuovi materiali costruttivi, connessi anche con le specificità climatiche delle zone aride, cominciarono a essere usati nel Vicino Oriente tra l'Epipaleolitico e gli inizi del Neolitico (X-IX millennio), quando, con lo sviluppo di forme di raccolta intensiva prima e di coltivazione poi, gli insediamenti assunsero un deciso carattere sedentario. L'argilla pressata e i mattoni crudi a forma di pani furono usati inizialmente per rivestire le pareti di strutture seminterrate con elementi verticali di legno e probabile copertura piana, mentre, a partire almeno dal IX millennio, fu usato pietrame a secco non soltanto per costruire muretti autoportanti (almeno fino a una certa altezza), ma anche la ben nota 'torre' di Gerico, alta oltre 8 m, con scala interna. La costruzione di una torre di questo genere implica la comprensione e la risoluzione di rilevanti problemi statici, come il rischio di collasso a causa dell'espulsione delle pietre della parte basale per l'eccessivo peso della parte superiore del manufatto.
Per quel che riguarda lo sviluppo delle strutture abitative, le tendenze nel Vicino Oriente andavano verso il prevalere della pianta organizzata per le cellule quadrangolari, le pareti portanti di mattoni crudi, le coperture a terrazzo. Si ritiene che queste ultime fossero praticabili (nel caso del sito anatolico di Catal Hüyük si è ipotizzato l'accesso dal tetto): la compressione delle pareti nei punti di inserimento delle travi orizzontali e la flessione di queste ultime erano quindi incrementate da questa circostanza.
Nella maggior parte del continente europeo, a partire dal Neolitico (cioè, in Italia, circa dal 6000 a.C.) le abitazioni erano realizzate con elementi strutturali di legno, sia per le pareti verticali, sia per il tetto (a doppio spiovente). In alcuni casi si tratta di edifici di dimensioni piuttosto grandi, in cui le valutazioni sulla sezione e sulle caratteristiche di resistenza del tipo di legno utilizzato dovevano avere una grande importanza per assicurare la solidità della struttura; oltre alle sollecitazioni connesse con la flessione delle travi del tetto e la compressione dei pali portanti, dovevano essere tenute presenti quelle legate alle spinte del tetto sulla rotazione dei montanti verticali, che poteva essere impedita con l'inserimento dei pali a una profondità adeguata. Un caso specifico di un certo interesse nell'ambito degli edifici con elementi portanti lignei è costituito dagli insediamenti perilacustri che, a partire dal VI-V millennio, si svilupparono in diverse zone dell'Europa centrale e dell'Italia centrosettentrionale. Sembra trattarsi spesso di 'bonifiche' lungo la sponda, volte a consolidare il terreno fangoso per impostare bene le strutture; in alcuni casi, però, si hanno veri e propri impalcati aerei, al di sopra dell'acqua. In queste situazioni i pali verticali dovevano sopportare non soltanto il peso della copertura, ma anche quello del piano di calpestio e di quanto su di esso poggiava; il problema principale era probabilmente costituito da un'adeguata valutazione della solidità del fondo melmoso del lago.
Situazioni particolarmente complesse dal punto di vista sia costruttivo sia statico, rispetto a quelle documentate dalle abitazioni, si hanno nelle strutture documentate a partire dal V millennio, che tradizionalmente vanno sotto la denominazione di 'megaliti'. Al di là dei problemi connessi con la messa in opera di blocchi rocciosi di grandi dimensioni (che implicano comunque diverse conoscenze, come la riduzione dell'attrito durante il trasporto per mezzo dell'uso di rulli o lo sfruttamento del principio della leva per facilitare l'innalzamento di monoliti verticali), le costruzioni realizzate con tecnica megalitica (dai dolmen ai templi di Malta e ai triliti di Stonehenge) richiedevano una valutazione dell'adeguato dimensionamento degli elementi orizzontali e verticali. Il principio della costruzione a sbalzo, in cui il peso sopportato dalla porzione sporgente è comunque inferiore a quello che grava sulla parte appoggiata, fu applicato nelle costruzioni a falsa volta, come, per esempio, in alcuni monumenti megalitici (anche se quest'ultima qualificazione è talora usata in modo convenzionale, dal momento che questi monumenti non sempre sono realizzati con blocchi di grandi dimensioni) della penisola iberica e della Gran Bretagna risalenti al IV-III millennio, nei nuraghi della Sardegna e nelle tombe a thólos micenee del II millennio. Il principio della volta vera e propria sembra essere applicato soltanto in strutture di piccole dimensioni, come i forni realizzati con l'argilla.
Si è già accennato, in rapporto con le attività di caccia e di raccolta svolte dai gruppi del Paleolitico Superiore e del Mesolitico (cioè circa dal 35.000 al 6000 a.C.), come queste debbano aver implicato una buona conoscenza delle risorse disponibili all'interno del territorio di pertinenza di un gruppo, che almeno in alcuni casi poteva essere di diverse decine di chilometri quadrati, e qualche forma di orientamento. Il reperimento di materie prime localizzate e l'attuazione di forme di relazioni sociali con altri gruppi, che si concludevano possibilmente anche con scambi matrimoniali, potevano ampliare ulteriormente le dimensioni del territorio di cui si aveva nozione. Se la maggiore stabilità legata agli insediamenti agricoli neolitici può avere ridotto le dimensioni del territorio direttamente conosciuto e utilizzato rispetto alle situazioni basate sulla caccia e sulla raccolta, diverse attività possono aver stimolato l'acquisizione di dati sulla conformazione di una zona più vasta di quella di diretto sfruttamento agricolo. Per esempio, il raggiungimento di isole lontane dalla costa, favorito anche da una situazione in cui il livello del mare era più basso dell'attuale, può aver avuto inizio tra la fine del Paleolitico Superiore e il Mesolitico, se si tiene conto della presenza di ossidiana nell'isola di Milo e nella grotta di Franchti, nella Grecia continentale. Tuttavia è nel corso delle prime fasi del Neolitico (VI-V millennio) che, soprattutto nel Mediterraneo centrale, si assiste a un processo di esplorazione di un ambiente sostanzialmente prima non conosciuto, costituito dalle isole minori, come Pelagosa, le isole Tremiti, l'arcipelago maltese, Lampedusa, Pantelleria, Lipari, Palmarola e le isole dell'arcipelago toscano. La capacità di mantenere contatti con la terraferma o tra le isole, documentata dalla presenza reciproca di materie prime non locali (selce, ossidiana, ecc.), anche in assenza di visibilità diretta, implica l'esistenza di forme di orientamento in mare. La conoscenza delle correnti stagionali appare necessaria per effettuare una circolazione di beni in più direzioni e sulla base di forme di reciprocità. Del resto è probabile che la prima attestazione di piante e di animali domestici (cereali, caprovini) nell'Italia sudorientale tra la fine del VII e gli inizi del VI millennio sia dovuta a un fenomeno di esplorazione via mare originatosi a partire dalle coste occidentali della Grecia o dalle isole Ionie.
Se gli spostamenti di gruppi umani verso aree precedentemente non note e le forme di scambio tra comunità adiacenti, che permettono la circolazione di prodotti su vasti territori, sono comunque fenomeni attestati precedentemente e che nel Neolitico (in Italia, circa 6000-3500) assumono nuove forme, un carattere diverso hanno in termini di nozioni geografiche gli scambi a grande distanza. A partire almeno dal II millennio il Mediterraneo (ma già prima le zone precocemente urbanizzate del Vicino Oriente) fu interessato dallo svolgimento di attività di scambio di questo tipo, organizzate dalle società complesse presenti nella parte orientale di questo mare, che presuppongono una conoscenza sufficientemente chiara della posizione reciproca dei diversi punti inseriti in una rete di traffici e delle relative distanze. Meno chiaro è fino a che punto una consapevolezza simile si avesse nei contemporanei contesti europei, soprattutto per quel che riguarda i percorsi terrestri. Per citare il caso più noto, è difficile stabilire se la cosiddetta 'via dell'ambra', che durante l'Età del Bronzo (in Italia, circa 2300-1000) congiungeva il Baltico con l'Adriatico per venire incontro soprattutto alle esigenze del mondo miceneo, fosse collegata con una percezione complessiva del suo insieme o non fosse invece costituita da una serie di comunità intermedie, ognuna delle quali sapeva soltanto che una certa materia prima proveniva 'da nord' ed era richiesta 'a sud'.
Un problema diverso, ma connesso con gli spostamenti di beni e di persone, è quello dei mezzi di trasporto. Si è accennato al fatto che, con attestazione diretta dal Mesolitico (8000-6000), ma molto probabilmente almeno dal Paleolitico Superiore, si costruivano imbarcazioni, che costituivano un'applicazione implicita di quello che sarà poi chiamato principio di Archimede, ricavate da tronchi d'albero scavati all'interno, ma forse anche realizzate con intrecci vegetali, con corteccia o con pelli cucite montate su un'intelaiatura di legno. Resti di pagaie, ugualmente risalenti al Mesolitico, indicano invece lo sfruttamento del principio della leva per imprimere il movimento. La constatazione che il legno immerso nell'acqua si dilata, insieme con lo sviluppo dei mezzi tecnici (strumenti metallici adeguati), portò alla costruzione di imbarcazioni realizzate con tavole accostate e curvate almeno dal III millennio. La potenzialità della forza propulsiva del vento era stata compresa nell'Egitto predinastico, prima del 3000 a.C., con l'adozione della vela. Nel Mediterraneo orientale, almeno dal II millennio, all'applicazione di tale principio propulsore a imbarcazioni in grado di affrontare viaggi in mare di una certa lunghezza si unì una buona conoscenza, oltre che delle correnti, dei venti prevalenti stagionalmente, necessaria per effettuare percorsi in una determinata direzione.
L'uso del carro per i trasporti terrestri, probabilmente dal IV millennio, che costituisce uno sviluppo della slitta, attestata nel Mesolitico, è basato sull'introduzione della ruota, che implica il concetto di riduzione dell'attrito, probabilmente già applicato con l'uso di rulli per lo spostamento di blocchi megalitici dal V millennio. Le ulteriori conoscenze connesse con l'uso della slitta, quando non era tirata dall'uomo, e del carro sono quelle relative al comportamento degli animali utilizzati, inizialmente forse i cani per la slitta nell'Europa settentrionale, poi per il carro i buoi e successivamente gli equini, come avvenne anche per l'aratro. Tali conoscenze consentirono un pieno sfruttamento dell'intuizione alla base dell'uso della ruota; del resto, alcuni di questi animali erano direttamente impiegati come mezzi di trasporto e dovettero quindi essere condizionati in tal senso nel loro comportamento. All'uso dei carri sono probabilmente legati i 'sentieri di legno' già ricordati per l'Europa centrosettentrionale.
Non è semplice avere un'idea del tipo di nozioni relative a tali aspetti possedute dai gruppi preistorici a partire dal Paleolitico Superiore (intorno a 37.000 anni fa). Per quest'ultimo periodo si è precedentemente accennato al ritrovamento di oggetti con una serie di segni; se non si trattasse di notazioni temporali, tali serie di segni potrebbero costituire una sorta di notazioni numeriche. Forme di computo possono essere state legate all'uso di contrassegni d'argilla, di diverse forme geometriche, che si ritrovano nel Vicino Oriente a partire dal IX-VIII millennio e che sono forse alla base dei sistemi numerici di cui abbiamo documentazione per quest'area dal IV millennio. Sistemi analoghi, forse ispirati da quelli vicino-orientali, si ritrovano nel mondo minoico-miceneo del II millennio e questo a sua volta può aver influenzato gli sviluppi in questo senso delle regioni in contatto con esso. Dischetti di ceramica, talora suddivisi in parti, rinvenuti in diversi siti italiani dell'Età del Bronzo (in Italia, circa 2300-1000) e in particolare nell'isolotto di Vivara, presso Procida, in associazione con abbondante materiale ceramico miceneo, ricordano analoghi elementi egei interpretati come 'contatori'. Alcuni ripostigli di oggetti metallici riferibili all'Età del Bronzo rinvenuti in Italia sono composti da sei, o da un multiplo di sei, unità, facendo pensare che esistesse un sistema di computo basato su un'indigitazione con base sei (contando ordinatamente da uno a cinque dal pollice al mignolo di una mano, passando poi per il sei al pollice dell'altra mano e usando via via le rimanenti quattro dita per indicare le sestine, con una capacità totale di conteggio da 1 a 30): un sistema forse di origine vicino-orientale, ma mediato dai rapporti con l'area egea.
Criteri numerici sono alla base di sistemi di pesi e di misure: anche in questo caso è possibile che ci sia stata un'influenza del mondo minoico-miceneo, a sua volta in rapporto con le civiltà statali del Vicino Oriente, sull'Europa dell'Età del Bronzo. Piccoli gioghi metallici di bilancia, di probabile ispirazione egea, sono attestati in Sicilia nelle prime fasi dell'Età del Bronzo e un manufatto d'osso, riferibile a una fase avanzata di questo periodo, interpretato come parte di bilancia, è stato rinvenuto in Serbia. Per alcuni manufatti di pietra dell'Età del Bronzo con e senza appiccagnolo, documentati soprattutto nell'Italia settentrionale, si è ipotizzata la funzione di pesi, mentre per diverse categorie di oggetti di metallo (compreso l'oro) del medesimo periodo attestati in Europa si è cercato d'individuare l'utilizzazione come serie ponderali, forse rapportabili con quelle micenee, oppure come parti di bilance. È presumibile che il concetto di misure lineari, sia pure soltanto come valori di riferimento, utilizzando per esempio la lunghezza dei passi o di alcune parti del corpo umano (la falangetta del pollice, l'indice, l'avambraccio o l'intero braccio, l'apertura delle braccia a mani tese), si sia in genere venuto definendo localmente in modo autonomo: sono stati fatti tentativi di individuare unità di misura lineari per i monumenti megalitici della Gran Bretagna riferibili al III millennio o per i nuraghi sardi del II millennio, ma, anche se ci sono oscillazioni preferenziali intorno ad alcuni valori, resta poco probabile che ci fosse un preciso sistema di convenzioni di questo tipo valido in ampie zone. Più complessa sembra essere la definizione di unità di capacità per i liquidi e gli aridi, anche a livello locale, trattandosi in genere di volumi per di più connessi con contenitori a sezione circolare ed essendo quindi difficile che ci fosse un preciso controllo dimensionale di tali forme; per esempio, un esperimento condotto su vasi ceramici dell'Età del Bronzo dell'Italia meridionale non ha rivelato forti concentrazioni di esemplari intorno a determinati valori di capacità ed è probabile che non si andasse nella maggior parte dei casi oltre indicazioni corrispondenti a espressioni quali piccolo, medio, grande, ecc., non esistendo i mezzi tecnici o l'interesse a produrre manufatti di dimensioni precise, organizzati in un sistema di multipli e sottomultipli quanto alla capacità.
Ugualmente difficile è farsi un'idea delle nozioni di geometria acquisite. Il concetto di circonferenza come luogo dei punti equidistanti da un punto di centro in base a un valore corrispondente al raggio (che costituisce di fatto l'espediente applicativo per costruirla) è documentato da diverse attestazioni di forme circolari piuttosto regolari, dai circoli megalitici alle decorazioni realizzate con il 'compasso'. Angoli, diagonali, linee parallele sono documentati in diversi tipi di insiemi megalitici, tra cui si possono citare in particolare gli allineamenti di mènhir della Bretagna, lunghi oltre 1 km. La costruzione di strutture con angoli retti realizzate in modo accurato da un dato punto, come, per esempio, l'edificio realizzato in rapporto con la piattaforma di Monte d'Accoddi in Sardegna, riferibile alla seconda metà del IV millennio, fa pensare che, in modo empirico, fosse conosciuto il teorema di Pitagora.
Il problema del livello di tale tipo di conoscenze in alcuni contesti preistorici è stato ampiamente discusso, soprattutto in rapporto con le strutture megalitiche, nella realizzazione delle quali potrebbe essere stato tenuto conto di fattori di questo tipo, in particolare della posizione del Sole o della Luna in determinati giorni. Tra i casi più noti si possono ricordare il 'santuario' di Stonehenge, ascrivibile al III millennio, in cui diversi allineamenti sembrano essere ricollegabili con fatti astronomici, tra cui l'orientamento dell'asse principale verso il punto dell'orizzonte in cui sorge il Sole al solstizio d'estate, e la tomba a corridoio di Newgrange, in Irlanda, risalente alla seconda metà del IV millennio, in cui il raggio del Sole penetra fino alla cella all'alba del solstizio d'inverno. Altri complessi megalitici mostrano allineamenti con particolarità salienti del territorio circostante, come la sommità di una collina, e punti riconoscibili nei movimenti della Luna, come il luogo in cui tramonta in determinati periodi. Queste nozioni di astronomia rimandano, a loro volta, a una capacità di scandire l'anno in fasi segnate dalla variazione delle posizioni del Sole e della Luna. Più perplessi lascia l'ipotesi che Stonehenge o gli allineamenti di mènhir della Bretagna costituiscano una sorta di osservatori astronomici, dal momento che le nozioni necessarie erano già state acquisite prima della loro realizzazione e che questi insiemi monumentali non appaiono adatti per effettuare attività dirette in tal senso.
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