Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Disciplina relativamente giovane, e riconosciuta a livello istituzionale, solo con gli inizi dell’Ottocento la geologia ha subito trasformazioni considerevoli nel corso del XX secolo, sino a perdere, per molti versi, la propria specificità originaria confluendo non senza resistenze e conflitti interni alla comunità scientifica nelle scienze della Terra.
Dalla teoria dei carreggiamenti alla deriva dei continenti
A lungo, il paradigma dominante della geologia vede nella determinazione precisa della sovrapposizione degli strati la chiave per comprendere le vicissitudini della crosta terrestre, soggetta per alcuni a periodiche catastrofi, per altri a lenti processi che determinano col passare di milioni di anni cambiamenti radicali nella disposizione di terre e mari. Nessuno dubita tuttavia – salvo rare e controverse eccezioni – che la disposizione attuale delle terre emerse e dei bacini dei mari fosse inalterata dalla creazione o dalla formazione del pianeta.
Nei decenni a cavallo tra il XIX e XX secolo, la teoria dei carreggiamenti e delle nappe introduce l’idea che intere regioni o catene di montagne possano spostarsi per centinaia di chilometri sulla superficie della Terra, al punto da comprendere che la sovrapposizione degli strati non indica affatto l’ordine di formazione, ma solo i mutamenti sopravvenuti nel corso del tempo. Così, è possibile che il versante di una catena montuosa si sia letteralmente rovesciato su una pianura, per cui gli strati più vicini alla superficie sono in effetti quelli di più antica formazione: come avviene quando si sospinge una tovaglia (nappe in francese) verso un lato del tavolo, provocando la formazione di pieghe che cadono l’una sull’altra.
Ma quale forza avrebbe potuto produrre l’enorme spinta capace di simili carreggiamenti? Si torna per alcuni decenni a una vecchia ipotesi: raffreddandosi, la superificie della Terra si restringe, e intere regioni, abbassandosi, esercitano pressioni enormi su regioni vicine che risentono meno del fenomeno a ragione della diversa composizione dei loro strati. La pressione esercitata genera i carreggiamenti, e sviluppa una enorme energia, capace di tenere strati profondi in uno stato di fusione, o di produrre tensioni enormi in intere masse rocciose. Vulcanismo e terremoti sono dunque la conseguenza del processo di relativo sprofondamento degli strati superficiali, dovuto al raffreddamento progressivo della crosta terrestre.
La scoperta della radioattività, e la formulazione della teoria della deriva dei continenti hanno cambiato radicalmente – non senza forti opposizioni – lo schema di riferimento e le concezioni di fondo della geologia.
La teoria della deriva dei continenti, proposta a partire dal 1912 da Alfred Wegener , un meteorologo tedesco considerato come un estraneo dalla comunità internazionale dei geologi, ritiene che gli strati superficiali del pianeta, inclusi i fondali degli oceani, “galleggino” su un magma in fusione solida. I diversi continenti attuali sarebbero il risultato di un movimento di deriva di grandi zolle galleggianti sul magma profondo, distaccatesi da un unico continente originario. Wegener ammette di ignorare quale fosse la forza o l’energia capaci di tali movimenti. Nel 1926 Arthur Holmes , geologo inglese, viene in soccorso di Wegener, sostendendo che la radioattività interna alla Terra produce temperature altissime e determina lo stato di fusione degli strati profondi necessario al prodursi di correnti magmatiche capaci di spostare interi continenti. Sia Holmes sia Wegener non riscuotono consensi che negli anni Sessanta e Settanta, grazie allo sviluppo della oceanografia e della geofisica postbellica, che applica allo studio dei fondali marini e delle forze che plasmano la superficie terrestre le risorse tecniche e scientifiche prodotte dai grandi progetti di ricerca tecnoscientifica messi in atto durante la seconda guerra fondiale e la guerra fredda.
Per quel che concerne la radioattività, è stato possibile servirsi del tasso di decadimento di alcuni elementi o isotopi per datare con precisione la formazione di certe rocce, ed è ancora Holmes un pioniere nelle tecniche di datazione dell’età relativa di diversi strati e formazioni. Si deve a Claire Cameron Patterson , tuttavia, nel 1953, la definizione di complesse misurazioni che utilizzano la spettroscopia di massa e che consentono la datazione della nascita del nostro pianeta a 4,55 miliardi di anni fa.
A partire dagli anni Settanta del XX secolo, ricerche condotte sui fondali degli oceani portano a una straordinaria scoperta: le rocce in prossimità dei punti di contatto tra le zolle continentali (chiamate ora placche) erano di recente formazione. Complicati passaggi teorici e osservazioni sistematiche portano a teorizzare che del magma fuoriesce costantemente nelle zone di contatto, producendo spinte che allontanano le placche stesse di alcuni centimetri ogni anno, e generando quelle enormi tensioni responsabili dei terremoti e dei fenomeni vulcanici. Rispetto alla geologia classica, il capovolgimento di prospettive non poteva essere più radicale: ciò che osserviamo sulle terre emerse è il risultato di fenomeni che si producono nel fondo dei mari. Se il geologo dell’Ottocento e della prima metà del Novecento aveva bisogno di profonde conoscenze di terreno, saperne di paleontologia e di geomorfologia, e utilizzava strumenti tutto sommato semplici – dal semplice martello all’analisi chimica delle rocce – le nuove discipline che convergono nella costituzione delle scienze della Terra utilizzano strumentazione da big science: dalla spettroscopia di massa a sofisticati sonar e strumenti di rilevamento dei fondali sviluppati da tecnologie militari, per non parlare delle tecnologie di rilevamento satellitare, anch’esse derivate dalla tecnoscienza bellica.
Le ripercussioni sulla cartografia e sulla difesa del territorio
All’interno della comunità dei geologi e delle organizzazioni statali preposte al rilevamento e alla pubblicazione delle carte geologiche dei vari Stati, le conseguenze sono drammatiche. La comunità dei geofisici e degli oceanografi, e in genere dei sostenitori delle scienze della Terra, non hanno nascosto né nascondono una forte disistima per colleghi ancora attardati a rilevare pazientemente la costituzione geologica di varie regioni, chilometro quadrato dopo chilometro quadrato. Molte istituzioni statali, come la Geological Survey degli Stati Uniti, o della Gran Bretagna, si sono rapidamente adattate al mutamento teorico e tecnologico, avendo per altro portato a termine già da decenni il compito, che resta tuttavia imprescindibile, di produrre accurate carte geologiche del loro territorio nazionale. In Paesi come l’Italia e il Portogallo, le cui carte geologiche sono estremamente carenti, o addirittura mancanti per intere regioni, si è proceduto con scarsa lungimiranza alla chiusura dei servizi geologici cartografici, o alla loro riduzione ad appendici mal tollerate di grandi imprese di ricerca dominate dalle priorità teoriche della geofisica. In particolare, nel caso dell’Italia, le complesse vicende della non realizzazione di una moderna carta geologica del territorio nazionale costituiscono un caso interessante quanto ignorato delle difficoltà enormi che la ricerca scientifica ha incontrato e incontra nel nostro Paese, al punto da non permettere una politica di difesa del territorio – e di centinaia di vite umane – per mancanza di una conoscenza approfondita della struttura geologica di un territorio instabile e soggetto a fenomeni vulcanici e sismici di grande rilievo. Le vicende istituzionali, teoriche e tecnologiche delle scienze della Terra della fine del XX secolo restano largamente ignote, nonostante l’impatto considerevole di tali discipline sulla vita economica dei Paesi industrializzati e le affascinanti trasformazioni concettuali.