Le nuove dimensioni del probation per l'imputato adulto
La crisi della pena e del sistema penale, unita all’esigenza di prevedere nel nostro ordinamento istituti che – per determinate categorie di reati – possano porsi come alternative al processo, è alla base della volontà di introdurre il probation anche nel procedimento penale degli adulti. L’istituto, largamente diffuso nel rito minorile, nonché negli ordinamenti d’oltralpe, è previsto nel disegno di legge A.S. 925 del 2013 e si presenta come un’importante novità per l’imputato maggiorenne. Il contributo che segue delinea una sintesi della disciplina prevista, nonché un’analisi delle principali novità relative al contenuto del programma di trattamento, alla possibilità di acquisire prove durante il periodo di sospensione, al ruolo della vittima di reato e alla possibilità di ricorrere all’istituto già nella fase delle indagini preliminari.
L’Atto Senato n. 925, trasmesso dalla Camera dei deputati il 5 luglio 2013 ed attualmente in discussione presso la Commissione giustizia del Senato, ha ad oggetto la disciplina in tema di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. Consta di quindici articoli, suddivisi in quattro capi, di cui il secondo concerne la disciplina dell’istituto del probation. L’impianto normativo è strutturato sull’esigenza di individuare soluzioni alternative al carcere e nel contempo deflattive del processo, ispirandosi al principio di residualità della sanzione penale e di minor sacrificio possibile della libertà personale. Si tratta, pertanto, di disposizioni che conciliano non solo i principi di proporzionalità e legalità della pena, ma anche di rieducazione ed umanizzazione della stessa, in linea con quanto stabilito dall’art. 27 Cost.
A fare da cornice alla proposta di legge è il panorama europeo: in primis, le sentenze della Corte di Strasburgo1 che condannano l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, per non aver garantito ai detenuti uno spazio minimo «considerato accettabile dal Comitato per la prevenzione della tortura». Inoltre, accanto all’esigenza di ovviare alla drammaticità del sovraffollamento carcerario vi è quella, sollecitata dai documenti europei2, di individuare istituti alternativi al processo penale, idonei a dare una diversa risposta a determinate categorie di reati.
È sottesa al progetto di legge, quindi, la volontà di iniziare ad introdurre nel nostro ordinamento un nuovo modello di giustizia penale, meno repressivo, rieducativo ed attento alle esigenze della vittima.
1.1 L’istituto della messa alla prova alla luce dei precedenti disegni di legge
La possibilità di introdurre l’istituto de quo anche per l’imputato maggiorenne3 è stata più volte presa in considerazione in diversi disegni di legge, che costituiscono la base ideologica ed ermeneutica su cui poggia quello oggi in esame.
Primo fra tutti è il Progetto di riforma della parte generale del codice penale elaborato dalla Commissione Pisapia, il 27 luglio 2006, ove, all’art. 42, tra le cause di estinzione del reato, compare l’esito positivo della messa alla prova (anche per l’imputato maggiorenne).
Immediatamente successivo è il disegno di legge del Governo n. 2662 del 17 maggio 20074, il quale prevede l’introduzione nel codice di rito dell’art. 420 sexies intitolato Sospensione del procedimento con messa alla prova. Invero, l’Atto Senato n. 925 riprende alcune caratteristiche di tale proposta, soprattutto in relazione alla disciplina dei contenuti del progetto di messa alla prova (che è stata al centro di lunghe riflessioni delle Commissioni parlamentari5). Il progetto di legge del 2007, infatti, amplia per la prima volta il contenuto del programma di trattamento inserendo le prescrizioni riparatorie, nonché quelle finalizzate alla conciliazione con l’offeso6.
Il presupposto ideologico del disegno di legge in esame è, tuttavia, l'A.C. n. 5019 del 2012, il quale, però, non viene recepito acriticamente, ma è analizzato alla luce delle considerazioni emerse nel corso delle audizioni svolte presso la Commissione giustizia della Camera dei deputati. Tali considerazioni sono state dei punti di riferimento costanti e hanno permesso di disciplinare compiutamente l’istituto, colmando le lacune evidenziate. Il disegno di legge A.S. n. 925 rappresenta, quindi, il prosieguo dei precedenti lavori e, a differenza degli altri, sembra giungere in un momento storico-giuridico maggiormente favorevole a recepire istituti tipici della giustizia riparativa.
1.2 La finalità dell’istituto
La disciplina prevista per la messa alla prova, come ampiamente dichiarato nelle relazioni illustrative, non segue in toto quella del probation minorile, ma mira ad adeguarsi alle esigenze tipiche del processo penale, in modo da coadiuvare le finalità rieducative e risocializzanti con quelle preventive. Un’attenzione particolare viene dedicata alla vittima del reato, alla riparazione e alla mediazione penale, permettendo, così, all’istituto di inserirsi nel solco della giustizia ripartiva, ossia di quel modello di giustizia più mite e meno repressivo, alternativo al processo e basato su un paradigma rieducativo, riabilitativo e conciliativo7. Infatti, la messa alla prova, lungi dall’essere un istituto clemenziale, offre agli imputati un percorso di reinserimento alternativo e nel contempo svolge una funzione deflattiva dei procedimenti penali, conferendo al processo e alla pena un ruolo di extrema ratio, limitato alle sole ipotesi di esito negativo della prova.
La nuova disciplina mira ad introdurre nel codice penale gli artt. 168 bis, ter e quater , nel codice di rito gli artt. 464 da bis a novies, 657 bis e nelle disp. att. gli artt. 141 bis e ter.
La disciplina del probation riprende le caratteristiche di quello già previsto nel rito minorile, seppure con i dovuti distinguo, primo fra tutti quello relativo all’ambito di applicazione (art. 168 bis c.p.), limitato ai soli reati puniti con pena pecuniaria sola o congiunta alla pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, nonché ai delitti indicati dall’art. 550, co. 2, c.p.p. Limitazione doverosa, stante l’età adulta dell’imputato, limitazione che, accogliendo parzialmente le critiche delle relazioni ai precedenti disegni di legge8, ha inserito anche i reati di cui al co. 2 dell’art. 550. La formula utilizzata sembra escludere che abbiano rilievo – ai fini dell’applicabilità dell’istituto – le circostanze aggravanti, incluse quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria. Sulla questione va rilevato che l’Atto Senato n. 111 – il cui esame è stato congiunto con quello dell’Atto Senato n. 925 – attribuisce invece rilievo anche alle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e di quelle ad effetto speciale.
Tuttavia, poiché sembra che si voglia prevedere un’ampia applicazione del probation, ci si chiede se non sia opportuno fare una scelta più coraggiosa e alzare il tetto di pena massima dei reati assoggettabili alla messa alla prova.
Altro distinguo tra la norma in esame e il probation minorile è che, mentre quest’ultimo è disposto dal giudice, sentite le parti, nella norma in commento l’istituto è richiesto dall’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, entro i termini perentori indicati dall’art. 464 bis c.p.p. ed il giudice decide se ammettere l’interessato alla prova «sentite le parti, nonché la persona offesa».
Durante il periodo di sospensione del processo (massimo due anni, ovvero uno se per il reato è prevista solo la pena pecuniaria) è sospeso il corso della prescrizione, in modo da evitare che l’istituto si trasformi in una sorta di gratuita impunità per l’imputato e, se l’esito della prova è positivo, il giudice dichiara con sentenza estinto il reato, senza pregiudicare l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie. La messa alla prova comporta lo svolgimento di determinate prestazioni contenute nel programma di trattamento, il quale è elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna; l’istituto non può essere concesso più di due volte, né più di una volta se si tratta di reati della stessa indole, né si applica ai casi di cui agli artt. 102, 103, 104, 105 e 108 c.p.
Col chiaro intento di evitare facili strumentalizzazioni, la norma stabilisce che la messa alla prova può essere revocata in caso di «gravi o reiterate trasgressioni al programma di trattamento o alle prescrizioni». In caso di revoca, ovvero di esito negativo della prova, l’istanza non potrà più essere riproposta. A differenza di quanto previsto nel disegno di legge A.C. n. 5019 del 2012, il testo in esame non prevede che la commissione di talune ipotesi delittuose, durante il periodo della prova, possa implicare automaticamente la revoca della stessa, in quanto ogni trasgressione è filtrata dalla valutazione del giudice. Va segnalato che in caso di prova negativa o di revoca, il p.m. deve scomputare dalla pena da eseguire il periodo di messa alla prova: tre giorni di prova sono equiparati a un giorno di reclusione-arresto, ovvero a 250 euro di multa-ammenda.
2.1 Prescrizioni riparative e lavoro di pubblica utilità
Un’importante novità, prevista dai progettati artt. 168 bis c.p. e 464 bis c.p.p., attiene alla disciplina dei contenuti dell’istituto. Questi vengono previsti dal legislatore ex ante – a differenza di quanto accade nella disciplina del probation minorile – e possono essere suddivisi in quattro macro categorie: reinserimento sociale dell’imputato; prescrizioni riparatorie; affidamento al servizio sociale; condotte finalizzate alla promozione della mediazione con la persona offesa. Tali prescrizioni non sono tra loro alternative, ma, ove possibile, devono essere previste in modo congiunto. Tuttavia è possibile che siano modificate nel corso della prova, previo consenso dell’imputato. La flessibilità dei contenuti del programma, congiuntamente alla previsione dell’audizione dell’imputato e del suo consenso, lasciano trasparire una base negoziale dell’istituto, sia sull’an che sul quomodo.
La componente risocializzante della messa alla prova è esaltata dalla lett. a) dell’art. 464 bis ove si prevedono le modalità di coinvolgimento, tanto dell’imputato quanto della famiglia e del suo ambiente di vita, nel processo di reinserimento sociale.
Merita una più attenta disamina la previsione delle prescrizioni riparative (art. 464 bis, lett. b). Queste riprendono parzialmente l’art. 35 d.lgs. 28.8.2000, n. 274 e colmano una lacuna presente nel precedente progetto di legge ed oggetto di analisi nelle Commissioni giustizia. Nel dare attuazione ad alcune sollecitazioni europee9 e conferendo, così, uno spazio maggiore sia al risarcimento del danno che alla vittima del reato, si prevede che l’imputato ponga in essere condotte volte all’elisione o all’attenuazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato, in via cumulativa e non alternativa rispetto alle altre prescrizioni contenute nel progetto. Tuttavia, per quanto attiene al risarcimento sussiste una discrepanza tra la previsione di cui all’art. 168 bis, co. 2, c.p. e quella di cui all’art. 464 bis, co. 4, lett. b), c.p.p., in quanto nella prima ipotesi si prevede che all’eliminazione delle conseguenze del reato si aggiunga anche la prestazione risarcitoria, ove possibile, prospettando così due distinte attività. L’art. 464 bis c.p.p., invece, sembra non prevedere più due distinte condotte, in quanto si ritiene che risarcimento, riparazione e restituzione possano, di per sé, elidere le conseguenze del reato. Dall’esperienza dell’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, si evince che non sempre le condotte riparatorie sono idonee ad eliminare gli effetti pericolosi e dannosi del reato10; pertanto sarebbe opportuno mantenere separate le due condotte.
Altra prescrizione da inserire nel programma attiene all’affidamento al servizio sociale, previsto dall’art. 168 bis, co. 2, c.p., che può comportare l’adempimento di diverse attività, tra le quali spiccano il lavoro di pubblica utilità, il volontariato, nonché l’osservanza di determinate prescrizioni limitative della libertà personale. Il comma successivo esplica il contenuto del lavoro di pubblica utilità che consta di una prestazione non retribuita in favore della collettività, da svolgere presso enti statali o organizzazioni non lucrative. Quanto alla durata, si prevede che questa non sia inferiore a trenta giorni, anche non continuativi, e che non superi le otto ore giornaliere. Manca, tuttavia, la previsione di una durata massima e tale lacuna comporta l’assenza di presupposti sulla base dei quali il giudice può determinare il periodo del lavoro, in quanto, non essendo in tal caso irrogata alcuna sanzione non si può applicare la disciplina di cui agli artt. 165 c.p. e 186 c.d.s.
Sulla scia di alcuni ordinamenti europei (ad esempio Norvegia e Spagna) vengono previste dall'art. 168 bis, co. 2, c.p. prescrizioni comportamentali limitative della libertà personale e relative alla dimora, alla libertà di movimento e al divieto di frequentare determinati locali che sembrano richiamare, nei contenuti effettivi e nelle finalità, alcune misure cautelari personali, e sono state inserite con lo scopo di tutelare la persona offesa da eventuali ingerenze da parte dell’imputato. Pensate specificamente per i reati contro la persona, hanno una valenza tanto preventiva quanto rieducativa in riferimento soprattutto ad alcune fattispecie criminose astrattamente assoggettabili all’istituto; si pensi, ad esempio, alle ipotesi delittuose di cui agli artt. 610, 612, 612 bis, 615 bis c.p.
Nel rispondere all’esigenza di riservare alla persona offesa uno spazio adeguato all’interno della messa alla prova, il disegno di legge prevede che il programma contenga anche «condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa»11 (art. 464 bis, lett. c). Anche tale prescrizione risente della matrice europea ed introduce nel codice di rito la mediazione penale. L’istituto, già noto nella giurisdizione di pace e ampiamente diffuso nelle esperienze d’oltralpe12, permette all’imputato di rapportarsi con le dirette conseguenze dell’illecito, iniziando un percorso di ripensamento e resipiscenza; nel contempo offre uno spazio di ascolto alla vittima del reato.
I contenuti delle prescrizioni e la ricchezza del programma di trattamento consentono di strutturare un percorso che possa soddisfare le diverse esigenze: preventive, riparative, risocializzanti e rieducative, onde evitare che la messa alla prova diventi un istituto pro forma finalizzato all’esclusivo smaltimento dei carichi pendenti.
Chiaramente la buona riuscita dell’istituto dipende dall’adeguata previsione ed esecuzione delle prescrizioni e dalla presenza di strutture sul territorio idonee a soddisfare, in termini di risorse economiche ed umane, la domanda di giustizia. Il pericolo da evitare è che la messa alla prova si possa tradurre in una impunità dell’imputato, determinando drammatiche conseguenze sul piano della recidiva, della prevenzione e della vittimizzazione secondaria.
2.2 Le novità procedurali
Nell’accogliere alcune riflessioni parlamentari, strettamente collegate alle criticità procedurali del probation13, la nuova disciplina introduce alcune importanti novità non previste nei precedenti disegni di legge.
Preliminarmente si dedica attenzione alla necessità di un vaglio circa la responsabilità penale dell’imputato; infatti, seppure l’istituto rientra in una logica di giustizia penale riparativa, dalle caratteristiche più miti, ci troviamo pur sempre all’interno di una misura penale che implica prescrizioni comportamentali, limitazioni della libertà e attività risocializzanti, pertanto deve coordinarsi con il principio per cui tali misure si applicano con una sentenza di condanna e non al presunto innocente. Il consenso dell’imputato può attenuare tale principio, ma diventa opportuno un accertamento, sia pure allo stato degli atti, della responsabilità. Pertanto, si prevede che il giudice, a norma dell’art. 464 quater, decida con ordinanza sulla richiesta di sospensione del processo «se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129».
Altra innovazione degna di nota è la previsione dell’audizione della persona offesa – prima che il giudice decida sull’ammissione alla prova – se questa compare o se ne fa richiesta (art. 464 quater, co. 1, c.p.p.). La mancata audizione, ovvero l’omesso avviso dell’udienza, possono costituire motivo di impugnazione (art. 464 quater, co. 7, c.p.p.). La vittima non ha un potere di veto, tuttavia, la previsione dell’ascolto le conferisce un ruolo di protagonista del processo penale e non di soggetto passivo. Tanto l’audizione della persona offesa, quanto le prescrizioni riparative e il tentativo di mediazione, lasciano trasparire una maggiore attenzione nei confronti dell’offeso, iniziando così a dare attuazione ai numerosi documenti europei14 che invitano gli stati membri a potenziare il ruolo processuale della vittima e dare un adeguato spazio a procedure giudiziarie ed extragiudiziarie in grado di agevolare la riparazione del danno, la conciliazione e il soddisfacimento delle esigenze dell’offeso.
Un ulteriore profilo da segnalare attiene all’introduzione di parametri a cui il giudice deve subordinare l’ordinanza di ammissione alla prova. L’istituto è, quindi, sottratto alla totale discrezionalità dell’organo giudicante e vengono introdotte, in sede di ammissione, le valutazioni dei parametri di cui all’art. 133 c.p., dell’idoneità del programma di trattamento presentato, nonché di una prognosi di non recidiva. Per quanto attiene al concetto di “idoneità” questo si riferisce alla congruità del progetto rispetto alla gravità del fatto, all’entità della condotta, alla finalità rieducativa e risocializzante dell’istituto, nonché alle caratteristiche personali dell’imputato e alla concreta “fattibilità” delle prescrizioni indicate. L’art. 464 quater, con il riferimento ai parametri per l’ammissibilità, introduce una regola di valutazione ex ante prestabilita, in modo da limitare interventi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità (come invece è accaduto per altri istituti quali ad esempio il probation minorile e il patteggiamento).
Va segnalata anche la disciplina in tema di acquisizione di prove durante il periodo del probation. La previsione (art. 464 sexies) fa riferimento alle prove non rinviabili e a quelle che possano condurre al proscioglimento dell’imputato, tutelando sia il contenuto probatorio idoneo a sostenere l’accusa o la difesa nell’eventuale giudizio consequenziale ad un esito negativo della prova, sia le esigenze connesse alla presunzione di innocenza. Utile sarebbe stato un richiamo alla disciplina di cui all’art. 467 c.p.p., soprattutto per quanto concerne la disciplina degli avvisi che nella norma in commento rimane lacunosa.
2.3 Messa alla prova e fase delle indagini
Merita qualche approfondimento la previsione, del tutto innovativa, relativa all’introduzione del probation nella fase di indagini, disciplinata da due norme: l’art. 464 ter c.p.p. e l’art. 141 bis disp. att. c.p.c.
Si prevede che il p.m., prima dell’esercizio dell’azione penale, possa (e non debba) avvisare l’indagato della facoltà di chiedere di essere ammesso alla prova. Orbene, poiché la norma subordina l’avviso al fatto che «ricorrano i presupposti», ci si chiede se non sia opportuno disancorare il suddetto avviso da una scelta discrezionale del p.m. e, pertanto, qualora sussistano tutti i presupposti, l’interessato “debba” essere informato di tale eventualità. Anche perché né l’art. 168 bis c.p., né la previsione di cui all’art. 464 bis c.p.p. prevedono un consenso del p.m., seppure questi può essere sentito ai sensi dell’art. 464 quater.
Opportuno sarebbe inserire una previsione che subordini, in tale fase procedimentale, l’ammissione alla prova al fatto che l’interessato dimostri di aver tenuto condotte volte all’eliminazione delle conseguenze e al risarcimento del danno cagionato alla persona offesa.
Nella corso delle indagini, anche a prescindere dall’invito fatto dal p.m., l’indagato può presentare richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Un vulnus che presenta la norma (art. 464 ter c.p.p.) è dato dalla mancata specificazione dei soggetti legittimati a presentare la richiesta, mancando anche un richiamo all’art. 464 bis, co. 3. Quindi ci si chiede se sia legittimato anche il procuratore speciale.
La disciplina prevede che la richiesta sia presentata al giudice e che questi la trasmetta al p.m. affinché esprima il consenso o il dissenso nel termine di cinque giorni (seppure non è prevista alcuna sanzione nell’ipotesi in cui decorra inutilmente il termine). La previsione del consenso, tuttavia, diventa necessaria nell’ipotesi in cui l’indagine sia nel pieno del suo corso, ma non quando ci si trovi nel momento immediatamente antecedente all’esercizio dell’azione penale. Pertanto, allorquando il p.m. avvisi l’indagato, prima di esercitare l’azione penale, della facoltà di richiedere l’ammissione all’istituto, ovvero dopo l’avviso ex art. 415 bis c.p.p., poiché di fatto l’attività di indagine è terminata, non si dovrebbe subordinare l’istituto al consenso del p.m. In tal caso sembrerebbe più corretto parlare di “parere non vincolante”.
Una riflessione è però doverosa. La messa alla prova, a differenza di altri istituti deflattivi, comporta una ricaduta sulla pubblica amministrazione e su determinate strutture che non sembra essere a costo zero. Se lo scopo è l’ampia applicazione dell’istituto, ci si chiede se le strutture siano in grado di gestire la domanda di giustizia. L’efficacia dell’istituto è strettamente connessa al corretto e serio adempimento dei contenuti del programma di trattamento e non può tradursi in una facile scappatoia dal sistema penale.
Il probation minorile funzione bene perché il minore viene immediatamente preso in carico dai servizi sociali, che riescono a gestire, nonostante le scarse risorse, una domanda di giustizia comunque più contenuta rispetto a quella conseguente al probation per adulti. Sicuramente le previsioni di cui agli artt. 6 e 7 del disegno di legge mirano a garantire un adeguamento delle piante organiche degli uffici interessati; bisogna, però, vedere quale sarà l’attuazione pratica delle due previsioni.
L’ufficio di esecuzione penale esterna ha il compito oneroso di provvedere alla gestione delle richieste di messa alla prova, redigere il progetto, effettuare le dovute analisi sulla fattibilità delle prescrizioni da inserire, informare il giudice e redigere la «relazione dettagliata sul decorso e sull’esito della prova». Ictu oculi è evidente l’urgenza di adeguare le piante organiche degli uffici, di stipulare convenzioni con gli enti locali o privati, di strutturare anche i servizi sociali (sui quali ci sarà una notevole ricaduta), di individuare i soggetti che seguiranno l’attività trattamentale e di predisporre in tempi molto brevi risorse, sia umane che economiche, da destinare alle strutture suddette. Per quanto concerne il lavoro di pubblica utilità, onde evitare che tale prescrizione sia di difficile attuazione per carenza di strutture, bisognerebbe individuare gli enti coinvolti in ogni distretto, stipulando, auspicabilmente, convenzioni con i tribunali. La severità su tali ampliamenti sembra doverosa.
Inoltre, manca un coordinamento con la disciplina della sospensione condizionale della pena che potrebbe tradursi in un eccesso di benefici, che, di fatto, lascerebbero impunito l’imputato che continua a delinquere. Infatti, gli episodi di trasgressione (esenti da sanzione) potrebbero arrivare fino a quattro e tale clemenza appare eccessiva. A questo proposito possono richiamarsi le considerazioni sul punto contenute nella Relazione finale della Commissione Pisapia per la riforma del codice penale ove si prevedeva che, se la sospensione del processo con messa alla prova era stata concessa per reato punito con pena detentiva, una eventuale successiva sospensione condizionale della pena non poteva essere concessa più di una volta.
Si segnala, infine, come, in ordine alla disciplina del nuovo istituto del probation, non sono rinvenibili nel disegno di legge disposizioni di coordinamento né con il sistema delle sanzioni sostitutive di cui alla l. 24.11.1981, n. 689, né con quello delle misure alternative alla detenzione, a differenza di quanto previsto, in relazione alle nuove pene detentive non carcerarie, dalle lett. i) e l) dell’art. 1, co. 1.
1 Si veda C. eur. dir. uomo, 8.1.2013, Torreggiani e altri c. Italia; C. eur. dir. uomo, 16.7.2009, Sulejmanovic c. Italia.
2 Per citarne solo alcuni: direttiva 2012/29/UE; raccomandazione 99/19; risoluzione 99/26. In dottrina, Del Tufo, M., La tutela della vittima in una prospettiva europea, in Indice pen. 1999, 889 ss.; Ceretti, A.-Mazzucato, C., Mediazione e giustizia riparativa tra Consiglio d’Europa e ONU, in Dir. pen. e processo, 2001, 773 ss.
3 Per un’analisi del probation minorile: artt. 28 e 29 del d.P.R., 20.9.1988, n. 448. In dottrina Cesari, C., Sub art. 28, in Il processo penale minorile, commento al d.p.r. 448/1998, a cura di G. Giostra, Milano, 2012, 342 ss.; Spangher, G., Lineamenti del processo minorile riformato, in Giust. pen., 1992, III, 196 ss.
4 Si vedano gli artt. 27 e 28 del Disegno legge del Governo, Atto Camera n. 2664 del 17 Maggio 2007, in www.camera.it.
5 Relazione II Commissione, Camera dei deputati, seduta del 20 giugno 2012.
6 Per una generale analisi sulla valorizzazione del ruolo della vittima: Del Tufo, M., La tutela della vittima in una prospettiva europea, in Questione giust., 2003, 705; Aimonetto, M.G., La valorizzazione del ruolo della vittima in sede internazionale, in Giur. it., 2005, 1327; Gaeta, P., La tutela delle vittime del reato nel diritto dell’unione europea: spunti per una ricostruzione storico-sistematica, in Cass. pen., 2012, 2701.
7 Turlon, F., Restorative justice e oltraggio a pubblico ufficiale, in Dir. pen. e processo, 2011, 99 ss.; Eusebi, L., La pena in crisi: il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990.
8 Si veda la Relazione II Commissione, Camera dei deputati, seduta del 21 giugno 2012.
9 Ultima tra tutte la direttiva 2012/29/UE del 25.10.2012.
10 Si pensi ad esempio ai reati di pericolo o a quelli permanenti. Sul punto di veda Bartoli, R., Le definizioni alternative del procedimento, in Dir. pen. e processo, 2001, 172 ss.
11 Tale aspetto era stato oggetto di osservazioni nelle relazioni al disegno di legge n. 5019 del 2012, in Relazione in aula, Camera dei deputati, Assemblea 21 giugno 2012.
12 Sul punto, Mazzucato, C., Mediazione e giustizia ripartiva in ambito penale, in Picotti, L.-Spangher, G., a cura di, Verso una giustizia penale conciliativa. Il volto delineato dalla legge sulla competenza del giudice penale, Milano, 2002, 91; Mannozzi, G., La giustizia riparativa, in Bartoli, R.-Palazzo, F., a cura di, La mediazione penale nel diritto italiano ed internazionale, Firenze, 2011, 37 ss.
13 Relazione in aula, Camera dei deputati, seduta del 20 giugno 2012.
14 V. supra, nt. 2.